martedì 4 ottobre 2016

Le Grotte degli Immortali


di Domizia Lanzetta - 12/03/2010
La Grotta delle Ninfe nell’Odissea 
Per prima cosa bisogna chiedersi che cosa racchiuda in sé l’idea  dell’antro, idea che i rapsodi e gli aedi della civiltà greca celebrarono nelle cosmogonie e nelle genealogie eroiche. Potremmo cominciare col dire che all'’immagine dell’antro si collega l’idea del “di dentro”, nel senso più propriamente etimologico del termine, vale a dire di ciò che non “ex –siste” non è fuori, non è manifesto, e a cui appartengono soprattutto le divinità dell’oltretomba, oppure  certe entità del soprasensibile che operano in una dimensione invisibile.
Questo concetto ce lo propone Porfirio, quando descrive l’Antro delle Ninfe omerico, a cui l’autore conferisce un notevole valore simbolico. Si tratta dei versi con i quali Omero illustra la grotta dinanzi alla quale i Feaci lasciano Ulisse addormentato, dopo averlo sbarcato da una delle loro incredibili navi. Incredibili perchè si tratta di navi dotate di intelletto, con le quali i sudditi di Alcinoo percorrono i mari, collegati mentalmente ad esse.
Tutto questo accade dopo che Ulisse è passato innumerevoli volte attraverso i pericoli del mare.  Alla fine l’eroe viene salvato da un velo misterioso prestatogli da Leukothea. Solamente grazie al potere di quel velo Ulisse si salva e può pervenire all’isola magica, dove regna eternamente la primavera. 
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Un commentatore di Omero credette di riconoscere nel velo di Leukothea il velo purpureo col quale gli iniziati ai misteri di Samotracia si cingevano, per difendersi dai pericoli del mare. A parte questo, in parecchie raffigurazioni di scene iniziatiche il misthes è rappresentato con il capo coperto da un velo.  Allora non possiamo non ricordare l’immagine conclusiva del bacino absidale della Basilica sotterranea di Porta Maggiore, dove si scorge una giovane donna nell’atto di lanciarsi  in un mare burrascoso, entro il quale una divinità marina la sta aspettando, con un velo  tra le mani .
Porfirio interpreta i versi di Omero,come si trattasse non di una semplice epopea, ma di un messaggio iniziatico, cosa assai in voga tra i commentatori dei poemi omerici del  tempo. Infatti, per  Porfirio, la grotta dinanzi alla quale i Feaci abbandonano Ulisse addormentato avrebbe in sé un profondo significato iniziatico. Primo fra tutti l’ albero di ulivo sacro ad Atena che è posto alla sua entrata: Porfirio  vede in esso il simbolo della” …. verde sapienza ,dalla quale   il Demiurgo trae la vittoria  e la  dona a coloro che sono gli atleti della vita “.La grotta è il luogo dove l’eroe deve giungere, dopo aver visto,  conosciuto, sperimentato e temuto, tutto quello in cui si è imbattuto nel suo travagliato vagare. Sulla nave  Ulisse è stato colto dal sonno. Il che ci rammenta quello che accade ad Arianna, l’eroina che per amore muore e, grazie all’amore di un Dio, accede alla vita  eterna e diviene  una Dèa, mediante un   sonno che precede l’incontro con il Dio dei Misteri. Quanto alla grotta, Porfirio vi ravvisa la metafora sia del mondo deperibile, sia il suo opposto, quella di una dimensione sottile, entro la quale operano entità misteriose e temibili, intente a tessere eternamente l’involucro terreno, nel quale saranno racchiuse le anime degli esseri mortali.
Narra Omero :“In capo al porto un ulivo dalla lunga chioma,vicino a lui l’antro amabile e tenebroso, sacro alle Ninfe Naiadi. Dentro vi sono crateri ed anfore di pietra, dove le api serbano il miele. Lì, alti telai di pietra, sui quali le Ninfe tessono stoffe color porpora, meravigliose a vedersi;lì ancora acque che sempre scorrono. Due sono le porte, l’una che scende verso Borea è per gli uomini, verso Noto è la via degli immortali”. Questi sono gli enigmatici versi di Omero.
L’immagine del tessere, secondo Porfirio, serve ad esprimere  l’attività di certe entità sovrumane che perennemente agiscono nelle realtà sensibili.  Dal suo punto di vista, l’antro delle Ninfe è il luogo d’arrivo di Ulisse, la sua  meta, il luogo preciso che deve raggiungere   e che gli appare subito dopo il  risveglio. Si tratta di un antro dalla duplice natura, così come duplici sono le sue entrate ed è duplice tutto quel che gli appartiene. Esso è al contempo incantevole e tenebroso. Tenebroso in quanto è il luogo dove vanno le anime  destinate a entrare in un corpo materiale. Infatti due sono le entrate: una, dalla quale si accede al mondo dei mortali, un’altra, che conduce  quello degli immortali. La grotta è però anche l’immagine del mistero di ciò che avviene nella dimensione invisibile, vale a dire in quella dimensione segreta, dove le Ninfe Naiadi incessantemente tessono stoffe di porpora su telai di pietra. A questo punto Porfirio ci ricorda che quello di Omero è un parlare che va decodificato: le stoffe di porpora sarebbero i corpi, fatti di carne e di sangue, e i telai di pietra alluderebbero alla durezza della materia, dalla quale questi vengono estratti e con la quale sarebbero foggiati. Quanto alle Ninfe che abitano nella caverna, queste sono Naiadi, delle quali il nome deriva dal verbo “nao”,che significa “scorro”, in riferimento allo scorrere incessante della vita. Nell’antro però ci sono pure delle giare, anch’esse di pietra, colme non di acqua ma di  miele. In questi nugoli di api  preparano incessantemente l’alimento prezioso che estraggono dal fiore della terra. Perchè le api raccolgono dalla terra varie potenze, che poi trasformano in un unico e straordinario alimento: il miele “:di tutto raccogliamo, affinchè di tutto si faccia uno”. Ma cosa rappresentano queste api?
A Roma, in una delle sale del Palazzo dei Conservatori, è custodito uno dei più significativi simulacri di Artemide Efesia, sul quale, tra le altre immagini, compare una miriade di api che sale e discende sui  paramenti che serrano le membra buie della dèa. Si tratta di un simulacro che  sembra fatto per evocare la silente e invisibile dimensione, alla quale appartiene un essere divino, dai cui   paramenti sboccia tutto quel che deve venire ad esistere. Qui si muovono le api (anime purificate), che traggono ed elaborano ciò che di trascendente germoglia dal seno della terra, e che poi esse  unificano, tramutandolo nel cibo degli dèi. Lo stesso Porfirio rileva che anche nel Mithraismo l’immagine dell’antro è sempre presente, perchè con esso si celebra il mondo del quale è Creatore  Mithra. In effetti, il dio, nella sua iconografia celebrativa, appare di solito come un essere di luce che si staglia contro il buio di una caverna, entro la quale nascono e germogliano i fioi. Proprio Porfirio racconta che l’antro che per primo Zoroastro dedicò al Dio era uno“spelain anthron”,  una grotta fiorita.
A conferma di ciò, sia nel Mithreo delle Sette Porte, a Ostia, che in quello delle Pareti Dipinte vediamo raffigurati sui podi e sui muri alberi e cespugli verdeggianti. Quanto ai luoghi di culto di  Mitra, questi dovevano somigliare a degli antri, in quanto metafora della dimensione  a cui le anime  reincarnate sono destinate, ma anche richiamo alla discesa agli inferi degli iniziati.
Gli antri oracolari
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Per le popolazioni antiche, le grotte erano spesso misteriose sedi oracolari, nelle quali officiavano donne, dotate di facoltà profetiche. Generalmente il responso veniva dispensato in versi ai consultanti. Alcune di queste grotte erano dedicate ad un qualche eroe che, assurto allo stato di entità divina, parlava mediante il sogno  direttamente agli interroganti.
Nel primo caso,abbiamo l’esempio dei rinomati oracoli di Delfi e di Cuma e altri ancora, nei quali agivano le leggendarie Sibille. Secondo Strabone, quello di Delfi consisteva in una caverna profonda, alla quale si entrava per un passaggio angusto. Da questa fuoriuscivano esalazioni, mediante le quali si determinava una esaltazione che derivava da qualcosa di sovrumano. Sulla bocca di un secondo crepaccio era posto un alto tripode, sul quale prendeva posto la sacerdotessa di turno e da lì essa inalava il vapore portentoso che le infondeva l’afflato profetico. Ben più drammatica,è la descrizione che ci fa Virgilio di quanto avveniva nell’antro di Cuma: Enea viaggia di profezia in profezia fino a che, giunto a Cuma, si trova ad assistere alla sconvolgente manifestazione del furore sacro della Sibilla Cumana. Questa per Enea sarà la settima profezia, così come sette sarebbero stati i giovenchi e le pecore dal vello nero che dovevano essere sacrificati prima di entrare nell’antro. Ad ogni modo, in entrambi i casi, gli oracoli sembrano essere in stretta connessione con l’anima della Terra. Il primo, mediante lo ”Stomas Ge” (letteralmente, la “bocca della terra”) che si apriva immediatamente sotto il Sacro Tripode. L’altro caratterizzato dal sacrificio preliminare, costituito da ostie dal mantello nero. In una simile situazione, persino Apollo, Dio della luce, appare nella sua collocazione tellurica, nel suo aspetto di entità tenebrosa, che trasmette l’afflato profetico, attingendo alle profondità della terra. Tuttavia, anche a Delfi il Dio, uccidendo il serpente, figlio della Madre Terra, ne acquisisce la voce divinatoria; si trasforma, diviene lui stesso l’incontrastato Signore degli antri oracolari e dell’arte della divinazione. Perchè il Grande Serpente, nato dalla terra, è il simbolo del mistero della facoltà oracolare. In questo caso si tratta di oracoli del tipo estatico, dove le profetesse designate erano colte da stupore e poi da furore, quindi, dopo essere cadute in possesso del Dio, dalle loro labbra, in versi  poetici, fluiva il vaticinio.
Di altro tipo, e talvolta con caratteristiche ancora più oscure, erano le grotte oracolari del tipo “incubatorio”,come, ad esempio, quella di Trofonio, nella Beozia nord occidentale. A differenza degli antri delle Sibille, in questi il consultante si metteva in contatto diretto con il Nume di quelle sotterraneità oracolari, che erano in realtà dei sepolcri. Si trattava,quindi di una sorta di cenotafi, dedicati ad un qualche eroe che durante la vita si era distinto per delle gesta straordinarie.
Trofonio era stato un grande architetto che come merito specifico aveva quello di avere ideato il tempio di Delfi. Terminata l’opera, gli accadde però di essere inghiottito dalla terra.  Essendo poi stata la Beozia colpita da una preoccupante siccità, gli abitanti si recarono a consultare l’oracolo di Delfi. Il responso fu  che la siccità sarebbe cessata, solamente se avessero consacrato a Trofonio un  antro che si trovava nella foresta di Lebadeia. Questo era il luogo dove il leggendario architetto era scomparso ingoiato dalla terra. Da allora esso cominciò ad emettere vaticini, divenendo così una delle caverne oracolari più celebri di tutta l’Ellade. Perchè l’autore del tempio di Delfi era diventato parte di quell’universo sotterraneo, da cui agli uomini provengono i vaticini.
“Sotterraneità” vuole però anche dire invisibilità, vale a dire un “luogo senza tempo” che in quanto tale, possiede in sé sia il passato che il futuro. Si disse anche che Trofonio fosse un figlio di Apollo Delfico, quindi un’ ipostasi del Dio medesimo. Ma la grotta oracolare di Lebadeia era celebre, oltre che per i suoi responsi, anche per il modo in cui li si otteneva. Chi vi entrava si trovava subito immerso in una profonda oscurità. Dopodichè, levata al nume una preghiera, restava per un po’ in uno stato di dormiveglia. Quindi percepiva  un tocco leggero che gli sfiorava il capo, a cui seguiva la sensazione  che le ossa del cranio  si dissolvessero, dando  così modo all’anima di uscire dal corpo liberamente. Si aveva poi l’impressione che l’anima  liberata dal corpo fosse divenuta simile ad una vela gonfiata dal vento. A questo, seguiva la visione  della danza delle sfere, accompagnata dalla loro armonia inenarrabile.
Il movimento delle sfere è descritto come il muoversi di una spirale cosmica, al disotto della quale si scorgeva un abisso tormentoso e perennemente privo di pace, dal quale giungevano urla disperate e gemiti di animali sofferenti. A parte il baratro terrificante, dal punto in cui il consultante si trovava era possibile scorgere una parte del regno della potente Persefone. Da lì si aveva la visione dello Stige, le cui acque separano il mondo delle tenebre da quello della luce.
Nel racconto che ci fa Plutarco, a un dato momento interveniva una enigmatica guida che, tuttavia, restava al consultante invisibile. Da questa egli avrebbe appreso  che quattro sono i principi di tutto ciò  che “ è ”: quello della vita, quello del movimento, quello della generazione e quello della dissoluzione. Nel regno dell’“Invisibile” l’Unità unisce la vita al movimento, l’Intelletto unisce il Movimento alla Generazione e questa, nel regno della Natura, si unisce alla Dissoluzione.
Come possiamo rilevare, nei due generi di antri oracolari l’uno induce nel sacerdote, ma più di frequente in una sacerdotessa, uno stato di possessione, l’altro, quello di tipo incubatorio, una sorta di traslazione dell’anima   mediante la quale, si giunge a conoscere una dimensione ulteriore e ad acquisire una vera e propria iniziazione. Perché, in certi casi, entrare in queste grotte era come scendere agli inferi e conoscere ciò che è oltre il tempo e che appartiene all’Invisibile.
Gli dei della caverna 
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Ogni essere divino possiede una sua ideale e simbolica dimora, con la quale è in stretta e armonica relazione. Abitatori di grotte sono: i Ciclopi, le Ninfe, il Dio Pan, il Dio Sonno, Chirone e tutti gli altri Centauri. E’ probabile che con gli dèi della “caverna” si voglia alludere a certi aspetti della forza divina, quando questa è immanente o primordiale.
La sede del Centauro Chirone è una grotta estremamente sacra, sopra la quale grava il peso della dimensione soprannaturale e della quale egli è il cuore vivo e operante. Per Macrobio, il Centauro che scocca la freccia verso l’alto è da identificarsi col Sole, quando questo si trova nel punto più basso del suo annuale percorso, quando cioè sfiora quasi i limiti del mondo materiale.
Nel periodo in cui Macrobio scrive i Saturnali, nel Sole veniva contemplato l’intelletto e la potenza ultraterrena, quando si manifesta agli uomini sotto la forma ed i nomi dei molteplici volti del Sole. Nel Centauro che è uno di questi tanti volti egli riconosce l’estremo limite toccato dalla Divina Sapienza, nel momento in cui questa sembra mescolarsi alla materia. Da qui, da questa posizione, costui scocca l’ultima delle sue frecce. E’ una freccia  indirizzata verso l’alto e significa che sempre, anche quando il Sole ha raggiunto il limite della sua vita, il mondo materiale continua a dipendere da lui, e grazie a lui, nonostante tutto, non si interrompe mai il flusso vitale che congiunge la terra al cielo.
Volendo tralasciare l’interpretazione eliocentrica che Macrobio elargisce ad ogni divinità, in Chirone si può scorgere colui che è in grado di riconoscere tutto ciò che appartiene alla vita  e che raccoglie nel corso del suo vagare per tortuose contrade interdette ai comuni mortali . Non a caso egli ha per dimora una grotta, che si apre sulle pendici di un mitico monte, che fu teatro dello scontro cosmico tra Dèi Olimpici e Giganti. Infatti la caverna in cui dimora Chirone il Saggio, l’amico degli uomini, è una sorta di centro del mondo, attorno al quale avvenne la vittoria ed il trapasso tra il vecchio e il nuovo cosmo. Tuttavia bisogna tenere presente ciò ci dice Saturnino Sallustio nel Perì Theon Kai Kosmou e cioè che “…ciò non accadde in nessun tempo,ma avviene sempre..”
In questo sacro monte, che fu fulcro di una lotta immane, si aprono molteplici grotte, dove dimorano altri Centauri, esseri selvaggi discendenti dal mitico Issione che incarna l’empia ingratitudine verso gli Dèi. Unica eccezione, tra questi, è Chirone il Saggio, che conosce le tortuosità dell’esistere e il potere salutare delle erbe. Il che vuol dire che sa discernere ciò che di materno e salutare produce ancora la Terra Madre, nonostante che, con la fine dell’età dell’oro, essa non sia più madre, ma sia diventata matrigna. O forse Chirone, a motivo della sua saggezza, ha la facoltà di riunire in un’unica realtà l’inizio e la fine dei cicli universali, valicarne i limiti imposti dal tempo e  uscire dall’età dolorosa per riannodare ciò che ancora vive  dell’età felice.
L’indole di Chirone è diversa da quella degli altri Centauri, in quanto egli non è figlio  di Nefele, cioè dell’inganno architettato da Zeus contro l’empio Issione, ma di Kronos e di una Ninfa delle montagne. L’età dolorosa è infatti la conseguenza dell’empietà e della ingratitudine, delle quali  Issione è la personificazione. Incatenato ad una ruota irta di serpenti e condannato a ruotare per l’eternità, egli è la metafora della sorte degli uomini che sono avvinti alla fatalità dell’amara età del ferro.
Da quelle grotte, i Centauri figli di Issione si lanciano in ogni direzione per portare   morte e rovina nel mondo.  Issione l’empio è infatti  una sorta di Adamo della religione ellenica. Quanto ai Centauri suoi figli, questi richiamano l’idea delle passioni di cui è preda l’uomo che, pur dotato di ragione, si lascia trascinare da ciò che in lui c’è di selvaggio e animalesco. Chirone, al contrario, possiamo stimarlo come l’intelletto che domina l’impulso violento e feroce, e che è guida di coloro che sono destinati a compiere azioni straordinarie.
Si racconta che il suo antro fosse costituito da un insieme di grotte, in parte naturali e in parte opera degli stessi Centauri e che in ognuna di queste vi fosse l’impronta del passaggio degli dèi. L’antro di Chirone è cioè situato in una dimensione speciale, posta al limite del visibile con l’invisibile, il cui confine è metaforicamente segnato dalla corrente del fiume Anauro, che con le sue acque divide il mondo dei Centauri da quello dei comuni mortali. Secondo Macrobio, la caverna di Chirone rappresenta la dimora dell’ultimo Sole, vale a dire dell’Intelletto Divino che, quando discende al limite estremo di ciò che è sovrumano, sfiora e si confonde con quel che è mortale.
Le Grotte del Dio Sonno
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Insegna Giamblico che i sogni sono prodotti dalla nostra intelligenza, ma che grazie ad essi si può giungere a sfiorare verità supreme. Tuttavia, è anche possibile che  questi risultino del tutto ingannevoli. Ce ne sono però alcuni particolari, inviati dagli dèi affinchè arrivi fino a noi la conoscenza di ciò che è sacro. In questo caso, si tratta di sogni che provengono da un “dove” del tutto speciale. Essi si manifestano nel momento del torpore, quando ci si trova tra la veglia e il sonno, oppure quando si è prossimi al momento del risveglio.
Nella religione greca, la rivelazione delle verità divine avviene per il tramite degli oracoli, per mezzo dei poeti o mediante i sogni. Nondimeno questo potrebbe succedere anche quando si è del tutto svegli. Quando ciò avviene, sempre secondo Giamblico, si è colti da una specie di abbandono delle facoltà che normalmente caratterizzano la veglia, come se la coscienza  gradualmente  arretrasse e si dissolvesse. Allora succede che la vista prima si appanna, poi comincia ad oscurarsi. In questo stato, si iniziano a percepire prima delle voci, simili a brandelli di frasi portate dal vento, mentre in una zona di confine tra vista e mente vanno via via formandosi delle sorprendenti visioni. Come, infatti, di notte, stando su una terrazza illuminata, può accadere che, improvvisamente, tutte le luci si spengano, allora, per qualche istante, si resta disorientati. Ma poi guardandosi intorno e gettando lo sguardo oltre la terrazza, si cominciano a percepire  luccichii vaghi, si intravedono masse cupe e indistinte, forme ondeggianti e ancora segrete, perchè avvolte nel velo  della notte. Alla fine però, se ci si lascia  guidare dal chiarore della luna, o delle stelle, ci si rende conto che il tremulo scintillio è dovuto all’acqua di un lago o di una fontana e che le masse cupe che poco prima ci inquietavano sono delle rocce e le enigmatiche forme che si intravedono muoversi sono silenziose creature che popolano la notte  Alla fine si comprende che c’è un mondo molto più vasto che si estende oltre i confini della terrazza. La medesima cosa accade nel corso di un sogno profetico: prima che la luce della coscienza si spenga, si è convinti che esista solamente l’angusta realtà in cui ci si trova, poi, quando la luce dell’intelletto  svanisce, si cominciano a percepire voci e immagini che provengono da una dimensione sconosciuta e infinita.
Secondo la tradizione presente in Giamblico, esiste una duplice vista: l’una corporea e adatta a cogliere soltanto le cose che appartengono alla dimensione terrena, l’altra, quella dell’anima, che si estende all’infinito oltre ciò che con il corpo vediamo. Così che, spegnendosi la prima, subentra l’altra, che diviene attiva durante il sonno e che si serve dei sogni per manifestarsi.
Nelle religioni antiche, anche il sonno era un principio universale, per il tramite del quale gli dèi trasmettono agli uomini le cose riposte e segrete di un’arcana sapienza, quindi anch’esso era considerato un’entità eterna e trascendente.
I Greci lo chiamavano Ypnos  e, si diceva, fosse figlio della Notte. Per i Latini invece il suo nome era Sopor, e in lui riconoscevano un dio misterioso la cui dimora è una grotta, che si apre sul fianco di una montagna avvolta perennemente in molteplici strati di nebbia. Essa sorge nel più remoto occidente, quasi ai confini della notte eterna. La luce che illumina la grotta è quella di un ininterrotto crepuscolo, perchè in quel luogo non c’è né alba né tramonto, ma solamente un continuo perpetuo crepuscolo.  E’ un mondo chiuso nel più totale silenzio, con un’unica eccezione: il gorgogliare morbido e uniforme della fonte  dell’Oblio che sgorga proprio nel centro della grotta e che con la sua voce insinuante induce chi l’ascolta al torpore e all’oblio. Davanti all’entrata germogliano le ingannevoli erbe del sonno. Tra queste regna sovrano il fiore del torpore, cioè il papavero. All’interno su di un letto d’ebano giace sdraiato languidamente il Dio Sonno. Il suo capo è incoronato da un serto di papaveri, che sono i fiori che  più ama. La sua figura, però, è possibile intravederla a  mala pena, attraverso il fluttuare di una cortina bruna, tenue e leggera come un velo. Attorno a lui è disposta la sua corte silenziosa, composta dalle personificazioni dei tanti  sogni, che si affacciano alla mente di quelli che dormono  Una delle più importanti è Morfeo, che ha la facoltà di rivestire qualsiasi forma umana, e accanto gli sta Fabeàtor, che è in grado di prendere qualsiasi forma animale. C’è poi Fantasio, che entra nel sonno dei condottieri e dei re, assumendo l’aspetto di rocce e di alberi, di fonti e di laghi e di qualsivoglia altra cosa, purché  non sia animata.  Ma oltre  questi ci sono una miriade di altri ministri del Signore del sonno, che vagano instancabilmente nella mente di chi dorme. Tutto questo ce lo racconta Ovidio nelle Metamorfosi, presentandoci la dimensione che si estende oltre lo stato di coscienza e celebrando il mistero  nascosto dietro il fenomeno del sonno.
Nella  fede degli antichi, il sonno è una  frontiera, un passaggio ambiguo che gli dèi tengono aperto per comunicare con gli uomini, per trasmettere loro avvertimenti o minacce, premonizioni o consigli, oppure per manifestare il loro sdegno e la loro ira. Questo passaggio è metaforicamente situato in una grotta, della quale incontrastato signore è un dio dalle connotazioni sfuggenti e indefinibili, che non si sa bene se sia amico o nemico degli uomini, o l’una e l’altra  cosa.  Quanto alla collocazione geografica della grotta, si dice che  sia posta nel paese dei Cimmeri, il che potrebbe voler dire  che è situata nel più lontano Occidente. Un Occidente mitico, che serve a indicare una dimensione arcana, collocata al confine del regno dei  morti.
Esso è la metafora di una frontiera invisibile, ma tuttavia incoercibile che divide l’esistere dal non esistere, il visibile dall’invisibile. Ed è nell’Occidente che si trovano i leggendari luoghi, accessibili solamente a personaggi insoliti, nati per trasformare il mondo. Perché è nel mitico Occidente che si trovano le regioni più occulte della religione antica: il giardino delle Esperidi, le Isole dei Beati, l’Isola di Porpora dell’infanzia di Dioniso ed anche la grotta dell’enigmatico Signore del sonno e dei sogni. Forse perchè è qui che è riposto il segreto della scomparsa del Sole e del suo eterno riapparire e di quella del Tempo e degli Eoni, entro i quali nascono e si dissolvono i cicli della vita e le molteplici manifestazioni di quanto dall’invisibile germoglia, cresce e si dissolve e poi incessantemente ritorna. Velata è la luce che avvolge la grotta del sonno, come velato è il suo Nume, che giace in eterno su di un letto del colore del buio, quasi a voler dire che suo piedistallo è proprio l’oscurità della notte.  Perchè nella sua dimensione la luce e l’ombra, il visibile e l’invisibile si mescolano e si bilanciano, nell’alternarsi continuo di ciò che già è, con quello che deve ancora essere, ciò che è già successo, con quel che deve ancora succedere. Si tratta di uno scrigno segreto, entro il quale un Dio dorme e sogna e, dormendo e sognando, comunica i segreti della vita ai viventi. Questa è la patria dei sogni, il luogo di frontiera nel quale una folla di entità indefinibili mutano continuamente di forma. La loro natura è quella della nebbia che nasce e si nutre dei sogni di un Dio che incessantemente li crea, nella luce crepuscolare di ciò che non è ma che potrebbe essere, che già è o che mai sarà. A condurre la folla di queste creature larvali, ci sono tre potenti demoni:Morfeo, Fabèor e Fantasio che la mente del Dio dormiente plasma, obbedendo alla volontà del consesso degli dèi. Iris, la risplendente figlia di Zeus e di Hera, da cui promana una luce d’oro e che veste una tunica variopinta, è ciò che lega alla sommità radiosa dell’Olimpo la penombra silente dell’antro del Dio Sonno.
Si tratta di un Angelos rilucente, che di tanto in tanto discende nell’antro di Ypnos, che  giace eternamente avvolto nel mistero della sua natura indefinibile. Allora succede che nei demoni, che da sempre lo servono, venga infusa  vita e spessore. Succede che essi prendano a nutrirsi della mente di coloro che sono immersi nel sonno. Morfeo è la più famosa creatura di Sopor ed è quella che interagisce con gli uomini più di frequente. Perchè quando gli dèi intendono comunicare loro qualcosa, lui entra in azione assumendo l’aspetto di un personaggio  famoso o che comunque  sia della massima credibilità per colui a cui il messaggio è rivolto, e del quale è veicolo il sogno. In questo modo il messaggio è senz’altro ben accetto e ascoltato. Ma il discorso si fa più complesso se si vuole analizzare la funzione di Fabèor, perchè in questo caso gli dèi comunicano in maniera enigmatica, forse perchè si tratta di un messaggio destinato a gente non comune, e non comune perciò deve essere anche il messaggio.
Quando gli Achei erano sul punto di salpare alla volta di Troia, Agamennone sognò un serpente attorcigliato attorno a un nido, dove nove uccelletti finirono  divorati dal rettile. Subito dopo, la madre degli uccelletti divenne la decima vittima del serpente. Tutti allora compresero che si trattava di un sogno mandato dagli dèi. Tiresia, che vedeva oltre il visibile, fu l’unico a comprenderne il significato: egli spiegò che i nove uccellini rappresentavano nove anni di guerra, mentre la loro madre, cioè la decima preda, simboleggiava il concludersi in modo cruento della guerra.
Ma perchè mai la dimora di Sopor è descritta come un antro? Forse perchè in essa è riposta l’idea di una verità sotterranea, che collega ogni essere umano a quella strana cosa che è il sonno. Perchè l’uomo, quando si addormenta, viene catturato da un che di indefinibile, come  l’aspetto con cui è descritto il Dio del sonno. Quando ciò avviene, per l’uomo non c’è scampo; egli resta prigioniero  delle Potenze che abitano quella enigmatica grotta, nella quale tutto è solamente apparenza ed ogni cosa può essere verità o inganno.
Il Mistero delle Grotte del Tempo.
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Nel massiccio del monte Ida, a Creta, esiste un antro che fu veneratissimo nei tempi antichi, perchè, secondo il mito, vi nacque Zeus e vi fu allattato. Secondo alcuni a farlo fu  una capra, oppure, secondo un’altra  versione, una Ninfa, o una principessa.  Tutte  vengono però  indicate con il nome di Amaltea. Si racconta che guerrieri di stirpe divina eseguirono una danza circolare e coprirono con il clangore dei loro scudi i vagiti del figlio di Rhea.
Sempre a Creta, si trova una seconda grotta altrettanto sacra. Questa fu scoperta da alcuni viaggiatori del XVII secolo, ma solamente alla fine dell’ottocento si procedette ad uno scavo sistematico, che portò alla luce dei reperti dal significato indecifrabile. Tra questi, di particolare interesse risultarono due scudi rotondi, in bronzo dorato, risalenti al VII sec.a.C., dalla chiara funzione rituale. Il che fa pensare che nell’antichità il luogo fosse utilizzato come grotta santuario.
In uno degli scudi è raffigurato un personaggio regale, che con entrambe le mani solleva verso il cielo un leone, tenendolo in una posizione particolare. Infatti il leone è tenuto sollevato in alto, sopra il suo capo, con il corpo completamente inarcato. La posizione dell’animale potrebbe far pensare che voglia rappresentare l’arco del cielo, sotto il quale il personaggio eroico compie le sue imprese. Inoltre egli appare contornato  da quattro timpani, probabilmente di bronzo, mentre alla sua destra e alla sua sinistra due Genii alati si fronteggiano, facendo risuonare degli strumenti a percussione. In basso, un toro scalpitante sostiene sul capo il piede sinistro del personaggio regale.  Nell’altro scudo è raffigurato un grande uccello con le ali spiegate, posto al centro di un’area gremita di figure zoomorfe  e su ciascuno dei lati sono riprodotti due lunghi serpenti.  Sul capo di questi si rizzano delle corna lunate. Più in basso, al di sotto delle gole dei rettili, si scorge una coppia di leoni che avanza. Oltre a ciò, sempre nella parte inferiore dello scudo, all’esterno della sua circonferenza, appare una figura maschile con una tiara sul capo.

Il fatto che nella grotta sia stata rinvenuta una moltitudine di lucerne, sotterrate nei pressi di un grande altare, scolpito nel vivo della roccia, confermerebbe che si tratti di una grotta santuario.
Il mito parla infatti di due antri, nei quali Rhea avrebbe nascosto Zeus appena nato per proteggerlo da Kronos. Naturalmente ci troviamo di fronte ad un parlare simbolico, e impedire a Kronos di divorare l’ultimo dei figli partoriti da Rhea vuol significare che, sottratto al padre, Zeus sarebbe  stato salvato dal dominio del Tempo. Infatti Saturnino Sallustio, nel suo trattatello Sugli Dèi e il Mondo, nel commentare  il mito di Kronos, spiega che in lui va riconosciuto il Tempo nella sua interezza e nei  figli le varie parti del tempo: vuol dire che alla fine tutte le parti che lo compongono fanno ritorno alla loro primordiale unità. In realtà,  il mistero di queste grotte cretesi pare proprio imperniato sull’enigma del tempo. A questo proposito, va ricordata la storia di Epimenide, un personaggio che, nonostante la sua vicenda risulti fantastica, sembra  essere vissuto realmente .
Si racconta che Epimenide, un giovane pastore di Creta, nell’intento di ritrovare il gregge del padre, si fosse allontanato dai luoghi dove era solito far pascolare le pecore. Per questo motivo si diresse verso le solitudini rupestri di certe montagne che si riteneva fossero abitate da arcane entità misteriche. Il giovane camminò fino allo sfinimento, ma, giunta l’ora più calda della giornata, quando i raggi del sole scendono a picco e il tempo sembra fermarsi, si trovò in prossimità di una grotta profonda che,aveva in se un che di insolito e inquietante. Sia pur preoccupato, rendendosi conto di essersi troppo allontanato dai luoghi conosciuti, sentendosi stanco e accaldato, decise di entrare ugualmente in quella grotta enigmatica. Subito si addormentò, e al suo risveglio riprese a cercare il suo gregge.
Non ci viene detto se poi sia riuscito a recuperarlo, ma probabilmente, dal momento che, tornato a casa, non trovò vivo più nessuno dei suoi parenti, ad eccezione di un  fratello che gli si fece incontro e lo fissò terrorizzato come avesse visto un fantasma. Anche Epimenide era sbigottito, perchè all'’inizio non riconobbe il congiunto che poche ore prima aveva lasciato adolescente e che ora invece ritrovava  carico di anni. Il fatto è che il sonnellino di Epimenide era durato cinquantasette anni. Per cinquantasette anni aveva dormito, senza invecchiare di un solo giorno, mentre  tutti i suoi parenti erano nel frattempo morti o incanutiti. Lui invece no, era rimasto quello di prima: un adolescente. Questo vuol dire che Epimenide, mentre stava nella grotta, si era trovato a vivere al di là del tempo. Si credeva, infatti, che dimora del Tempo Infinito fosse un antro. Il Tempo Infinito era contemplato come un’entità enigmatica che, soprattutto nell’Ellenismo tardo, era considerata personificazione dell’Eternità e del suo mistero. In un brano scritto da Claudiano in onore di Stilicone, in modo quanto mai suggestivo ne viene descritto l’antro:
“Giace ignota e lontana,inaccessibile a noi uomini, e quasi irraggiungibile anche per gli dèi, la grotta  dell’immenso Aion, Madre squallida degli anni, che dal suo ampio grembo manda le epoche e le riprende. Un serpente che con la sua tranquilla divinità tutto consuma, circonda la grotta, ed è vitale in eterno nelle sua squame, divorando con la bocca la propria coda ,e tornando così silenziosamente ai propri inizi. Quale custode del vestibolo ,siede la Vecchia  Natura, con il bel viso, e da tutte le sua membra pendono anime alate
Questi versi ci fanno pensare che la grotta in cui Epimenide trascorse dormendo cinquantasette anni potrebbe essere per l’appunto la dimora del Tempo. Un luogo in cui non esistono scansioni che lo dividano e parcellizzino.
Nelle cosmogonie orfico- rapsodiche, il Tempo è visto come perno di tutto quel che viene a esistere, quindi come scaturigine dell’esistente. Al di la di lui, ogni cosa è, ma non esiste. In effetti, sono ben strane le immagini che Claudiano ci propone. In queste, Aion, il Tempo Infinito, il Tempo  senza ripartizioni, ma che le possiede tutte, ci è presentato come Madre, diversamente dal resto della letteratura antica. In questa, egli è descritto come un Dio primordiale, talvolta con una lunga barba, ma più di sovente con una testa di lupo e una di leone ai lati del capo, con il corpo avviluppato entro le spire di un lungo serpente. In Claudiano, invece, Aion è definito Madre delle età che questi principi contengono. A differenza di altre divinità primordiali, che con la loro azione fecondatrice creano gli universi, Essa è Generatrice.
Nella metafisica di alcune religioni, questo Principio viene indicato come Padre del tutto, in altre come Madre. Nel primo caso si segue una visione creazionista, nell’altro prevale quella generativa, come nel caso di Gea, prima che  si congiungesse, secondo la Teogonia di Esiodo, al Cielo Stellato. Non possiamo fare a meno di ricordare il simulacro di Artemide Efesia, dove la Dèa ha il volto e le membra del colore del buio, un buio che è però avvolto nel fulgore dello xoanon gremito di anime, fiori e animali, fantastici o reali. E’ un’immagine sacra, nella quale è resa evidente l’idea del fuori, dell’essere e del divenire . In essa ritroviamo anche il concetto che Claudiano ha voluto esprimere, servendosi dell’immagine della grotta, dove vive ed opera Aion che, come altre forme divine  e legate alla primordialità totale, ha per dimora un luogo che corrisponde a quel che lui è, e a ciò che da lui perviene .
Non a caso egli pone la Natura al di fuori della grotta, dove cioè ha inizio il mondo visibile, e la designa quale custode della soglia, di una soglia oltre la quale c’è solamente l’intuibile. Claudiano definisce il Tempo Infinito Madre, non perchè sia femmina o maschio, ma perchè ne celebra l’azione generativa. La pone in una grotta, perchè questa evoca l’idea dell’invisibilità suprema, che è il cuore della Vita. Lo spazio esterno lo dedica invece alla Natura che di Aion è ciò che appare, come lo Xoanon di Artemide Efesia: come in questo e da questo sbocciano le Anime, vale a dire le Potenze che traggono dall’Invisibile  le Ragioni Visibili . Perché Aion e la Natura sono la medesima cosa, come lo sono la parte buia e quella di luce della Grande Artemide, quando si mostra come Grande Madre di tutto ciò che è destinato a esistere.
“Principio e origine di tutto,antica Veneranda Madre  del Mondo e Notte e Luce e Silenzio……che fai la guardia, Gloriosa Rhea…..che con i tuoi raggi splendenti illumini la terra, Aion dalle fiamme inestinguibili, guardandomi con i tuoi occhi, splendendo felicità pura” .Con questi versi essa viene celebrata in un antico inno attribuito a Pitagora. Il tutto è però cinto da un  misterioso serpente che circonda l’essenza della vita e incessantemente, con moto circolare, entra ed esce  da se stesso.
Quanto ad Epimenide, a quel che assicurano gli autori antichi, sembra che sia vissuto intorno al VI secolo a C. Di lui, inoltre, si racconta che, dopo la sua meravigliosa avventura, gli Dèi gli abbiano fatto dono della capacità di vedere nel passato e nel futuro.
Quale potrebbe allora essere il senso della sua straordinaria avventura ? A quanto si narra, inizialmente lui era solamente  un pastore, quindi una figura legata alla natura e alla terra. Funzione importante però, perchè alla figura del pastore è congiunta l’idea dell’intuizione delle cose divine.
Di ciò erano persuasi parecchi esegeti del paganesimo medio e tardo, tra i quali Varrone e soprattutto Giuliano Imperatore. Perchè il pastore, per il fatto di vivere al di fuori della civiltà urbana, secondo loro, sarebbe stato in grado di percepire cose che agli altri sono nascoste; come accadde a Esiodo, pastore anch’egli, al quale le verità divine furono offerte avvolte nei veli variopinti del mito. Epimenide si trova a transitare nei pressi di una grotta speciale, proprio nel momento in cui le ombre si accorciano e sparisce il mondo a lui noto ed al suo posto ne appare un altro segreto, che si trova alle spalle di quello conosciuto. Epimenide entra nella grotta nell’ora  che i pastori più temono, in quell’ora in cui gli uomini delle civiltà pastorali si muovono con cautela.
Si tratta del momento in cui tutto un mondo nascosto s’intreccia a quello palese e dilaga, con le sue caratteristiche enigmatiche, indecifrabili, inquietanti. Perché il Mezzodì è sacro ad Ecate e a Pan e possiede in se un attimo speciale, in cui il divenire si arresta ed anche il tempo si ferma, e le porte dei templi vengono sbarrate, e i simulacri degli dèi velati. In questo istante pericoloso, Epimenide entra in una grotta arcana, nella quale, secondo la leggenda, nacque o vi fu tenuto nascosto Zeus. Si racconta anche che, in memoria dell’evento, la grotta fosse ricolma di miele  e che dentro di essa la morte non potesse entrare; e chi vi si fosse trattenuto, sarebbe vissuto per sempre. Sembra anche che a colui che vi penetrava, accadesse di udire il fragore degli scudi dei Kureti. Si diceva anche che, in un certo giorno dell’anno, un grande fuoco, simile ad un’unica fiamma, sprizzasse dalla grotta diffondendo all’intorno una luce irreale.
Ma ci sono altre grotte, in altre tradizioni, che come quella Cretese hanno la prerogativa di essere aldilà del tempo, oppure  partecipi di una diversa logica del fluire degli anni.
In una leggenda Scozzese si narra quel che accadde a un certo John Smith, che era  entrato per caso in una  grotta  del tempo. Si trattava anche in questo caso di un giovane pastore che, mentre conduceva al pascolo il  gregge, sentendosi stanco, entrò  in una caverna attraverso un passaggio che si apriva sul fianco di una  roccia fatata. Si trattava di una picco speciale, conosciuto col nome di Roccia di Merlino. Il giovane vi entrò e si accorse che era abitata da Fate e Folletti. Accolto con benevolenza da questi, vi si trattenne per un po’, ma  quando ne uscì, convinto di essersi trattenuto li dentro per un solo giorno, si rese conto che in realtà erano trascorsi moltissimi anni. .
Anche nella tradizione tedesca esiste una grotta  straordinaria, situata  sul monte Kyffauser. Si racconta che in essa l’Imperatore Federico II di Svevia continui a vivere, sebbene addormentato, attendendo che la patria tedesca abbia bisogno di lui. Ma a prescindere dal dato patriottico, si dice anche  che ciò avverrà quando nella valle tornerà a fiorire il pero selvatico, e sarà allora che lo Stupor Mundi sarà finalmente  sciolto dal suo sonno secolare. Questo però sarà anche il momento in cui nel mondo, in tutto il mondo, tornerà a fiorire l’iniziale  primordiale primavera. 
Riferimenti bibliografici 
 1 Porfirio  Antro delle Ninfe  Milano 197
 2 Macrobio Saturnali  I,21,20
 3 Plutarco  De Genio Socratis   Milano 1982
 4 Macrobio  Saturnali I ,21
 5 Saturnino Sallustio Sugli Dèi e il Mondo Padova 1978
 6 Giamblico I Misteri 7 Ovidio Metamorfosi   XI
 8 Saturnino Sallustio  Sugli Dèi e il Mondo   Padova 1979
 9 Claudiano  De Consulatu  Stilichonis II 424
 10 Karolyi Kerenyi Miti e Misteri   pg 332 Torino  199
 11 Porfirio  Antro delle Ninfe Milano 1974
 12 E.Kantorowicz    Federico II Imperatore Stuttgart 1927

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