domenica 18 marzo 2012

Destini paralleli: Raffaele Mattioli e Adriano Olivetti

Riportato dal bolog di Andrea Caracini pubblicato domenica 5 febbraio 2012






Raffaele Mattioli e Adriano Olivetti.
Due italiani illustri del 900: il grande finanziere e il grande industriale.
Due umanisti e mecenati con un approccio eretico alla cultura e alla vita (e la cui “eresia” ha suscitato, non del tutto a torto, la diffidenza dei cattolici, almeno di quelli di un certo tipo[1]).
Due eccentrici, rispetto all’establishment italiano, di cui pure hanno fatto a lungo parte.
Ma anche, in ultima analisi, due servitori dello stato, due patrioti con un’idea di Italia e con un progetto specifico – l’indipendenza nazionale della finanza, per don Raffaele, l’eccellenza informatica e scientifica, per Adriano – incompatibili con la mediocrità richiesta dall’establishment suddetto.
Per questo sono stati spazzati via, sia pure con tempi e modi diversi (Olivetti sembra sia stato addirittura ucciso, come vedremo più avanti).
Per evidenziare il parallelismo del loro destino, invece di scrivere un articolo, mi limiterò alla riproduzione di alcune citazioni.
Utilizzerò come fonte delle mie citazioni due articoli: quello di don Curzio Nitoglia intitolato RAFFAELE MATTIOLI ED ENRICO CUCCIA: IL POTERE DELL’ALTA FINANZA[2] (che recensisce il libro di Giancarlo Galli “Il banchiere eretico. La singolare vita di Raffaele Mattioli”, Rusconi editore) e quello pubblicato sul sito “BYE BYE UNCLE SAM” intitolato Adriano Olivetti: l’italiano “pericoloso”[3] (le cui informazioni sono tratte dal libro “Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta”, di Marco Pivato, Donzelli editore). I grassetti nel testo sono miei.




Raffaele Mattioli:

«Il nazionalismo fu la sua prima “eresia”, al cospetto dell’establishment. Per esso il banchiere non deve avere una patria, la sua patria è il mondo. “Per Mattioli, invece, la Patria (con la maiuscola) è l’Italia (…), è stato a Fiume con D’Annunzio”.

«Come crociano, Mattioli era liberale, ma seguiva in campo economico la scuola keynesiana, essendo favorevole all’intervento dello Stato nell’economia, una eresia per i liberisti puri alla von Hayek o alla Milton Friedman. Cuccia in ciò lo ritiene un liberale anomalo.

«Mattioli favorì, in contrasto con Giuseppe Toepliz che lo aveva aiutato nella sua scalata delle cime dell’Alta Finanza, il passaggio della Comit dalla sfera privata all’IRI: la sfera pubblica…Mattioli decise di servire il regime [fascista] senza perdere la dignità, cercando una motivazione ideologica elevata: il keynesismo ossia l’intervento dello Stato in economia e preparandosi ad un imprecisabile ma ineluttabile post-fascismo.

«Mattioli aveva cercato di trasformare la Comit nella banca “italiana” per eccellenza: invece l’Istituto di piazza Scala, passata sotto il virtuale controllo di Cuccia-Mediobanca (il figlio che divora il padre!), scivolerà lentamente nelle mani straniere…della Banque Lazard di Parigi-Londra-New York.

«Secondo il Galli «che Otto Joel e Giuseppe Toepliz fossero in “odore di massoneria”, è opinione abbastanza corrente, sebbene da nessuna parte si trovino precisi riscontri. Quanto a Mattioli il suo nome non compare nemmeno nei pamphlet più arditi, a differenza di quanto è accaduto ad Enrico Cuccia o Cesare Merzagora. (…) “Essendo un crociano, papà non poteva avere per la massoneria che l’atteggiamento di disprezzo del Maestro”, sottolinea il figlio Maurizio.





«Il 22 aprile 1972, Raffaele Mattioli, dopo quarantasette anni di “servizio”, lascia la carica di presidente della Comit. Gli succede Gaetano Stammati. […] Galli commenta: «E qui veniamo al nodo della questione. L’isolamento di Mattioli, non potendo più contare sul sostegno dell’establishment finanziario che fa ormai riferimento alla Mediobanca di Enrico Cuccia…col quale Mattioli è in crescente frizione […] Secondo il Galli, Mattioli non “aveva saputo capire la mutazione genetica in atto nel capitalismo che ha travolto il keynesismo, inteso come primato dell’interesse pubblico su quello individuale, dell’interesse collettivo su quello delle…lobbies”. E non aveva gli appoggi (ebraico-americani) che salveranno Cuccia”.
«Mattioli era un fautore del “capitalismo ordinato”, come lo chiama Galli, Cuccia invece era fautore di un “capitalismo proteso verso la rivincita”.

«Sia Mediobanca (Cuccia) che Comit (Mattioli) dipendono dall’IRI, vale a dire dallo Stato. “Se non che mentre a Mattioli ciò sta bene, a Cuccia no. E gli sforzi che fa per sottrarsi alla sua tutela sono incessanti.

«Mattioli e Cuccia sono agli antipodi per quanto riguarda la loro attitudine verso le grandi famiglie imprenditoriali. Mattioli (il dominus della Comit) restò sempre un “servitore dello Stato”, mentre Cuccia (il dominus di Mediobanca) si schierò subito in loro favore. Così durante il regno dell’“ultimo Mattioli” i capitalisti “vanno a Cuccia”... o meglio ancora da Cuccia, poiché il Quartiere Generale della finanza italiana ha cambiato indirizzo e timoniere.

«Cuccia riesce a portare nel suo “salotto” oltre al fior fiore dell’imprenditorialità italiana (dagli Agnelli ai Pirelli) la potentissima Banque Lazard che opera lungo l’asse Parigi-Londra-New York, mettendo a profitto l’amicizia che ha stretto durante la famosa missione del ‘42 con il grande banchiere ebreo Andrè Meyer. Da quel momento Mediobanca è, nei fatti, ben più “internazionale” della Comit. Una connotazione che si farà sentire. Quando, negli anni Ottanta, alcuni politici tenteranno di estromettere Enrico Cuccia da Mediobanca, a differenza di quanto si verificò con Mattioli, scendono in campo a suo sostegno i potentati esteri oltre che quelli nostrani. E i politici sono obbligati a ripiegare, accettando successivamente (1988) la “privatizzazione” di Mediobanca. Perché gli “amici” di Cuccia si chiamano Lazard e Deutsche Bank”». .

Conclusione?

«La finanza italiana è stata ceduta così al “proconsole” (Cuccia) degli “stranieri” (i Lazard). L’economista Sergio Ricossa ha scritto: “Mediobanca è quasi tutto nella finanza privata italiana, è quasi nulla nella finanza internazionale”».
FINE DELLE CITAZIONI TRATTE DALL'ARTICOLO DI DON CURZIO NITOGLIA



Adriano Olivetti:

«Dopo la seconda guerra mondiale e la morte del padre, avvenuta nel 1943, Adriano assume il controllo dell’azienda, che nel frattempo è sempre più impregnata del carattere del suo nuovo proprietario e fondatore, nel 1948, del Movimento Comunità.

«L’Olivetti – nelle parole del tesoriere Mario Caglieris – è “una fabbrica fondata su un preciso codice morale, per il quale il profitto viene destinato prima di tutto agli investimenti, poi alle retribuzioni e ai servizi sociali, in ultimo agli azionisti con il vincolo di non creare mai disoccupazione”.

«La scommessa, professionale e scientifica, di Adriano Olivetti non si limita a confrontarsi con la concorrenza di quegli scienziati che, negli anni Cinquanta, stanno gettando le basi dell'informatica moderna, ma si intreccia anche alle dinamiche della guerra fredda.

«A cominciare dalla nomina del giovane ricercatore italo-cinese Mario Tchou alla guida del costituendo Laboratorio di ricerche elettroniche di Ivrea, nel 1954, poi trasferito a Barbaricina, vicino Pisa. L’intento del Laboratorio è quello di gettare le basi progettuali per creare il primo calcolatore elettronico da destinare al mercato.

«Nel 1959 è pronto Elea 9003 – acronimo di Elaboratore elettronico automatico – terzo prototipo dopo Elea 9001 ed Elea 9002, nonché il primo calcolatore a transistor commerciale della storia. Con l’ingresso ufficiale nel campo dell’informatica, l’Italia entra nel ristretto novero dei Paesi industriali in possesso di mezzi e conoscenze definite “sensibili”, ma la politica italiana – cerimonie a parte – non sembra affatto interessata a sostenere e proteggere la nascente industria informatica. L’Olivetti non riceve aiuti di Stato ed è anzi lei stessa a portare le istituzioni nazionali a conoscenza delle potenzialità nel campo informatico, mentre i concorrenti stranieri, ad esempio negli Stati Uniti, godono di somme ingenti stanziate dal governo, soprattutto a scopi militari.

«In questo scenario, due eventi tragici danno una svolta al destino dell’informatica italiana. Il primo è la morte d’infarto, nel febbraio 1960, di Adriano Olivetti. Il secondo, nel novembre 1961, è l’incidente stradale in cui il pioniere dell’informatica italiana, Mario Tchou, muore sul colpo.

«Secondo Giuseppe Rao, funzionario diplomatico – una delle rare fonti sui movimenti dell’Olivetti nel campo dell’elettronica – numerosi elementi lasciano supporre l’esistenza di un complotto per uccidere Tchou. L’ipotesi è che l’aver affidato ad un “muso giallo” il compito di condurre l’Italia nei segreti dello strategico mondo dell’informatica avrebbe destato le preoccupazioni di chi, in quel momento storico, aveva il maggior interesse a monopolizzarlo o perlomeno a primeggiarvi, gli Stati Uniti. E, fra l’altro, Mario Tchou era stato contattato dall’ambasciata cinese perché anche Pechino iniziava ad avviare studi sui calcolatori.

«A prescindere da qualunque ipotesi complottista, Rao sottolinea comunque che gli Stati Uniti avevano un enorme interesse a tenere fuori l’Italia nel campo delle ricerche sui calcolatori, in quanto Paese confinante con l’Impero del Male e contenitore del più grande partito comunista d’Occidente.

«Il modello di Adriano Olivetti non aveva avuto sostenitori nel mondo politico né, tantomeno, sostegno da parte di Confindustria, che anzi aveva mal digerito il voto dell’onorevole Olivetti, determinante per la costituzione del primo governo di centrosinistra. Franco Filippazzi, collaboratore di Tchou al Laboratorio, spiega che esso “non era di sinistra e non era di destra, o forse attingeva da entrambi gli orientamenti, ma di certo si trattava di un modello certamente in controtendenza ai valori di un’ampia comunità
interna alla DC, solidale invece ai valori ‘atlantici’”.

«Fatto sta che la morte di Adriano e la crisi economica seguita al boom degli anni Cinquanta portano l’Olivetti a una difficile situazione finanziaria e si fa quindi avanti un gruppo misto pubblico-privato, il cosiddetto “gruppo d’intervento” formato da FIAT, Pirelli, Mediobanca, etc. che entra nel capitale dell’azienda di Ivrea».

Fiat, Pirelli, Mediobanca…un film già visto. Conclusione?

«Gli ingegneri che avevano costruito Elea 9003 confluiscono in un nuovo organismo, la Deo, che nel 1965, su decisione del gruppo d’intervento, viene venduto per il 75% alla multinazionale statunitense General Electric. Con tale vendita – o svendita, per dirla con le parole di Rao – la politica industriale italiana cede definitivamente agli Stati Uniti il primato nella ricerca scientifica applicata all’informatica. Coronato nel 1968 con la cessione agli americani della restante quota del 25%».


Adriano Olivetti

Molto interessante anche il commento di un lettore al suddetto articolo:

«Mi presento : sono un pensionato assunto nel 68 presso la Olivetti di Ivrea come impiegato tecnico elettronico e quindi la realtà che voi presentate l’ho vissuta sulla mia pelle. A detta dei dipendenti interni, voce di popolo, Adriano Olivetti non è morto per cause naturali ma è stato lasciato morire dopo un attacco di cuore molto sospetto, vedi anni dopo un certo Aldo Moro morto in circostanze simili. Quello che posso affermare con sicurezza, detto in parole povere, per la Olivetti ciascun dipendente era un ESSERE UMANO da trattare in modo opportuno, per la Fiat ogni dipendente era un NUMERO e basta da gestire come tale. Concludo ancora con una nota sugli eporedioti (cittadini di Ivrea) che fino a quando Berta filava se ne fregavano di tutto compreso il Movimento Comunità e quando i soliti noti si sono dati da fare per distruggere l’Azienda hanno collaborato da perfetti burattini. Non ricordo esattamente la data , anni 70 credo, un altro progettista è morto in un incidente stradale sospetto,se vi possono interessare altri particolari relativi alla gestione De Maledetti sarò ben lieto di darveli».
FINE DELLE CITAZIONI TRATTE DALL'ARTICOLO DI "BYE BYE UNCLE SAM"




Conclusione generale

Fino a quando l'Italia continuerà a essere "la Bulgaria della NATO" le rimarranno preclusi sia il benessere economico che il progresso scientifico, come già evidenziato più volte su questo blog. Ricordo al riguardo almeno i seguenti post (in questi casi, repetita juvant):

L'Italia dell'Ulivo: lo scemo del villaggio globale
http://andreacarancini.blogspot.com/2010/09/litalia-dellulivo-lo-scemo-del.html

Dal Rapporto 41 alla cacciata di Rubbia: lo sfacelo del nucleare all'italiana
http://andreacarancini.blogspot.com/2010/12/dal-rapporto-41-alla-cacciata-di-rubbia.html

Silvio Berlusconi: da Cesare a Piccolo Cesare?
http://andreacarancini.blogspot.com/2010/07/silvio-berlusconi-da-cesare-piccolo.html

Tutti quei politici che parlano di "innovazione" e "ricerca" e, nel contempo, continuano a sostenere l'attuale collocazione atlantica dell'Italia mentono sapendo di mentire.

Un’ultima annotazione a proposito dei banchieri Lazard. Li abbiamo sentiti aleggiare anche nella – molto più recente – vicenda editoriale del “Fatto Quotidiano”, come ne scrissi nel post del 2 dicembre 2010 (dopo le – ampie – citazioni suddette non mi sembra inopportuna un’autocitazione, per concludere il post di oggi):

Da Antonio Padellaro ad Antonio Padellaro: la maledizione dell’Italia che non cambia mai
http://andreacarancini.blogspot.com/2010/12/da-antonio-padellaro-ad-antonio.html



«Lazard..., anche questo nome non mi è nuovo. La reminiscenza in questo caso non si riferisce tanto al nome in sé, quello dell’onusta e altolocata banca d’affari, quanto a una certa liason con certi personaggi di casa nostra. Anche qui, poi mi sono ricordato: ma sì, mi sembrava che nella proprietà del Fatto Quotidiano il fatidico marchio c’entrasse in qualche modo. Come ha scritto Luca Telese nel suo blog, tra i soci promotori del “Fatto” c’è anche la casa editrice Chiarelettere, con il 16% del capitale. Uno dei soci di quest'ultima è il banchiere Guido Roberto Vitale, presidente della banca d’affari VITALE & ASSOCIATI, già presidente di Lazard Italia dal 1997 al 2001. La presenza, a quanto pare solo indiretta, di Vitale nel “Fatto” aveva suscitato qualche mese fa il malumore di diversi lettori (che ne temevano un peso ben più incombente), come si può constatare dai commenti al detto pezzo di Telese. È probabile, se non certo che, come asserisce quest’ultimo, l’influenza di Vitale sul “Fatto” sia “pari a zero”: quello che qui mi preme sottolineare è l’indubbia comunanza di idee tra questi soggetti editoriali. Comunque, a leggere i curricula dei membri più autorevoli del team della banca Vitale, il passaggio alla Lazard sembra un “must”: Orlando Barucci (Consulente Lazard Parigi dal 1992 al 1993), Daniele Sottile (sino al 2001 Director e membro del Consiglio di Amministrazione di Lazard Italia), Riccardo Martinelli (Associate presso Lazard Italia dal 1994 al 1996, Paola Tondelli (dal 1997 al 2000 Director di Lazard Italia)».



[1] Sugli aspetti “sulfurei” di Mattioli vedi l’ampio ritratto che ne fa Blondet nel suo libro Gli Adelphi della dissoluzione: http://www.ibs.it/code/9788881552344/blondet-maurizio/gli-adelphi-della.html . Sul “socialismo magico” di Olivetti vedi il volume di Valentino Cecchetti IL «SOCIALISMO MAGICO» IN G. NOVENTA E ADRIANO OLIVETTI LETTORI DI RUDOLF STEINER (un grazie per la segnalazione di questo testo a Marco Massignan): http://www.slsi.it/sito/immagini/pubblicazioni%20libri/01-CECCHETTI%20SOCIALISMO%20MAGICO.pdf
[2] Pubblicato sul n° 51 di Sodalitium, luglio 2000, pp. 28-45, ripubblicato in rete in forma non integrale, con il titolo Mattioli e Cuccia, all’indirizzo: http://www.doncurzionitoglia.com/mattiolcuccia.htm
[3] http://byebyeunclesam.wordpress.com/2011/07/28/adriano-olivetti-italiano-pericoloso/

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