Tra le tante epigrafi d’incerta
provenienza sparse nel territorio italiano, una menzione particolare merita
questa enigmatica Pietra, indagatissima nel rinascimento ed in epoca moderna e
soggetta alle interpretazioni piĂ¹ raffinate, piĂ¹ contraddittorie e a volte… piĂ¹
strampalate. C’è da dire subito che nonostante la pletora di studiosi che se ne
sono occupati, non esiste una soluzione storica inoppugnabile che consenta di
“datare con certezza” nĂ© l’epigrafe attuale nella sua interezza, nĂ© tantomeno
gli originali, forse assai piĂ¹ arcaici, da cui è stata tratta. Altrettanti
dubbi esistono sull’autore (o gli autori) dell’epigrafe. A tali incertezze si
somma un plurisecolare conflitto fra i fautori dell’epigrafe, così come la
conosciamo, e quelli di una fantomatica ed analogapergamena milanese,
di cui gli stessi storici seicenteschi danno conto, e che riporta, con alcune
aggiunte e varianti, il testo della nostra lapide bolognese. Come se non
bastasse, nell’arco dei secoli sono comparse tracce di epigrafi simili dislocate
in altri posti, assai lontani da Bologna, come vedremo a breve. Quale sarĂ il
documento piĂ¹ antico?
Alcune delle colte letture che sono
state fatte di talepietra, che a tutti gli effetti è un’epigrafe di
cui le prime tracce storicamente documentabili si hanno soltanto nel XVI
secolo, hanno il carattere di un’erudizione straordinaria (in principal modo
quelle seicentesche) ma, qualche volta, l’erudizione rischia di soffocare
l’intuizione e, come ci è sembrato di rilevare da quello che abbiamo letto in
questi anni, la ricerca spasmodica di apparati testuali a corredo
dell’epigrafe, ha portato a snaturare il soggetto stesso della ricerca.
Ultimamente sono state proposte anche interessanti e documentate ipotesi di
datazioni precedenti e di diverse origini (v. bibliografia, Bacchelli,
Pierini).
C’è anche da dire che alcune
interpretazioni “ermetiche ad ogni costo” o forzatamente mitologiche,
hanno volenterosamente rielaborato semiologie improbabili, costruendo alchimie sui
generis o assonanze di cui in questa sede daremo solo qualche cenno.
Cercheremo di offrire una succinta
“selezione” tra le interpretazioni formulate nel passato (per lo meno tra
quelle che ci sono sembrate piĂ¹ interessanti) e in ciĂ² peccheremo ovviamente di
soggettivitĂ . Formuleremo alcune semplici ipotesi a nostra volta, e lasceremo
all’intuito del lettore la possibilitĂ di formularne delle sue, piĂ¹ valide e
intelligenti delle nostre fornendo un breve corredo bibliografico, sufficiente
a chi ha voglia d’indagare maggiormente.
Per quanto ci riguarda, sia essa una
burla, sia la soluzione d’ogni enigma, sia la conclusione o l’inizio di un
percorso, sia una lapide mortuaria o una stele confinaria, bisogna dare atto
all’autore dell’epigrafe di aver incuriosito generazioni di studiosi. Se il suo
intento era di prendere in giro coloro che lo avrebbero letto, bisogna dire che
…c’è riuscito alla grande. Se il suo scopo era invece quello di dare
una indicazione filosofico-spirituale o alchimica, direi che c’è riuscito
ugualmente. Lo stress della mente intorno ad un enigma è forse “operativamente”
altrettanto interessante della soluzione dell’enigma stesso, e porta lo
“stressato” come ci dicono i maestri “zen” o i mistici trecenteschi, verso una
piccola o grande illuminazione, e chissĂ che qualcuno non l’abbia avuta.
Breve storia:
La cosiddetta “Pietra di Bologna” è
un’epigrafe latina incisa su una pietra rettangolare.
Questo è il testo di cui si ha evidenza:
D M (domino maximo - oppure Dis Mani..)
Aelia Laelia Crispis
Nec vir nec mulier nec androgyna
Nec puella nec iuvenis nec anus
Nec casta nec meretrix nec pudica
sed omnia
sublata neque fame neque ferro neque ueneno
Sed omnibus
Nec coelo nec aquis nec terris
Sed ubique iacet
Lucius Agatho Priscius
Nec maritus nec amator nec necessarius
Neque moerens neque gaudens neque flens
Hanc nec molem nec pyramidem nec sepulchrum
Sed omnia
Scit et nescit cui posuerit »
|
« D.M. (a Dio, oppure agli dei Mani)
Aelia Laelia Crispis
né uomo ne donna, né androgino
né fanciulla, né giovane, né vecchia
né casta, né meretrice, né pudica
ma ognuna di queste cose.
Uccisa né dalla fame, né dal ferro, né dal veleno,
ma ognuna di queste cose
Né in cielo, né in acqua, né in terra,
ma ovunque giace,
Lucio Agatho Priscius
né marito, né amante, né parente,
né triste, né lieto, né piangente,
questa / né mole, né piramide, né sepoltura,
ma ognuna di queste cose
sa e non sa a chi è dedicato. »
|
Le prime notizie della pietra risalgono
alla seconda metĂ del cinquecento ma la versione in cui oggi possiamo guardarla
nel ricostruito Museo Civico Medievale di Bologna, è un rifacimento
del XVII secolo. Come giĂ detto, non sappiamo con esattezza quante trasformazioni
abbia subito il testo nelle sue trascrizioni ma la traccia lapidea,
essenzialmente, è quella che ora vediamo.
Una delle notizie piĂ¹ attendibili sulla
esistenza di tale lapide l’abbiamo dai “Monumenta excellentium virorum”
curata da Salomon Rybisch e pubblicata a Breslavia nel 1574,
nella quale si riportano le epigrafi dei piĂ¹ celebri dottori bolognesi che, in
quei tempi, erano accreditatissimi in Europa. In realtĂ studi recenti avallano
la preesistenza di un’epigrafe simile anche in Sardegna (v. Bibl. Bacchelli).
C’è da dire che la Pietra ha avuto una
storia complessa e si è salvata per miracolo. Fortemente danneggiata durante i
bombardamenti del 1943, una volta ripescata fra le macerie, fu piĂ¹ volte
incautamente “appoggiata” ora da una parte, ora dall’altra (dal 1960 al 63)
nelle penose vicende del complesso di Santa Maria di Casaralta;
poi finalmente venne passata nel palazzo Galvani.
L’ipotesi piĂ¹ condivisa presuppone che
l’esecutore (o il conservatore o il trascrittore) della pietra sia stato
Achille Volta, il Gran Maestro dei cavalieri Gaudenti di Casaralta,
ma alcuni ritengono che l’ispiratore dell’epigrafe sia addirittura il vescovo
di Verona (amico di Volta), Giovanni Matteo Giberti, oppure lo
stesso Pietro Aretino (ipotesi non improbabile se si
considerala sua feroce ironia). L’incontro con tale enigmatica pietra viene
menzionato in varie corrispondenze tra gli ospiti illustri dei “frati gaudenti”
(anticamente detto Ordo Militiae Mariae Gloriosae) di Casaralta e
fra questi l’arcivescovo di Cagliari, Antonio Parraguez (da
tale nominativo parte la ricerca sulla ipotetica provenienza dell’ispirazione
della pietra da fonti sarde) o l’erudito Giovanni Torre.
Achille Volta fu sicuramente l’artefice di una profonda
trasformazione degli arredi di Casaralta. Siamo nel secolo in cui il
neoplatonismo e il simbolismo mitologico hanno entusiasmato le corti europee e
quelle italiane in particolare; i conventi, che in genere sono retti dagli
stessi esponenti delle famiglie nobili cittadine, hanno conservato l’indirizzo
ermetico, fuso con la cultura classica e il rinnovato misticismo dell’epoca,
sollecitando gli esponenti piĂ¹ raffinati della cultura del secolo ad
esercitarsi in dispute filosofiche nelle quali la classicitĂ pagana trovava
sempre ampia accoglienza.
Si sa per certo dell’esistenza a
Casaralta di un camino a forma di maschera con
una bocca larga tre metri (che ricorda altre enigmatiche immagini “eruttive”
presenti a Bomarzo e non solo, da noi riportate in altri articoli su questo
sito). Inoltre si dice dell’esistenza del dipinto di un rinoceronte,
su cui era scritto “Non volo senza vincere” (cosa abbastanza strana per
un rinoceronte) e infine di un bassorilievo, probabilmente alchimico, nel quale
figurava la scritta “Asotus XXX”. Un po’ poco per parlare di alchimia ma
il fatto che l’azoto partecipi alle operazioni presenti nelle fasi delle
trasmutazioni alchimiche da ovviamente spazio all’ipotesi che il simbolismo
della villa fosse maggiormente orientato in tal senso, ma lo stesso termine in
latino significa anche “dissolto” o dissoluto. E le tre X cosa ci stanno a
fare?
Nel XVIII secolo la dimora di Casaralta
fu abitata dal senatore Achille Volta, omonimo del suo antenato (e
spesso confuso con il suo predecessore), che fece ricopiare il testo - ormai
illeggibile - su una nuova lastra di marmo rosso. Questa copia è la
"pietra di Bologna" di cui oggi sono stati fatti restauri e
ricostruzioni.
In questo rifacimento il testo ha
perduto i tre versi finali che forse comparivano nella versione originale
(oppure gli stessi, come molti sostengono, sono un’aggiunta piĂ¹ tarda):
latino
« Hoc est sepulchrum intus cadaver non habens
Hoc est cadaver sepulchrum extra non habens
Sed cadaver idem est et sepulchrum sibi »
|
italiano
« Questo è un sepolcro che non contiene alcuna salma
Questa è una salma non contenuta in alcun sepolcro
ma la salma e il sepolcro sono la stessa cosa »
|
Secondo Richard Whyte queste
righe sono la traduzione di un antico epigramma greco attribuito adAgatia lo
Scolastico. La versione latina di tale testo sarebbe ascrivibile a Decimo
Magno Ausonio(poeta latino nato a Bordeaux, precettore di Graziano e noto
per la sua enciclopedica cultura). Mille anni dopo il Poliziano ne
curĂ² probabilmente la traduzione italiana (ma di tale ipotesi non abbiamo
riscontri oggettivi). Per tale ragione alcuni commentatori suppongono che
l’intera epigrafe bolognese possa esser stata redatta da Poliziano stesso. E la
cosa non sarebbe del tutto impossibile, vista la contemporaneitĂ delle vicende
e degli autori.
A nostro avviso perĂ², Ausonio,
che fu un filosofo e poeta cristiano, ma fortemente ispirato dai temi della
latinità classica, non è stato sufficientemente indagato quale ispiratore della
lapide. E’ infatti autore di un’opera vastissima, a volte anche pesantemente
lubrica, ma poiché, anche ai nostri giorni nei testi ufficiali di letteratura
latina è generalmente considerato un “minore”, perchĂ© non in grado di esprimere
idee originali (ma cosa saranno mai le idee originali?) ha subito la
trascuratezza propria dell’abitudine a riferirsi sempre ai “famosi”.
Come sappiamo uno dei maggiori
indagatori della lapide fu Carl Goustav Jung. L’interesse del
celebre psicoanalista è determinato dalla sua particolare interpretazione del
mondo, in cui “l’inconscio collettivo” puĂ² essere l’ispiratore occulto di
espressioni enigmatiche che poi trovano luce in chiave sovrarazionale. Ma Jung,
fin dall’inizio, mostra chiaramente di non attribuire alcuna serietĂ d’intenti
al compositore dell’epigrafe. Da per scontato che trattasi di una burla.
Le interpretazioni e gli interpreti
Ma chi era Aelia Laelia?
Fin dal XVI secolo abbiamo una varietĂ
di supposizioni, tutte suffragate in genere da riferimenti testuali colti e
raffinati. (Richard White sostiene che sia un esplicito riferimento
a Niobe. Ulisse Aldovrandi opta per una delle Amadriadi o
comunque per una ninfa delle querce. Michelangelo Mari,
assai piĂ¹ semplicemente è convinto che si tratti dell’acqua piovana.
N. Barnaud scrittore protestante (1538-1604) studioso di
fisica e di scienze alchimiche, compose unCommentariolum in quoddam epitaphium
Bononiae studiorum, ante multa secula marmoreo lapidi inscultum (breve
commento degli studi su un certo epitaffio di Bologna, inciso su una lapide di
marmo molti secoli or sono), compreso nell’antologia di testi alchemici Theatrum
chemicum del 1613. Lo stesso commento venne ripubblicato da Jean
Jacques Manget (1652/1742) nella monumentale opera Biblioteca
chimica curiosa, del 1702.
Lo storiografo Calindri nel
XVII sec. ha affermato che "celebre ed insigne sarebbe stata
Bologna, se altro ancora non avesse avuto e contenuto in sé stessa, che questa
enigmatica lapide”(sic!).AncheE. Tesauro sembra entusiasta di
tale affermazione e sostiene strenuamente che la lapide "sarebbe
bastata da sola alla fama di Bologna".
Da queste affermazioni entusiastiche si
passa a quelle che considerano la lapide come uno scherzo da parte degli
umanisti dell’epoca, ad imitazione di molte lapidi funebri romane che spesso si
esercitavano in ironiche o epicuree affermazioni, rivolte a coloro che si
trovavano a transitare nelle vie dove trovavano posto le steli funerarie
extraurbane.
Esistono poi una pletora di invenzioni
letterarie, di racconti e fiabe ispirati alla famosa pietra, ognuno con i suoi
meriti, ma anche con le sue illazioni prive di fondamento.
La metodica analisi testuale di Maria
Luisa Belleli del 1975[1], elenca
un numero impressionante di interpreti che oltretutto si accaniscono su due
“presunti originali”. Uno, sotto forma di pergamena, esistente a Milano ed uno,
lapideo, a Bologna. Quale il piĂ¹ antico? Oltretutto l’analisi testuale porta
alla scoperta di molti autori che parlano di almeno “due pergamene”. Ne
esistono le trascrizioni ma mancano gli originali.
Ci ha colpito il tentativo di tal Marius
Michael Angelus nel 1547 da cui si evince uno scambio di informazioni
fra i dotti di Padova e quelli di Milano. Poi c’è l’opera del White nel
1567, in cui si alimenta una specie di “rissa filologica” fra dotti
Milanesi, Belgi e Bolognesi. La povera Aelia, interpretata inizialmente come Niobe,
diventa in seguito Anima poi Idea platonica e
tante altre cose. Nel 1630 Fortunio Liceti accenna alla
possibile preesistenza del testo milanese rispetto a quello bolognese. Nel 1599 Nicolas
Reusner che aveva dato adito all’ipotesi di Poliziano quale autore,
inizia a trasporre parte dell’epitaffio milanese su quello bolognese traendone
una nuova possibilitĂ interpretativa, mentre nel 1686 Ellis Veryard mescola
definitivamente le due versioni (cioè con la presenza delle ultime tre righe
attribuibili ad Agatia lo Scolastico e poi rimanipolate forse dal Poliziano) : Hoc
est sepulcrum intus cadaver non habens / Hoc est cadaver sepulchrum extra
non habens / Sed cadaver idem est et sepulcrum sibi. Tali righe, come
abbiamo visto, non compaiono invece nella versione lapidea.
Abbiamo infine una serie di autori che aggiungono
“liberamente” all’epitaffio cause di “morte non morte” tra cui la peste, il
fuoco, il dolore. Altri che eliminano il termine meretrix e lo
trasformano in impudica. L’elenco è lunghissimo e rimandiamo ai testi
citati in bibliografia,
Elia Lelia Crispi rappresenterebbe
secondo le “tentazioni” alchimiche piĂ¹ acclarate, la cosiddetta Materia
Prima, o a volte la stessa Pietra Filosofale, o lostadio
iniziale dell'opera, ed ogni successione di termini, ciascuno che nega
il precedente, dovrebbe rappresentare la successione delle trasmutazioni. Se
questa interpretazione fosse vera, se ne dovrebbe ricavare che l'Ordine dei
Frati Gaudenti aveva una filiazione, per molti versi, affine a quella
templare o comunque ispirata alle confraternite alto-rinascimentali, con una
forte connotazione esoterica (vedi ad esempio quella che ispirĂ² il
grandioso lavoro alchemico di Lorenzo Lotto nella sacrestia di Santa Maria di
Bergamo). C’è anche da dire che la pietra di Bologna non è l’unica con
tale iscrizione. Ne esistono, a quanto dicono i vari autori, degli esemplari
assai simili nell'antico Palazzo San Bonifacio, a Padova, nel
castello dei Principi di Condè, a Chantilly (Oise, Francia) e
in una lapide conservata almuseo di Beauvais. Quale di queste
iscrizioni precede le altre? In questa direzione a nostro avviso, dovrebbero
esser fatte ulteriori ricerche.
Le interpretazioni alchimiche, in cui la
pietra di Bologna viene a tutti gli effetti assimilata allaPietra Filosofale,
cioè all’Agente in grado di produrre tutte le trasmutazioni, considerano la
lunga successione di contraddizioni presenti sulla lapide come un vero e
proprio occultamento-rivelazione, in grado, se svelato, di condurre
alla realizzazione dell’Oro. Il giĂ citato Barnaudsostiene che
dallo stesso nome di Elia Lelia Crispis si ricava il codice di
lettura. Aelia richiama la parola Elios e da qui
l’assimilazione al sole filosofale…è semplice.
Laelia a
questo punto è stata tradotta come ad- aelia dunque come
elemento lunare che viaggia verso la congiunzione con il solare e che quindi
porta alla realizzazione della Pietra. Diciamo che tale interpretazione ci
sembra abbastanza coraggiosa anche se, ovviamente va presa in considerazione
come tutte le altre.
Riguardo al termine Crispis sempre
Barnaud ci dice che la Pietra è abvoluta et intricata, cioe’
involuta e intricata e quindi assomiglia ai capelli crespi con
una semiologia interessante anche se discutibile.
Riguardo ad Agatone, Barnaud
ci dice che Lucio sta ovviamente per lucens e Agatone viene
tradotto dal greco come buono e valoroso. Il termine Priscio viene
riportato al priscus latino e quindi primigenio, antico e perciĂ² fedele
alla dottrina degli “antichi”.
In pratica il senso riduttivo della
lapide sarebbe che “ Questa (Laelia) e’ ogni cosa, ha in se’ ogni cosa
di cui necessita per la sua perfezione, di essa ogni cosa si potrebbe dire, ed
essa potrebbe viceversa, dirsi di ogni cosa”.
Richiamandoci all’Azoth, presente nel
bassorilievo citato in precedenza, e tenendo presente che Basilio Valentino
come altri alchimisti, assimila l’Azoto al Mercurio filosofico, spesso
dichiarato come principio e fine di ogni corpo (Planiscampi), la conclusione di
Barnaud potrebbe non essere affatto peregrina.
I Gaudenti, probabili ispiratori della
pietra.
L’ordine dei Cavalieri Gaudenti,
fu fondato da Loderingo d’AndalĂ². Come sappiamo Dante Alighieri
riservĂ² a Loderingo e a Catalano dei Malavolti una pena
infernale piuttosto severa (li condannĂ² nel girone degli ipocriti a girare in
eterno coperti da mantelli di piombo con una doratura superficiale). Forse la
condanna venne motivata dal fatto che, dopo la cacciata dei ghibellini da
Firenze e dopo esser stati rettori a Bologna, in contrasto con le prescrizioni
dell’ordine, Loderingo e Catalano vennero inviati a Firenze quali pacieri (per
altri, quali traditori).
Quando Loderingo, nel 1267 si ritirĂ² nel
convento di Casaralta, vi incontrĂ² anche Guittone d’Arezzo, che gli
dedicĂ² una canzone in cui poneva in risalto la sua infinita pazienza, i meriti
monastici e religiosi (il che ce lo pone in una luce un po’ meno sinistra di
quella con cui ce lo presenta l’Alighieri).
In queste brevi note ricordiamo solo che
la chiesa di S. Maria di Casaralta nella quale si suppone sia
stata inizialmente la nostra “pietra” divenne un possesso stabile dei Gaudenti.
Tale chiesa, nel 1300, risulta ormai unita al complesso di Castel de’
Britti, sede del priorato dei Gaudenti. Nel 1500, caduto in disgrazia
l’ordine, Alessandro VI Borgia, seguendo i procedimenti
dell’epoca che ricordano assai da vicino quelli dei nostri giorni,
trasformĂ² il castello in una commenda per il nipote, cardinale Giovanni.
La chiesa di Casaralta mantenne ancora per un po’ i suoi priori fino al
bolognese Achille Volta che, su ordinazione di Clemente VII
(il figlio illegittimo di Giuliano de’ Medici), divenne priore e Gran Maestro
di tutto l’ordine. Il Volta, che discendeva da una nobiltĂ cittadina bolognese,
era un uomo colto, vissuto nell’ambiente del Giberti, del Bembo e
diTommaso Moro. Fece parte della disputa che opponeva Pietro
Aretino al Giberti stesso, a favore di un rinnovato indirizzo morale,
ma tale opposizione divenne talmente aspra che, con o senza il consenso del
Ghiberti, come giĂ detto, il Volta accoltellĂ² il loquace e temibile Aretino.
Al di la di questi episodi, se vogliamo
attribuire la scrittura della pietra ai Volta, o a qualcuno dell’ordine,
dobbiamo ricordare che i Frati-Cavalieri Gaudenti rappresentano
un ordine militare approvato da Urbano IV nel 1261 sotto il
nome di Cavalieri della Beata Gloriosa Vergine Maria. I membri di
tale ordine erano sottoposti alla regola “ad servos Dei” di
Sant’Agostino (che contrassegnava la vita monastica fin dal V secolo)
ed avevano finalitĂ e modalitĂ d’iniziazione assai simili a quelle dell’Ordine
del Tempio. Non bisogna dimenticare che Urbano fu il papa del miracolo
di Bolsena (vedi i nostri articoli su Orvieto) e a lui si deve
l’istituzione della festa del Corpus Domini.
Sull’appellativo “gaudenti” esistono due
versioni abbastanza contrastanti. La prima lo fa derivare dal giuramento stesso
dei cavalieri in cui il servizio alla Vergine e al Cristo era il massimo
godimento spirituale ottenibile su questa terra. La seconda versione, assai
piĂ¹ tarda e un po’ meschina, ipotizza che, decaduta la necessitĂ militare
dell’ordine, i frati siano precipitati nella rilassatezza dei costumi,
dedicandosi al godimento dei beni accumulati, con ciĂ² che facilmente ne deriva.
La lettura del testo
La prima cosa che colpisce chiunque
legga l’epigrafe è il sistema delle enunciazioni, che ci consentiamo di
definire come apofatico nell’apofatico. Cioè buona parte delle
dichiarazioni sono seguite da una negazione dell’affermazione e poi dalla
ulteriore negazione della negazione stessa. In realtĂ , non proprio tutto
procede in questo modo, come ci permetteremo di osservare in seguito.
Ora tale metodo porterebbe, per lo meno
in apparenza, ad un annullamento totale di tutto ciĂ² che viene affermato, sia
in negativo che in positivo.
Una volta letta tutta l’epigrafe
potremmo essere portati a concludere che nulla viene considerato come
vero oppure, ancor peggio che tutto puĂ² essere sia vero che falso.
Il che è… un pessimo inizio per
qualsiasi analisi logica, anzi, è una palude senza apparenti appigli.
Troviamo perciĂ² inutile aggiungere
l’ennesima chiave di lettura alle decine (e se consideriamo le varianti)
potremmo dire alle centinaia di interpretazioni della Pietra di Bologna. Anche
le diatribe sull’attribuzione della “paternitĂ ” dell’epigrafe o delle sue
varianti in pergamena o cartacee, ci sembrano, dal punto di vista
epistemologico, una questione di lana caprina. Si, conoscere le origini ci puĂ²
aiutare a conoscere l’ambiente in cui si puĂ² essere formato l’enigmatico
aforisma. Ma non ci aiuta molto a comprendere perché e per
chi è stato scritto.
Per tale ragione, senza la minima
pretesa di voler scoprire l’acqua calda, nĂ© di offrire brillanti soluzioni
alchimiche, vorremmo azzerare completamente ogni illazione, dimenticare per un
istante la straordinaria erudizione dei ricercatori rinascimentali e limitarci
a leggere il testo, corredandolo di qualche considerazione lessicale.
1) Dopo
il D-M che accettiamo come una invocazione a Dio o agli Dei Mani, compare il
nome di Aelia Laelia Crispis e, subito dopo, viene spiegato che non trattasi di vir né
di mulier (mulier è anche il modo per definire la donna
sposata e non la domina né la foemina). Dopo di
che si specifica che non trattasi neanche di un androgines, anzi, androgina).
Tali tre termini definiscono la qualitĂ della persona in senso non solo fisico
ma anche metafisico. Infatti voler prevedere una possibile androginia di
un personaggio, vivo o morto che sia, è una qualifica assai particolare e non
molto frequente, soprattutto nelle epigrafi. Se vogliamo seguire le
interpetrazioni di carattere alchimico, dovremmo dire che siamo di fronte a
qualcosa diinforme, di non lavorato né definito e
questo andrebbe assai d’accordo con l’interpretazione di Barnaud.
2) Dopo
di che si specifica non trattarsi di fanciulla, ne di giovane, ne di vecchia (e
questa parte ha a che vedere con l’etĂ ). PerĂ² non viene nominato il puer ma
solo la puella.
3) Nel rigo successivo si spiega che la persona non è
casta, non è meretrice, e non è pudica (tutti questi termini sono di nuovo
posti al femminile). Oltre ad evidenziare, in negativo, gli
aggettivi che nell’antichitĂ definivano virtĂ¹ o vizi di una donna (teniamo
presente che la castitĂ era relativa ad un modus vivendi e non semplicemente ad
un comportamento sessuale), il punto 1 e 2 sono la prima affermazione, anche se
sempre in chiave negativa, che porta ad una prima conclusione oggettiva:
cioè la “cosa” a cui ci si riferisce e che rimane non contraddetta è
di genere femminile. A parte il “vir” iniziale e lo “iuvenis”
che puĂ² essere sia maschile che femminile, il resto delle attribuzioni sono
tutte al femminile.
4) Nelle due righe successive si spiega che, in realtĂ ,
Aelia è tutte queste cose insieme. E’ evidente che una cosa che puĂ²
assumere tante e tali forme contraddittorie o possiede in se una straordinaria
valenza “camaleontica” e mimetica o forse è in grado di assumere una forma
diversa, a seconda di chi la tocca, di chi opera, con e attraverso essa stessa
e di chi la osserva.
5) Poi
si stabilisce che non è stata uccisa (sublata: da discutere l’uso di
questo termine) né a causa della fame, né della spada, né del veleno, ma
piuttosto dall’insieme di tutte queste cose. Tale dichiarazione ammette che
Aelia sia stata effettivamente sublata: e questa è la seconda
affermazione priva di contraddizione. Subito prima si mettono in discussione
tutte le cause della morte, considerandole singolarmente come non vere ma tutte
vere (se considerate nella loro contemporaneità ). Il che vuol dire che è stata
veramente uccisa (o forse, analizzando meglio le semiologie del termine, anche innalzata,
oppure onorata etrasmutata, o infine soggetta,
a seconda dell’aspetto che vogliamo prendere come agente), in virtĂ¹ della fame,
del ferro e del veleno. Seguendo e forzando un pochino la valenza ermetica
potremmo anche dire che è stata “sublata” cioè sottoposta alla
privazione (o allaestrazione) nonchĂ© all’ossidazione metallica e
infine alle sostanze venefiche.
6) E
infine sappiamo che (dopo esser stata sublata) non giace nel cielo,
né in terra né in acqua. Questo verso specifica che la lapide di Aelia non
contraddistigue una sepoltura (ma a questo punto potremmo dire
anche una trasformazione) nella sola terra. Se si trattasse di una
cosa esclusivamente terrena, contraddizione sufficiente sarebbe stata di negare
la sua sepoltura. Ma poi la lapide ci racconta che non iacet neanche
in cielo, né in acqua (posti fisicamente abbastanza improbabili per
“giacervi”). Quindi è una sepoltura fuori dell’ordinario. Inoltre notiamo che
vengono evocati tre elementi aria, acqua, terra. Dal punto di vista filosofico
sembrerebbe mancare il fuoco.
La seconda parte riguarda Lucio Agato
Prisco che:
7) Non
è marito, né amante, né parente. E questo ci dice che Lucio si configura come
un essere speciale, al pari di quanto è speciale Aelia. E questa è comunque una
affermazione senza contraddizione, anche se in negativo che lo rende speculare ad
Aelia stessa (in quanto, poi, non afferma di essere tutte queste cose insieme).
Facile pensare che Lucio sia il secondo elemento necessario all’opera.
8) Non
è triste, non è gaudente, e non piange. Questo esclude un coinvolgimento
“emozionale”; anche questa è un’affermazione precisa non contraddetta in
seguito.
9) Ne
consegue che “hanc” (cioè questa cosa, ma nel contempo questa iscrizione e
Aelia stessa)
10) Non
è nĂ© una “mole”, nĂ© una piramide, nĂ© un sepolcro ma l’insieme di queste cose.
Nell’epoca presunta in cui venne fatta (o ricomposta) la lapide, i termini
sepolcro, piramide e monumento potevano probabilmente essere assimilati nello
stesso concetto. L’autore perĂ² ci tiene a distinguerli e poi a dire che tutti
questi elementi costituiscono la “cosa”. Dunque il contenitore (la forma) e il
contenuto (la sostanza) non sono affatto distinguibili. E anche facile pensare
che una “piramide” (pir, fuoco) va verso l’alto, che la mole è poggiata sulla
terra, e che il sepolcro è, in genere, in basso.
11) E
infine sappiamo che Lucio sa e nello stesso tempo non sa a chi
è dedicata (l’iscrizione). Lucio, perĂ², ci dice di non
avere la possibilitĂ di stabilire se colui che ha posto la lapide, abbia o non
abbia la co-scienza della dedica (non del contenuto). Quindi è la
dedica che viene messa in dubbio. Questa frase appare alla fine, e cioè quando
la “dedica” è stata scritta e compiuta; e quindi l’autore nega che, una volta
completata l’Opera” (se di opera si tratta) sia possibile, o forse sia
necessario, trovarne uno scopo che non sia nell’opera stessa.
12) I
tre versi finali aggiunti e che possiamo definire “apocrifi” (nel senso sia di
misteriosi che di non ufficiali), ci spiegano che siamo di fronte a un sepolcro
dove non c’è alcuna salma, che siamo di fronte a un cadavere che non fuori di
un sepolcro e che in realtĂ la salma e il sepolcro sono la stessa cosa. Questo
ci fa venire fortemente in mente il simbolismo dell’Altare e del
sacrificio eucaristico, dove la salma non è realmente una salma, la salma
non è nel sepolcro, anche se il sepolcro lapideo coincide con la salma
trasmutata e con il luogo della celebrazione. La salma ovvero il “Corpus
Cristi” ridiventa sangue e carne nel Calice (e ciĂ² ci ricollega a Urbano
IV).
Ci piace chiudere il nostro breve
intervento con questa considerazione così azzardata. In fondo
il fondatore dei Cavalieri della Beata Vergine è lo stesso che fondĂ² la
cattedrale di Orvieto in funzione della celebrazione della transustanziazione.
Quale opera alchimica piĂ¹ sacralmente complessa di quella?
Tale considerazione, perĂ², ha una
corrispondenza spirituale e filosofica con un’operativitĂ realmente presente
nella confraternita di Casaralta. Farne una lapide antistante un altare
potrebbe essere una considerazione ancora piĂ¹ spinta ma, a nostro avviso, da
non escludere a priori.
Insomma è accaduto: anche il
sottoscritto, che non sopporta le misteriosofie gratuite, si è sbilanciato con
qualche illazione. Ma così come il famosissimo quadrato del “Sator”, anche la
Pietra di Bologna seguiterĂ a stimolare coloro che ci si imbattono. Chiunque
sia stato l’autore merita i nostri complimenti. Se voleva lasciare una traccia
ed un fermento, c’è riuscito in pieno.
P.S.: Dopo alcuni giorni che questo
breve articolo è comparso sul sito mi è arrivato un piccolo rimprovero da una
persona a me molto cara, che mi ha affettuosamente "accusato" di aver
voluto menare il can per l'aia, senza essermi sbilanciato troppo sul
significato "concreto".
A mia giustificazione dirĂ² che ho parlato di altare, di trasformazione, di miracolo d'amore che fa si che ciĂ² che viene ucciso non muoia mai piĂ¹. Insomma ho detto che se è vero che la Morte non puĂ² morire è altrettanto vero che l'Amore puĂ² ucciderla. E mi pare, a questo punto, di essermi sbilanciato fin troppo.
A mia giustificazione dirĂ² che ho parlato di altare, di trasformazione, di miracolo d'amore che fa si che ciĂ² che viene ucciso non muoia mai piĂ¹. Insomma ho detto che se è vero che la Morte non puĂ² morire è altrettanto vero che l'Amore puĂ² ucciderla. E mi pare, a questo punto, di essermi sbilanciato fin troppo.
ALCUNE INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE.
Poiché su tale argomento è stato scritto
realmente di tutto e di piĂ¹, la nostra scelta sarĂ assai limitata e selettiva.
Parte dei testi citati li abbiamo individuati attraverso la sapiente quanto
vasta bibliografia di Maria Luisa Belleli che ci sembra la
studiosa che ha dato, in epoca moderna, il maggiore contributo oggettivo
all’analisi della famosa “Pietra”. Noi ci siamo limitati a segnalare ai nostri
lettori le opere piĂ¹ reperibili e anche i piĂ¹ “digeribili” da non specialisti.
Quasi tutte queste opere sono consultabili
presso l’Archiginnasio di Bologna.
·
Maria
Luisa Belleli: Aelia
Laelia, in Gerard de Nerval Edition
Critique di Jean Senelier
·
Richard
White: Aelia Laelia Crispis ecc
·
Nicholas
Barnaud: Commentarium in aenigmaticum
quoddama aepigraphicum..ecc. originale alla Bibliot, naz di Parigi ma piĂ¹
facilmente leggibile in “Theatrum Chimicum Praecipuos selectorum auctorum ecc.
ripubblicato in parte in varie versioni.
·
Ovidio
Montalbani: Helioscopia, ovvero l’historico
colosso di Felsina antica.
·
Athanasius
Kircher Primum Aenigna chimicum eiusque
explicatio.
·
Emanuele
Tesauro: Il Cannocchiale aristotelico
·
Cesare
Malvasia: Aelia Laelia Crispis ecc.
·
Cesare
Malvasia: Marmora Felsinea
·
F.
Mastri: Monumenti Aelia Laelia Crispis…
·
Pietro
Luigi Cocchi: Sullo enimma di Aelia Laelia
Crispis ecc…
·
Gerald
de Nerval: Pandora
·
Jan
Richer: L’Enigme de Nicolas Barnau
·
C.G
Young: Mysterium Coniunctionis
·
Antonio
Deroma: Un’inedita
testimonianza dell’enigna di Aelia Laelia
·
G.
Perini: Contributo a Malvasia epigrafista ecc.
·
F.
Bacchelli: Un enigma bolognese
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