domenica 28 febbraio 2021

...e cosiì, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la "Democrazia" sarà perfetta!


Fotti la mente. « » ...da: www.unavignettadipv.it

...e cosiì, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la "Democrazia" sarà perfetta! -
Giorgio Gaber, "La Democrazia - prosa", Teatro Bonci, Cesena, 08/10/1996
- Tutte le cosiddette «conquiste» di cui il mondo moderno va tanto fiero si riducono così a grandi parole dietro le quali non c’è nulla, o molto poco: «suggestione collettiva» abbiamo detto; illusione che, per essere condivisa da tanti individui e mantenersi come fa, non può essere spontanea -
René Guénon, "Oriente e Occidente", 1924, p. 38 (Luni - 1993 )
- A parte i lucidi credenti, minoranza agguerrita, nel mondo si trovano ad abitare o credenti per abitudine di famiglia o non credenti affatto: i moderni, coloro che per qualche ragione si ritengono tenuti a non riconoscere alcunché di sovrannaturale. Fra questi si incontrano i più aspri bigotti. Ma qui incontriamo anche l' essere più peculiare del momento: chi non appartiene a una confessione, ma neppure alla bigotteria laica (credere nella scienza, credere nel socialismo, credere nell' individuo, credere nel libero mercato, credere nel proletariato, credere nel progresso). Che cosa penserà allora? Riappare qui l'intatta discriminazione: fra chi usa categorie sacrificali e chi le rifiuta. -
Roberto Calasso, "La rovina di Kasch", 1983, p.206 (Adelphi - 2a ed. 1994)
- La civiltà occidentale ha, fra le altre pretese, quella di essere essenzialmente «scientifica»; sarebbe opportuno precisare meglio che cosa s’intenda con tale parola, ma di fatto questo generalmente non si fa, poiché essa è una di quelle a cui i nostri contemporanei sembrano annettere una sorta di potere misterioso, indipendentemente dal loro significato. La «Scienza», con la maiuscola, come il «Progresso» e la «Civiltà», come il «Diritto», la «Giustizia» e la «Libertà», è anch’essa una di quelle entità che è meglio non cercare di definire, e che rischiano di perdere tutto il loro prestigio non appena si incominci ad esaminarle un po’ troppo
da vicino. -
René Guénon, "Oriente e Occidente", 1924, p. 38 (Luni - 1993 )
- Se c'è una parola malfamata, è "civiltà". -
Roberto Calasso, "Come ordinare una biblioteca", p.42 (Adelphi), 2020
- Indubbiamente, «il Progresso» e «la Civiltà» con la maiuscola possono fare un eccellente effetto in certe frasi tanto vuote quanto declamatorie, adattissime a impressionare la folla, per la quale la parola serve meno ad esprimere un pensiero che a supplire alla sua mancanza; a questo titolo queste due parole hanno una funzione molto importante nell’arsenale di formule di cui i «dirigenti» contemporanei si servono per svolgere con successo la straordinaria opera di suggestione collettiva senza la quale la mentalità specificamente moderna non potrebbe
mantenersi per lungo tempo. A questo proposito, non crediamo che sia mai stata sufficientemente notata l’analogia, peraltro evidente, tra l’azione di un oratore e quella di un ipnotizzatore (dello stesso ordine è anche quella del domatore); segnaliamo incidentalmente questo argomento di studio all’attenzione degli psicologi. Certamente, in maggiore o minore misura, il potere delle parole si è già esercitato in altre epoche, ma ciò di cui non si hanno esempi è questa gigantesca allucinazione collettiva per effetto della quale tutta una parte dell’umanità è giunta a scambiare le più vane chimere per realtà incontestabili; e fra questi idoli della mentalità moderna quelli che stiamo denunciando sono forse i più perniciosi di tutti. Ma ritorniamo alla genesi dell’idea di progresso. -
René Guénon, "Oriente e Occidente", 1924, p. 26 (Luni - 1993)
- Erano teologi i meccanici che hanno messo a punto, oliato e avviato l'ingombrante macchina moderna. Poi si sono ritirati, con discrezione. Rimaneva ormai soltanto da constatare l'aspetto più banale: il passaggio ai fatti, il corteo delle rivoluzioni. Tutto l'artificialismo moderno, che è l' artificio di gran lunga più efficace per operare sul mondo e sviluppare potenza, trova il sigillo della sua tortuosa storia non certo in qualche laico empirista, ma in Calvino. Secondo la definizione di Louis Dumont, quell'artificialismo è "applicazione sistematica alle cose di questo mondo di un valore estrinseco, imposto". Perché su questo mondo si operi con coltelli tanto affilati bisogna che il gesto abbia origine in qualcosa che è fuori del mondo: ed è appunto Calvino a fissare quell'elemento nella volontà, in quanto disponibilità all'arbitrio, derivata da Dio, che è "l'archetipo della volontà". Qualcosa che non appartiene al mondo - e presto vorrà anche ignorare questa sua origine - si pone al centro del mondo e lo scuote, lo artiglia, lo fruga. Gli effetti più devastanti di tale volontà si avranno quando nessuno ormai ricorderà che l'origine di quella potenza è fuori del mondo, perché di un fuori-del-mondo non si usa più parlare - e rimane soltanto da subirne l'azione senza riconoscerla. Dalla teologia si passa a una magia nera di cui non si riesce a scoprire la fonte. Perché essa è in coelestibus. Così, in tutte le sue convulsioni, nelle sue pretese di autonomia, nel suo gesto imperioso e brancolante, "ciò che noi chiamiamo il mondo moderno "individuo-nel-mondo" ha in se stesso, nascosto nella sua costituzione interna, un elemento non percepito ma essenziale di extramondanità". Eppure tutto avviene come se quel cristallo abbagliante, quella mandorla confitta nella psiche non sussistesse. Graecum est, non legitur: ma quella lingua che non si legge è la lingua che agisce. -
Roberto Calasso, "La rovina di Kasch", 1983, p.75-76 (Adelphi - 1994)
- La prima origine di questo stato di cose risale di fatto all’inizio dell’èra moderna, quando lo spirito antitradizionale si manifestò subitamente con la proclamazione del «libero esame», dell’assenza cioè, in campo dottrinale, di ogni principio superiore alle opinioni individuali. Da qui doveva fatalmente risultare l’anarchia intellettuale: da qui deriva la molteplicità indefinita delle sette religiose e pseudo-religiose, dei sistemi filosofici miranti soprattutto all’originalità, delle teorie scientifiche tanto effimere quanto pretenziose; caos inverosimile, dominato, però, in qualche modo, da una certa unità (giacché esiste uno spirito specificamente moderno da cui tutto ciò deriva), ma un’unità, se così si può dire, assolutamente negativa, trattandosi propriamente di un’assenza di principio traducentesi in quell’indifferenza nei riguardi della verità e dell’errore che ha ricevuto, a partire dal secolo XVIII, il nome di «tolleranza». Non vorremmo essere fraintesi: non è nostra intenzione biasimare la tolleranza pratica nei riguardi degli individui, bensì soltanto la tolleranza teorica, che si pretende di applicare alle idee, a tutte riconoscendo i medesimi diritti; ciò implicherebbe logicamente un radicale scetticismo, e invece non possiamo fare a meno di constatare che, come tutti i propagandisti, gli apostoli della tolleranza sono ben sovente, di fatto, le persone più intolleranti. Si è prodotto infatti un fenomeno di una singolare ironia: coloro che hanno voluto rovesciare tutti i dogmi hanno creato, per loro uso e consumo, non diciamo un dogma nuovo, ma una caricatura di dogma, che sono riusciti a imporre al mondo occidentale nel suo insieme; così si sono affermate, con il pretesto dell’«affrancamento del pensiero» e sotto la forma dei differenti idoli, i principali dei quali abbiamo enumerato precedentemente, le credenze più chimeriche che si siano mai viste. -
René Guénon, "Oriente e Occidente", 1924, p. 39 - 40 (Luni - 1993 )
- La tecnica non prende il posto della magia, ma del sacrificio. Come il sacrificio, è innanzitutto un modo per controllare il pericolo, che non è solo il conflitto violento all'interno della società, ma il potere distruttivo, e autodistruttivo, all'interno della vita stessa. La peste sta a significare il conflitto fra gli uomini così come il conflitto fra gli uomini sta a significare la peste. Il sacrificio impone una perfetta consapevolezza della distruzione: se manca questa veggente attenzione, non vi è sacrificio. La tecnica si contenta di giustificarsi con ragioni di utilità pratica. -
Roberto Calasso, "La rovina di Kasch", 1983, p.263 (Adelphi - 2a ed. 1994)
- Duemila anni dopo Cristo, il secolarismo avvolge il pianeta. Così è non perché abbia sconfitto le religioni, bensì perché, fra tutte le religioni, è la prima che non si volga a entità esterne ma a se stessa, in quanto visione giusta e ultima delle cose come sono e come devono essere. -
Roberto Calasso, "L' innominabile attuale", 2017, p. 52 (Adelphi -2020)
- Se il secolo ventesimo è stato il secolo dell'autoriflessione, questo carattere si manifesta anche nel fatto che la società prende se stessa come oggetto che ormai ingloba tutto, grazie a quell'arma invincibile che passa sotto il nome di tecnologia. -
Roberto Calasso, "L' innominabile attuale", 2017, p. 52 (Adelphi -2020)
- "Homo saecularis" non è così contrario alle religioni in sé. Le religioni somigliano molto alle ideologie - e con queste ultime è abituato ad avere a che fare ogni giorno. Chi dice di essere cristiano non deve essere molto diverso da chi dice di essere vegetariano. Sono tutti gruppi, comunità, confraternite. Si può essere comunisti - come anche culturisti. Ogni scelta va rispettata. Sono tutte minoranze. Nicchie. Quel che "Homo saecularis" invece non riesce a cogliere è il divino. Non sa situarlo. Non rientra nell'ordine delle cose. Delle sue cose. -
Roberto Calasso, "L' innominabile attuale", 2017, p. 56 (Adelphi -2020)
- Con la secolarizzazione il senso del religioso tende a estinguersi. E le religioni stesse, quando non si estinguono, tendono a diventare altrettanti partiti, grandi e piccoli. Alla fine, si tratta pur sempre di opinioni. Che potrebbero convivere e alternarsi nel predominio, senza urti. Ma le opinioni possono acutizzarsi e compattarsi. Si trasformano in armi contundenti. Allora si può tornare alla guerra civile - forma aggiornata della guerra di religione. -
Roberto Calasso, "L' innominabile attuale", 2017, p. 56 (Adelphi -2020)
- Mandel'štam pensava per immagini e per abbreviazioni. Una volta, in un saggio del 1922,-delineò in pochi tratti l'evento soverchiante che si stava compiendo, che nessuno riusciva a nominare e di cui egli stesso sarebbe stato una delle innumerevoli vittime: la società che usa chiunque come materiale da costruzione. Di che cosa? Di se stessa. "Ci sono epoche che dicono: non ci importa dell'essere umano, l'uomo va usato come mattone, come cemento, non serve costruire per lui, è lui che serve per costruire. L' architettura sociale si misura su scala umana.a volte diventa ostile all'uomo, della cui umiliazione e nullità nutre la propria grandezza". E subito affiorava l'immagine: "Ognuno avverte la monumentalità della architettura sociale che si sta avvicinando. La montagna non si vede ancora, ma già proietta la sua ombra su di noi e noi, ormai disabituati alle forme monumentali della vita sociale e avvezzi alla piattezza statale e giuridica del secolo diciannovesimo, ci muoviamo in questa oscurità paurosi e smarriti, incapaci di capire se sia l'ala della notte imminente o l'ombra della città natale dove dovremo entrare". Poco tempo dopo, Mandel'ŝtam avrebbe raggiunto la certezza: era davvero "l'ala della notte imminente" - e presto sotto quell'ala sarebbe scomparso. -
Roberto Calasso, "L' innominabile attuale", 2017, p. 33 (Adelphi -2020)
- Divino e sacro: che cosa accade se qualcuno che non è incline a professare una qualsiasi religione riconosce quelle due parole e ne ha esperienza, non meno intensa di quella di un fedele? Dovrà ammettere che quelle due parole indicano qualcosa che sussiste in sé, ancor prima e al di fuori di ogni culto. E già questo invita a squarciare l'involucro protettivo e soffocante costituito dalla superstizione della società. Il divino è che "Homo saecularis" ha cancellato, con cura, con insistenza. Lo ha anche espunto dal lessico di "ciò che è". Ma il divino non è come una roccia, che tutti inevitabilmente vedono. Il divino deve essere riconosciuto. E il riconoscimento è l'atto supremo verso il divino. Atto sporadico, momentaneo, non trasponibile in uno stato. "Incessu patuit dea", il divino è come il passo di una dea, che si fa avanti e subito va oltre. Il divino è uno scintillamento discontinuo, che rinvia a qualcosa di compiuto e continuo. Per "Homo saecularis" tutto questo era evanescente e contrario alla fisiologia che aveva elaborato in se stesso. Era vano, ormai, rivolgere i propri desideri in quella direzione. Fra tutte le varietà di "Homo saecularis" solo i membri della Società degli Amici del Crimine, raccontati da Sade, sapevano attuare desideri precisi, circostanziati e inequivocabili. -
Roberto Calasso, "L' innominabile attuale", 2017, p. 56 (Adelphi -2020)
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Il disincanto
In cosa consiste il punto di vista "laico"?
- Nello stato di sogno l’«anima vivente» individuale (jîvâtmâ) «è essa stessa la sua luce», e produce, per effetto del suo solo desiderio (kâma), un mondo che procede interamente da se stessa, e i cui oggetti consistono esclusivamente in concezioni mentali, vale a dire in combinazioni di idee rivestite di forme sottili, che dipendono sostanzialmente dalla forma sottile dell’individuo stesso, di cui tali oggetti ideali non sono in definitiva che altrettante modificazioni accidentali e secondarie.Questa produzione, d’altronde, ha sempre qualche cosa di incompleto e di incoordinato; perciò è considerata illusoria (mâyâmaya), o dotata solo di un’esistenza apparente (prâtibhâsika), mentre, nel mondo sensibile, nel quale si trova allo stato di veglia, la stessa «anima vivente» ha la facoltà di agire nel senso di una produzione «pratica» (vyâvahârika), anch’essa senza dubbio illusoria rispetto alla realtà assoluta (paramârtha), e transitoria come ogni manifestazione, ma che nondimeno ha una realtà relativa e una stabilità sufficiente per servire ai bisogni della vita ordinaria e «profana» (laukika, parola derivata da loka, «mondo», da intendersi in un senso del tutto paragonabile a quello che ha di solito nel Vangelo). Tuttavia è bene osservare che questa differenza, nel rispettivo orientamento dell’attività dell’essere nei due stati, non implica una superiorità effettiva dello stato di veglia su quello di sogno, quando ciascuno stato sia considerato in se stesso; per lo meno, una superiorità valida soltanto dal punto di
vista «profano» non può, metafisicamente, essere considerata una vera superiorità; anzi, sotto un altro aspetto, le possibilità dello stato di sogno sono più estese di quelle dello stato di veglia, e permettono all’individuo di sfuggire, in una certa misura, ad alcune delle condizioni limitative alle quali è sottomesso nella sua modalità corporea. Comunque sia, assolutamente reale (pâramârthika) è esclusivamente il «Sé» (Âtmâ); è ciò che non può essere in alcun modo raggiunto da concezioni che, in una qualunque forma, si limitano alla considerazione degli oggetti esterni e interni, la cui conoscenza costituisce rispettivamente lo stato di veglia e quello di sogno, concezioni che perciò, non spingendosi oltre l’insieme di questi due stati, restano interamente nei limiti della manifestazione formale e dell’individualità umana. Il dominio della manifestazione sottile può, per la sua natura «mentale», essere chiamato mondo ideale, al fine di distinguerlo così dal mondo sensibile, che è il dominio della manifestazione grossolana; ma questa designazione non andrebbe intesa allo stesso modo del «mondo intelligibile» di Platone, poiché le «idee» platoniche sono le possibilità allo stato principiale, che devono essere riferite al dominio informale; nello stato sottile, possono esistere soltanto idee ancora rivestite di forme, poiché le possibilità che esso comporta non oltrepassano l’esistenza individuale 2( - 2. Lo stato sottile è propriamente il dominio della ψυχή, e non quello del νοϋς; quest’ultimo corrisponde in realtà a Buddhi, vale a dire all’intelletto sopra-individuale).
Soprattutto non si dovrebbe qui pensare a un’opposizione, come quella che certi filosofi moderni si compiacciono di stabilire fra «ideale» e «reale», opposizione che non ha per noi alcun significato: tutto ciò che è, in qualunque modo, è reale per il solo fatto di essere, e possiede precisamente il genere e il grado di realtà che convengono alla sua natura propria; ciò che consiste in idee (è tutto qui il senso che diamo alla parola «ideale») non è per questo né più né meno reale di ciò che consiste in altra cosa, perché ogni possibilità trova posto necessariamente al livello che la sua stessa determinazione le assegna gerarchicamente nell’Universo. -
René Guénon, "L' uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta", 1928, p. 92 (Adelphi - 2a ed.1997)
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