domenica 30 gennaio 2022

Maria Josè e i disastri lasciati da Leopoldo II re del Belgio

La nipote del re Leopoldo II del Congo: Maria José la ricordiamo come paladina e della giustizia, ricordata come paladina della democrazia nell'Italia del Ventennio, dimenticando le atrocità di cui si e macchiato suo nonno in Africa

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Storia: le atrocità di re Leopoldo II in Congo
Alla fine dell’Ottocento il potente sovrano del Belgio s’impadronì del cuore dell’Africa e ridusse in schiavitù le popolazioni indigene, uccidendo e mutilando milioni di persone
di Raffaele Masto
«L’orrore! L’orrore!». Sono le ultime parole di Kurtz, uno dei grandi personaggi letterari del Novecento uscito dalla magistrale penna di Joseph Conrad nel libro Cuore di tenebra. Kurtz non è un “animo candido”; sulla palizzata davanti alla sua capanna sul grande fiume aveva conficcato le teste di alcuni indigeni uccisi, eppure di fronte a ciò che accade nella foresta pluviale del Congo non può che mormorare: «L’orrore! L’orrore!».
Falso filantropo
Le terrificanti visioni che sconvolgono Kurtz sono le immagini di un genocidio poco conosciuto, quello perpetrato tra fine Ottocento e inizio Novecento da Leopoldo II del Belgio. Un sovrano subdolo e crudele, che passava per essere un filantropo e che invece fu artefice di uno dei più grandi misfatti della storia recente. Nel 1885 Leopoldo II riuscì a impossessarsi di un immenso territorio (76 volte più grande del Belgio) ricoperto di foreste nel cuore dell’Africa − il bacino idrografico del fiume Congo − grazie a un’abilissima campagna di pubbliche relazioni, nel nome della promozione di ricerche geografiche e scientifiche, della lotta ai mercanti di schiavi arabi, e della diffusione della civiltà e del progresso.
Per raggiungere i suoi scopi, reclutò il più celebre esploratore del suo tempo, Henry Morton Stanley, che percorse il fiume e stipulò centinaia di contratti ingannevoli con capitribù locali e mise le basi per la costruzione di un sistema di stazioni che facessero da collettori delle ricchezze della foresta che attraverso il fiume potevano giungere ai porti sulla foce e da qui in Europa.
Servi del caucciù
Ma che cos’erano a quei tempi le ricchezze della foresta? Ce n’era una, ambitissima dall’industria dell’epoca, una resina che si ricavava incidendo la corteccia dei cosiddetti alberi della gomma e si raccoglieva in recipienti messi ai piedi del tronco. Era il caucciù, che, grazie alla scoperta del processo di vulcanizzazione, era destinato a diventare il precursore della plastica. Per ottenere il controllo di questa materia prima strategica, re Leopoldo organizzò un vero e proprio regime commercial-militare fondato consapevolmente sul terrore.
Occorreva manodopera per raccogliere il caucciù e trasportarlo fino al mare, così tutti gli africani furono obbligati a raccogliere quella resina senza alcun compenso. Ogni villaggio doveva consegnare agli emissari del re-filantropo una certa quota del prezioso prodotto vegetale: chi si rifiutava, o consegnava quantità minori di quelle richieste, era punito duramente, fino alla mutilazione: gli veniva tagliata una mano o un piede; alle donne, le mammelle. Contro i ribelli si ricorreva all’assassinio, a spedizioni punitive, distruzioni di villaggi, presa in ostaggio delle donne.
Crudeltà disumana
A fare il lavoro sporco erano circa duemila agenti bianchi, disseminati nei punti più importanti del “regno” di Leopoldo: molti di essi erano malfamati in patria e malpagati in Congo. Ogni agente comandava truppe di mercenari (sedicimila in tutto) e un certo numero di nativi armati, presi da etnie diverse e dislocati nei singoli villaggi, per assicurare che la gente facesse il proprio dovere. Se la quota era inferiore a quella stabilita, si ricorreva a fustigazioni o mutilazioni. Era il metodo del terrore, tanto efficace quanto diabolico.
Tutto questo accadeva nello Stato Libero del Congo, così Leopoldo aveva chiamato il “suo” possedimento. Il risultato fu che, secondo calcoli attendibili, nell’arco di un ventennio morirono circa dieci milioni di persone, direttamente per le amputazioni o per le violenze, o indirettamente per epidemie o per fame. Sì, per fame. Perché un’altra forma di punizione per chi non riusciva a portare le quantità volute di caucciù era la distruzione dei raccolti o addirittura dei villaggi. E portare la preziosa resina nelle quantità volute diventava sempre più difficile, perché le piante adatte, visto lo sfruttamento intensivo, si trovavano sempre più lontano dal fiume e molti villaggi non riuscivano a onorare le richieste.
Testimoni coraggiosi
Nell’agosto del 1908, poco prima di cedere ufficialmente la propria colonia personale al governo del Belgio, Leopoldo II fece bruciare per otto giorni consecutivi la maggior parte dei suoi archivi. «Regalerò ai belgi il mio Congo, ma non avranno diritto a sapere ciò che vi ho fatto», disse. E, oltre alle carte ridotte in cenere, ridusse drasticamente al silenzio i testimoni scomodi. Fu così che una parte importante della storia della dominazione europea in Africa venne cancellata.
A gridare al mondo ciò che accadeva in Congo furono un pugno di eroi – giornalisti, esploratori, missionari o diplomatici – che fecero nascere il primo movimento mondiale per la difesa dei diritti umani: Edmund Morel, reporter e politico britannico che per primo indagò su ciò che accadeva in Congo; George Washington Williams e William Sheppard, due neri americani, il primo giornalista e il secondo predicatore cristiano, che smontarono la figura da filantropo di re Leopoldo; Roger Casement, console britannico in Congo, che raccontò in patria ciò che vedeva. Senza dimenticare Alice Seeley Harris e suo marito John Harris, due missionari audaci che all’inizio del Novecento girarono la foresta congolese con la Bibbia in una mano e la macchina fotografica nell’altra. È grazie al loro coraggio se oggi possiamo pubblicare le immagini-shock di quell’epoca. Quei preziosi testimoni denunciarono all’intero mondo il regno del terrore di Leopoldo II, fermarono la carneficina dei popoli indigeni e liberarono Kurtz dai suoi incubi.

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