AUTORE Marcello
De Martino TITOLO L’identità segreta della divinità tutelare di Roma
– un riesame dell’affaire Sorano. Settimo Sigillo, Roma 2011.
Marcello De
Martino ha tentato nel libro, notevole per l’apparato erudito e le note, di
ricostruire con tutto il materiale storico disponibile, la vicenda che riguardò
nell’antica Roma il tribuno della plebe Valerio Sorano. Costui sarebbe stato
crocifisso per avere rivelato il nome segreto di Roma o il nome dell’entità
tutelare dell’Urbe, il chè poi sarebbe lo stesso per alcuni, anche se l’autore
lo nega recisamente. Una questione paragonabile a quella conciliare tridentina
del “sesso degli angeli” che puzza un pò di artificiosità perché De Martino
parte da un presupposto apodittico (a differenza della sua trattazione,
ammirevole per capacità documentaria) che mina dalle fondamenta il suo stesso
edificio ricostruttivo.
Questo
presupposto è il prendere per buono il fatto che veramente un certo Valerio
Sorano fu crocifisso per avere violato uno dei due segreti. De Martino ha
dimostrato di poter svolgere un lavoro investigativo su questo presupposto ma
non si è accorto che lo stesso procedimento gli si può rivoltare contro.
Infatti proprio dalla sua fonte principale, Plutarco, si può inferire che la
notizia è una pura invenzione propalata nell’antichità per dare lustro a delle
presunte origini sacrali della romanità.
Plutarco
infatti riferisce che alcuni “collegano forse questo divieto a una
superstizione, raccontando che Valerio Sorano fece una brutta fine per averlo
detto”, cioè già in antico si sospettava che si trattasse di una credenza
fasulla. Del resto dicerie analoghe circolavano già sull’arrivo dei Troiani nel
Lazio, diffuse ad arte dall’aristocrazia senatoria (Fabio Pittore) per
dignificare un passato romano altrimenti oscuro (vedi nota di p.114). Se la
condanna di Sorano fu una leggenda inventata non ha senso neanche il tentativo
dell’autore di identificare Sorano nel famoso senatore erudito anziché nel
tribuno della plebe. Comunque nulla toglie che un qualche Sorano venisse ucciso
con questa accusa, ma solo per mascherare motivazioni più profane.
Del resto
l’idea di un nume tutelare o di un nome segreto può venire in mente solo a
posteriori per una città che si suppone edificata ex abrupto, ma in realtà Roma
fu un work in progress (nella nota di pagina 114 l’autore afferma che anche il
nume tutelare di Roma fu il risultato di «processo teologico in fieri»). Ciò
spiega perché, secondo una testimonianza di Macrobio, molti furono coloro che
si esercitarono nella scoperta di un qualche nome o contenuto arcano per Roma
(De Martino parla a sua volta del Pervigilium Veneris), e non vennero uccisi,
anche se l’autore ritiene che ciò non avvenne, a differenza di Sorano, per il
fatto che non avevano scoperto davvero l’arcano… Tutto ciò non toglie che possa
esserci una divinità o un nome occulto legittimamente valido per l’Urbe (così
come c’era quello occulto di Bona Dea per le donne romane), a patto di
considerare la cosa da un punto di vista molto più contingente e datato. Un
esame criticamente scrupoloso dei pignora imperii, per esempio, andrebbe nella
stessa direzione, mettendo al riparo il lettore da quella romana fabulositas in
cui credette un Marco Baistrocchi.
Lo stesso De
Martino sembra del resto assai critico nei confronti di questa fabulositas,
almeno quella dei moderni epigoni: «Ci si riferisce a circoli e associazioni di
ispirazione neopagana (chiamata dagli addetti ‘Via romana agli dèi’), come il
Centro Studi Tradizionali ‘AMOR ROMA’ – dalla denominazione molto eloquente, ci
sembra –, fino al 2009 emanazione del Movimento Tradizionale Romano, il quale,
peraltro, ha come organo ufficiale la rivista ‘La Cittadella’…» (n. 297 p.178.
Si vedano più avanti altre lucide critiche a Loris Viola, Guido De Giorgio e
Colonna di Cesarò). Questi moderni epigoni ritengono che il nome arcano di Roma
sia il suo contrario, Amor, connesso al fatto che la divinità tutelare della
romanità fu la madre di Enea, Venere, dea dell’Amore. Ora, da un punto di vista
non assoluto ma contingente, è innegabile storicamente che Venere sia davvero
il nume tutelare di Roma (anche se De Martino ci fa intuire non con il suo nome
generico ma con una sua epiclesi); purtroppo, c’è stata già da tempo una
“inversione dei simboli”, e Amor non può certamente essere il nome arcano a
meno di non volere riconoscere una continuità del simbolo al di là del simbolo
stesso, poiché Amor ben si attaglia con quel messaggio cristiano di quella
Chiesa che di Roma ha usurpato i simboli e le dignità (lo ammette anche
l’autore nella nota di p. 177). Proseguendo su questa scia, si dovrebbe anche
considerare il terzo nome arcano, Omar, che ci fa paventare non troppo distante
nel tempo un futuro molto particolare… Ha quindi ragione De Martino quando
scrive (p.182) che «in realtà, questo tipo di esegesi appare più affine alle
speculazioni misticheggianti della cabala ebraica, giacché mostra una
metodologia d’indagine che dovrebbe esser aliena agli studi d’antichistica, non
avendo, infatti, nulla a che fare con una stretta analisi dei dati documentali
che sia ispirata ai dettami della filologia e della ricerca storica». Il nostro
autore si dichiara convinto che il nome occulto di Roma è rimasto tale e che
l’unico che potrebbe averlo decifrato potrebbe essere stato, per i motivi che
il lettore troverà al termine del suo libro, il grammatico Verrio Flacco e non
Valerio Sorano.
Si può
comunque prescindere dal fatto della storicità della condanna di Valerio
Sorano, poiché ciò non è l’essenziale del libro di De Martino. Quello che conta
è che l’autore sembra abbia davvero fatto centro, con ottimi argomenti di
grosso calibro, per quel che riguarda l’identità del nume tutelare di Roma (Genius
Urbis Romae) e cioè una poco pubblicizzata divinità androgina, bisessuata, una
Venere o Fortuna con la barba o calva, cosa che certamente i Tradizionali
Romani di oggi non possono sopportare, stante il fatto che tale tipo di
divinità non è indoeuropea e risente di quel tipo di razza dello spirito o
dell’anima che tanto Evola stigmatizzò con virulenza, ma che già Samson Eitrem
e Angelo Brelich avevano intravisto. Forse i Tradizionali Romani vedranno come
una offesa sanguinosa l’affermazione di De Martino (p.93) che «la statua del
Genius Urbis Romae fosse quella della Venus calva/Fortuna barbata», ma la mole
di dati portati a favore di questa correlazione è davvero impressionante e il
libro merita per ciò stesso una attenta ancorché faticosa lettura.
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