domenica 9 ottobre 2016

Gubbio, Rennes-le-Château italiana?

LE SIMILITUDINI E LE STRANEZZE DI UNA ANTICHISSIMA CITTA' DEL CENTRO ITALIA: GUBBIO

di Mario Farneti e Bruno Bartoletti 
(da Hera n. 43 - luglio 2003)

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Gia' quando Roma era un agglomerato di capanne che si affacciava su una palude malsana nei pressi di un’ansa del Tevere, il nostro monte era ritenuto sacro. Parliamo del Monte Ingino o Monte di S. Ubaldo, l’altura alle cui falde sorge la citta' di Gubbio, nota nell’antichita' come Ikuvium, citta'-stato edificata dagli Umbri, popolo indoeuropeo sceso dalla Germania verso la fine del secondo millennio prima della nostra era. La sua lingua, impressa nel bronzo di sette tavole, le Tabulae Iguvinae, riverbera gli echi solenni di antichi idiomi germanici. E’ qui che é stata fatta la “scoperta”; un evento del tutto inaspettato nel quale siamo rimasti avviluppati, come in una grande ragnatela, le cui trame tese e sottili collegano eventi lontani nel tempo e nello spazio.

Al centro della vicenda ci sono un pittore dell’Ottocento, un dipinto dai tratti inquietanti e un uomo ossessionato da quel dipinto e poi una grotta a mezza costa del monte Ingino, sotto un erto costone di roccia grigia che emerge dalla verzura, come il ginocchio scarnificato di un titano, scaraventato nelle viscere della montagna dall’ira degli déi e, tra le rocce presso la grotta, compare l’enigmatico incrociarsi di parole incomprensibili, seppur disposte secondo una logica matematica, secondo un’armonia perfetta quanto sfuggente, composte in un quadrato magico:

N I G E R
I N A R E
G A L A G
E R A N I
R E G I N



Non molto lontano, su una parete di roccia, una lapide ricorda alcuni versi dal Paradiso di Dante:

Intra Tupino e l’acqua che discende 
Del colle eletto dal Beato Ubaldo 
Fertile costa d’alto monte pende…


per non dimenticare che quel luogo, al tempo del Sommo Poeta, era fonte di acque amene, ben diverso da com’é oggi.
Cio' che ci colpisce subito é NIGER REGIN, prima e l’ultima parola del quadrato palindromo, molto simile a quello ben piu' noto del Sator. Che si tratti di un riferimento ad una Nera Regina? Forse un antico culto legato a Iside. Immediatamente, ci passano davanti agli occhi i quadri di quel pittore e, in particolare, quel quadro, e poi l’immagine tremenda dell’uomo che ne fu ossessionato per buona parte della sua vita: Adolf Hitler.


L’Isola dei Morti
Il dipinto cui facciamo riferimento è L’Isola dei Morti di Arnold Böcklin (1827-1901), artista di origine svizzera, che soggiorno' a lungo in Italia e mori' nei pressi di Fiesole. Solcando la superficie piatta del mare, una barca che trasporta un essere avvolto da un bianco sudario si avvicina ad uno spuntone di roccia emergente dalle acque, sul quale sorgono alcune tombe rupestri, che circondano le sagome affusolate di un bosco di cipressi. Angoscia, solitudine, mistero, un senso di indomabile vertigine verso l’ignoto é la sensazione che si prova davanti a quell’immagine. Dovette essere la stessa vertigine che inghiotti' la mente di Hitler, che non si poté piu' staccare da quel quadro maledetto.
Chi ha detto che Böcklin si fosse ispirato ai Faraglioni di Capri, non ha mai visto quella zona del Monte Ingino. Se lo avesse fatto, sarebbe rimasto allibito, come lo fummo noi in quel pomeriggio di fine estate. La roccia, i cipressi, l’angoscia generata dal silenzio della localita' umbra, ci rimandano all’Isola dei Morti, circondata da una presenza liquida che non é mare, ma silenzio cristallizzato, stasi totale. 


Poco piu' sopra, la grotta di S. Agnese, anticamente nota con il nome di S. Agata Sub Grotta, sorge alla base di una fenditura che taglia il costone di roccia grigia che termina in un balzo esposto verso meridione. Lo stretto ingresso della grotta si apre sopra una piattaforma calcarea da cui si diparte una rampa che sale verso il balzo sovrastante. Sulla parete di sinistra é scolpito un acronimo: HRSA. Sulla parete opposta all’entrata, c’é un piccolo vano ricavato nella roccia, forse cio' che rimane di un’edicola sacra o semplicemente di uno stipo usato dagli eremiti. Esaminiamo l’edicola e ci accorgiamo che la pietra che ne costituisce il fondo, non é altro che un grosso masso murato con la calce. Perché? Sulla destra, vicino al soffitto corre un canale di scolo che sembra provenire dall’interno della montagna. Un’idea folle ci balza alla mente: che ci sia un altro ambiente oltre quella parete? Dobbiamo verificarlo, ma come? Dopo aver introdotto una microcamera per un paio di metri al di la' del muro, ecco apparire sul monitor immagini nitide di pietre e detriti; poi alcune forme si definiscono sulle rocce: piccole svastiche. Ne contiamo almeno tre, nette, definite. Chi le ha tracciate? Quando? Non sappiamo rispondere. Decidiamo allora di estendere la ricerca a quello che, per comodita', chiameremo il “balzo dell’augure”. Saliamo di quota di una ventina di metri, percorrendo per intero la rampa tagliata nella roccia del monte, finché s’interrompe in corrispondenza di un viottolo dal tracciato incerto che si snoda tra le selci e sale fino al balzo, uno spiazzo dal quale si osserva agevolmente la pianura di fronte a Gubbio e parte della citta' stessa. La bussola ci conferma che la piattaforma di roccia é diretta perfettamente a Sud, verso la chiesetta della Vittorina, che, nella piana di Gubbio, ricorda il luogo in cui San Francesco ammansi' il leggendario lupo.

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La grotta di Sant’Agnese


Un complesso rompicapo
Ci spostiamo sulla verticale della grotta e notiamo anomalie del campo magnetico terrestre. A pochi centimetri dal balzo, l’ago impazzisce e devia, senza una ragione apparente, di 20-25°. Sul margine della piattaforma, ecco comparire alcune lettere scolpite: RREG. Ci ritorna in mente il quadrato magico, trovato a non piu' di 50 metri di distanza da li'. Quelle lettere potrebbero essere un frammento della frase NIGER REGIN. Ancora un richiamo alla Nera Regina...

E’ giunto il momento di fermarci a riflettere. Dobbiamo fare una digressione di oltre 150 anni, riandare all’inizio dell’800, quando a Gubbio comparve un personaggio che lascio' un’impronta indelebile in gran parte della citta'. Parliamo di Matilde Hobhouse, moglie del marchese Francesco Ranghiasci Brancaleoni. Nel 1850 la nobildonna inglese si intrattiene per qualche tempo ad Olevano, sui colli Albani in compagnia di Dorotea Gabrielli e li' frequenta un gruppo di pittori tedeschi tra cui Heinrich Dreber, Ludwig Thiersch e Arnold Böcklin, tutti membri della "Lega della Virtu'" o Tugendbund.
Quella stessa Tugendbund di cui rimane una traccia evidente nel tempio neoclassico che qualche anno prima Matilde volle far edificare nello splendido Parco Ranghiasci costellato di riferimenti alchemici ed esoterici. Nel centro del timpano é posto lo stemma dei Ranghiasci, inquartato con quello dei Brancaleoni, circoscritto dal motto: “Virtus vincit invidiam”.
E’ innegabile che la Tugendbund sia uno dei rivoli che ando' a confluire nel piu' vasto fiume dell’arianesimo che a quel tempo poneva i presupposti al neo-paganesimo pangermanico, e, vari decenni dopo, all’iniziazione di Adolf Hitler, sinistro sacerdote della dea Ostara e membro della Societa' Thule (cfr. speciale Nazismo esoterico HERA n° 32).

Ma guardiamo piu' attentamente gli interessi artistici di Böcklin. Egli sembra affascinato dal culto pagano degli alberi e delle acque. Lo aveva sconvolto la vista del parco di Bomarzo, per la magistrale capacita' di Pallavicino Orsini di realizzare un giardino cosi' denso di contrasti cromatici, rovine pagane ed edifici alchemici. Nelle sue opere egli si avvale di varie componenti che si uniscono in una mistura ermetica capace di trasmettere all’osservatore l’ineffabile. Lo vediamo gia' bene ne Il Bosco Sacro, dove egli utilizza la luce come elemento assoluto e non legato alla presenza del Sole, che egli mai raffigura. Ma meglio ancora apprezziamo questa sua capacita' di trasmutazione della materia attraverso la luce nell’Isola dei Morti, che egli dipinse nel 1880 e che produsse in ben cinque versioni fino al 1886, senza naturalmente contare l’incredibile quantita' di copie fatte dagli ammiratori. L’interpretazione di questo quadro ossessiono' le menti dei Regnanti d’Inghilterra, di De Chirico, di Freud, di D’Annunzio e, come abbiamo gia' ricordato, di Hitler che possedette uno dei cinque originali, quello andato perduto.

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Ma dove aveva tratto Böcklin ispirazione per quest’opera? Si fa riferimento ai Faraglioni di Capri, un’ipotesi verosimile, se non si facesse caso a un particolare che porta verso un’altra pista. Il dipinto rappresenta la luce del tramonto. Un tramonto un po’ strano, perché nel Golfo di Napoli a quell’ora del giorno la luce proviene dalla parte opposta. Un po’ inusuale per un pittore amante dei crepuscoli rappresentare un’alba proprio nell’Isola dei Morti. E allora dove dobbiamo andare per ritrovare lo stesso punto di luce, le stesse rocce, gli stessi cipressi? In un altro luogo che non sorge in mezzo all’acqua anche se ne fu antica scaturigine, tanto che lo testimonio' lo stesso Dante e, nel 1921, qualcuno che forse sapeva volle confermarlo apponendovi la lapide con i versi del Divin Poeta: quell’Intra Tupino... che abbiamo citato all’inizio. Parliamo proprio del Monte Ingino di Gubbio, nelle vicinanze di quella che viene volgarmente detta la Prima Cappelluccia, poco distante dalla Grotta di S. Agnese e a due passi dal quadrato Magico della Nera Regina. Una zona questa, fortemente presidiata nel 1944 dalle truppe di occupazione tedesche e che ricevette le attenzioni, pochi anni dopo la fine della guerra, di una strana signorina inglese comparsa a Gubbio quasi dal nulla negli anni Cinquanta. 

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