Sa maìa mala. La magia nera
delle donne sarde
Èl'altro lato della luna. Quello oscuro e misterioso che può fare anche
paura. Basta crederci oppure no. Le chiamavano e le chiamano bruxe, femine
male, donne dannate. Erano e sono creature che hanno attraversato le tenebre
per non fare più ritorno. Profumano di zolfo, sono capaci di portare morte, di
infliggere dolori e lacrime, di ballare coi morti e di vendicarsi atrocemente
di torti subiti con punizioni e castighi. Simili a fiori velenosi, queste donne
sono intermediarie del mondo dei vivi e di quello degli spiriti, "maìa
mala", che si sprigiona con incantesimi di parole e oggetti
diabolici.
Come la principessa Donoria, che viveva nel suo castello
insieme al padre, re di Rebeccu, un paesino vicino a Bonorva. Creduta strega,
la giovane fu costretta a lasciare la propria dimora dal popolo che temeva i
suoi sortilegi. Prima di andare via fece però in tempo a scagliare un potente
anatema contro la città che la stava condannando all'esilio perpetuo:
"Rebeccu,
Rebecchei da e trinta domos non move"
(Rebeccu che tu non superi mai le trenta case).
(Rebeccu che tu non superi mai le trenta case).
Borgo pressoché disabitato, Rebeccu è ora un centro fantasma dove parlano
solo i tetti, i muri e i rintocchi del campanile che annunciano una messa
deserta.
Lo studioso Enzo Espa lo descrive come il paese con la maledizione addosso scagliata non da una principessa dell'età dei giudicati, ma dalla strega Maria Manca. Espa ha indagato nei sommari statistici della popolazione della Sardegna che partono dal 1678 stabilendo come la nefasta profezia si sia davvero avverata: Rebeccu ha sempre avuto all'incirca trenta focolari.
Lo studioso Enzo Espa lo descrive come il paese con la maledizione addosso scagliata non da una principessa dell'età dei giudicati, ma dalla strega Maria Manca. Espa ha indagato nei sommari statistici della popolazione della Sardegna che partono dal 1678 stabilendo come la nefasta profezia si sia davvero avverata: Rebeccu ha sempre avuto all'incirca trenta focolari.
Le mazinere erano, invece, creature reali, eredi di una conoscenza radicata sin
dalla notte dei tempi, donne passate al lato oscuro. Spietate e crudeli agivano
sotto compenso minando la salute delle persone o mandandole in rovina con
manufatti maligni.
Ingredienti indispensabili per attivare la malefica malia erano: la
tradizione che si tramandava di donna in donna lungo la linea femminile delle
generazioni, segretezza di formule quasi indicibili e fiducia nei propri
poteri.
Il manufatto più comune e conosciuto in tutta l'isola era, però, la
puppia o pippia, buatedda, mazzina o ligadora, a
seconda delle zone. Si costruiva con foglie di asfodelo o sughero, cera, legno
tenero o dei pezzi di stoffa appartenenti alla persona che deve subire la
magia. I materiali si modellavano per produrre una sorta di bambola malefica.
Pronunciando parole oscure la fattucchiera conficcava degli spilli o aghi nel
giocattolo dannato a seconda delle disgrazie o malattie che dovevano piombare
nella vita del malcapitato di turno. «Spesso si pungeva l'oggetto negli
stessi punti in cui la persona doveva essere colpita dal male pronunciando la
formula» scrive Miranda Niedda Giagnoni nel libro "Majarzas e
Sanadoras".
«Deus
ti maleigath comente sas puppias malas. Chi tue morzas»
(dio ti maledìca come fanno le bambole cattive. Che tu possa morire)
(dio ti maledìca come fanno le bambole cattive. Che tu possa morire)
I riti avvenivano solitamente col buio o durante i crepuscoli - periodi
considerati magici. Per potenziare l'effetto venivano compiuti con la luna
calante o nascosta dalle nuvole, possibilmente di venerdì.
L'aggressione magica proveniva anche dalla parola: sa limba mala.
Sa brebadora era una donna che aveva la sapienza oscura di formule magiche come berbos, irrocos e frastimos: imprecazioni e maledizioni. Parole che potevano sanare, ma anche danneggiare raccolti, impedire guarigioni, infliggere castighi.
Sa brebadora era una donna che aveva la sapienza oscura di formule magiche come berbos, irrocos e frastimos: imprecazioni e maledizioni. Parole che potevano sanare, ma anche danneggiare raccolti, impedire guarigioni, infliggere castighi.
Un altro metodo per far scatenare la magia nera consisteva nell'ispuntzu ossia
sottrarre l'amuleto che proteggeva dall'occhio e dagli influssi del male.
Riuscire a portare via punghe, pinnadelli, nudeus e altri talismani significava
disarmare completamente le persone che divenivano così preda facile dei
malefici.
«La magia nera sconvolgeva la tranquilla esistenza delle persone perché
scatenava una serie incontrollabile di danni e, al pari de su ogu malu, colpiva
indistintamente le persone e le cose: agiva sugli animali e sugli averi dei
malcapitati" dice Gigi Deidda in "Racconti e luoghi tenebrosi della
tradizione popolare sarda. Non sono deine come la sibilla barbaricina, ma - scrive Joyce
Lussu nel Libro delle streghe - bruxe come quella di Urzulei che fa venire il
carbonchio ai cavalli e infila gli spilli nei pupazzetti di mollica di pane».
Donne misteriose, le bruxe che compivano fatture ed erano temute e vivevano
ai margini della società. Si evitava di nominarle e si facevano gli scongiuri o
si sputava tre volte, se per strada capitava di incontrarle.
Nei paesi si aggiravano anche le gregas, donne invidiose e
crudeli sempre pronte alla critica, portatrici di sventure accomunate alla
morte. Erano famose quelle di Ortueri. Si diceva che uscissero a mezzanotte in
numero di tre in processione per fermarsi davanti alla casa della persona
predestinata sulla quale si doveva imbattere la sventura.
Le signore del male vivono nei racconti degli anziani e c'è chi
sostiene che esistano ancora. Padrone di regni di tenebra esercitavano un
temibile dominio, spinte forse dal loro essere donne e dal potere insito nel
genere femminile di donare la vita, ma anche la morte.
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