Qui la tomba di Rumi fondatore dei Dervisci Merlevi una delle poche tariche sufi salvate da Mustafa Kemal Atatürk
Mevlana, nel cuore dell'Anatolia
la tomba dell'inventore dei dervisci Nel cuore dell'Anatolia il santuario di Rumi massimo poeta dell'Islam
Gli imam tollerano la devozione solo perché attira turisti
dal nostro inviato PAOLO RUMIZ
Un flauto solitario, un catafalco verde, folle incantate che entrano in silenzio, si sparpagliano sui tappeti, si appartano a pregare. Sembra non ci sia nient'altro nel santuario. Nemmeno le altre tombe in penombra, più piccole, con sopra i turbanti dei venerabili che dormono sul fianco destro, il viso rivolto alla Mecca. Null'altro conta per quegli uomini e quelle donne che mormorano in piedi, con le mani aperte, come per prendere acqua a una fonte, come gli antichi cristiani. Non parlano con Allah ma con quella tomba verde. La cripta di Rumi, detto Mevlana, massimo poeta dell'Islam e inventore dei dervisci rotanti, i cercatori dell'estasi. Tra Lui e i fedeli, nessun imam. Solo l'energia dello spirito.
E' come un faro il santuario di Mevlana, col suo tetto verde smeraldo piantato in mezzo all'altopiano anatolico, un tronco di cono simile a una gonna plissettata. E' venerdì, tuonano gli altoparlanti della moschea strapiena, nella piazza accanto, ma quella moschea è un altro mondo. Konya è la città più islamica della Turchia, e l'Islam duro non ama né le tombe né le danze dei dervisci. Nulla dev'esserci al di fuori di Allah. La massa genuflessa in moschea è disturbata da quel luogo santo fuori ordinanza. Di cosa ha paura? E io, se cerco davvero i cristiani d'Oriente, che ci faccio, in un ventoso e rovente venerdì di preghiera, in questo labirinto di minareti urlanti?
* * *
Tutto è cominciato per caso, due anni fa, in una piccola "tekke" (luogo di preghiera) di Istanbul, frequentata da mistici Sufi legati a Mevlana. Per entrarci, avevo ottenuto un viatico da Gabriel Mandel Khan, un affascinante turco-afghano padrone di dieci lingue, grande padre in Italia di un'importante confraternita Sufi, gli Halveti. Quando bussai, Ibrahim Baba, un vecchio veneratissimo, m'accolse come un figlio e disse: "Il nostro nome viene da Halva, ritiro, perché il nostro sceicco, il capo prescelto, deve ritirarsi per 40 giorni in una stanza senza finestre, con solo un buco per ricevere il cibo". E mi fece sedere alla turca a un tavolo rotondo, a due passi dai maggiorenti della santa congrega.
Si mangiò in silenzio, c'erano trecento persone accovacciate sui tappeti in diverse sale. Gente nobile, composta. Neanche l'ombra del fanatismo di altre consorterie, come i Rufai che si bucano con gli spilloni. Ebbi cibo salato, latte acido, un dolce al miele detto Lokum. Dopo un'ora, lo sceicco ruppe il silenzio e parlò. "Noi non c'entriamo con le masse che si prostrano per conformismo. Non facciamo proseliti. Vogliamo solo svezzare la nostra anima, all'interno di un gruppo". Ci siamo, pensai. Ecco tutti i segni di una venerabile, esclusiva consorteria della fede.
"L'orefice batte col suo martelletto, a ogni colpo ripete il nome di Dio. Il derviscio ruota e a ogni giro si perde in Dio. Il suo cappello di panno è una pietra tombale: ruotando, muore. Sente il sapore dell'altro mondo, il Nur, l'energia luminosa visibile da tutte le creature. Poi torna tra i vivi, e allora ogni suo atto è una celebrazione di Lui". Il capo parlò ancora: "se ragioniamo soltanto, il nostro sarà solo un rullaggio senza decollo. Il volo vero comincia quando si abbandona la mente. Dio è indefinibile, si raggiunge solo col cuore. Per esempio - mi disse con un lampo di sfida - lei provi a definire il profumo della rosa".
Tacque, aspettando la risposta. Nella "Tekke" non volava una mosca. Tutti si aspettavano che convenissi che la rosa era indefinibile. Ma l'occidentale che era in me osò provarci. Dissi: "Erba bagnata di rugiada, latte, vaniglia, scorza di pesca, pelle di donna". Mi accorsi che l'intereprete esitava a tradurre. Quando lo fece, tutti si guardarono. Capii che la risposta era letta come una sfida. Così ammorbidii: "Certo, non sarà il vero profumo della rosa. Ma il fatto di averci provato è anch'esso una forma di preghiera". Nella confraternita passò un'onda di sollievo. Ero uscito indenne dalla prova.
* * *
Così fui ammesso alla preghiera, che durò cinque ore, fino a notte fonda. Ero l'unico cristiano presente. Cominciò con uomini schierati in file diagonali, rivolti alla Mecca. L'angolo tra quella direzione e l'asse della moschea diceva forse che l'edificio era stato una chiesa. Partì un flauto, poi un canto, un ritmo nomade, regolare come un metronomo, costruito attorno a una nota unica di fondo. Lo guidava un cieco dalla voce purissima, che restava sospesa nell'aria come un grido nel deserto. Quel cieco cantava come se Qualcuno abitasse in lui.
A intervalli, dopo una pausa di silenzio, i trecento precipitavano sui tappeti per la genuflessione, con un rumore di tuono. Poi una voce solitaria lanciava un richiamo, un ordine secco, e tutti si rialzavano. Se chiudevi gli occhi, sentivi la carovana sotto le stelle, l'eterno ciclo dell'andare, accamparsi e ripartire. Attaccarono i tamburi, e la preghiera mi portò lontano, nelle steppe dell'Asia centrale. Poi la marcia accelerò, divenne respiro, affanno, orgasmo. I trecento ondeggiavano come alghe nel mare. Il confine tra eros e adorazione s'era rotto, come nel Cantico dei cantici. S'erano rotti anche i confini tra fedi.
Dietro ai Sufi vidi gli Apostoli, e dietro agli Apostoli, Abramo. Dissi questa mia impressione a uno degli Halveti, e questi rispose che avrei dovuto andare in Anatolia, perché quella era la sorgente di tutto: della fede dei cristiani e dell'Islam. Lì era nato il pensiero di Mevlana e quello dei Padri della Chiesa. Citò Giovanni Crisostomo e Basilio di Cesarea. Poi, quando gli diedi il biglietto da visita, s'illuminò: "amico, nel suo nome c'è già la chiave del suo viaggio. Rumi, come il nostro maestro che da cinquecento anni ci indica la strada. E Paolo, il santo che diffuse il cristianesimo tra i pagani. Tutti e due sono venuti da lontano, e hanno espresso il meglio di sé a Konya. Qui in Turchia".
Quella notte, in un alberghetto sul Bosforo, mi buttai a leggere tutto quello che avevo sui Sufi. Scoprii che si erano innestati sulla mistica cristiana al suo apogeo, riequilibrando poi col calore dell'estasi la freddezza dogmatica, l'algoritmo dell'Islam. Rumi aveva portato al massimo il loro linguaggio poetico. Capii perché i Sufi erano odiati dall'Islam ortodosso e perché la Chiesa, nei secoli bui, aveva messo al rogo i mistici del cristianesimo.
* * *
Così eccomi a Konya, in una sera di rondini, col flauto di Mevlana che gioca col vento anatolico, propone all'anima lontananze dimenticate verso il Caucaso e l'Eufrate. "Ascolta il flauto di canna quante cose narra e come triste lamenta la sua separazione; da quando sono stato strappato dal canneto il dolce mio suono fa gemere uomini e donne". Ritorna quanto mi disse un frate a Bari, accanto alla tomba di San Nicola: la fede come nostalgia, il santo che stabilisce con l'uomo un rapporto senza intermediari, il corpo come strumento rivoluzionario di preghiera.
Donne scalze pregano ansimando rauche sui tappeti, portano alla sincronia invocazione e respiro, arretrano senza voltarsi, le mani aperte ai lati delle orecchie. "Serve a cacciare i demoni" sorride Abdullah, un professore dell'università di Konya. "Questo non è Islam, è qualcosa di assai più antico". Intanto villaggi interi arrivano dalle montagne solo per vedere quella tomba verde, li senti dall'odore di naftalina, dai vestiti presi dall'armadio per l'occasione.
E' tutto così lampante: gli imam tollerano questa devozione popolare solo perché attira turisti.
Altrimenti la spazzerebbero via. Non posso ammettere che Konya sia quella tomba, nient'altro che quella tomba. Il vento leva turbini di polvere, danza in cerchio come i dervisci. Sento che il viaggio si avvicina al suo centro affascinante e terribile. L'Anatolia senza più cristiani. La terra di Basilio, Paolo, Crisostomo e di tanti altri santi, oggi solo una culla vuota.
(12 agosto 2005)
Mevlana, nel cuore dell'Anatolia
la tomba dell'inventore dei dervisci Nel cuore dell'Anatolia il santuario di Rumi massimo poeta dell'Islam
Gli imam tollerano la devozione solo perché attira turisti
dal nostro inviato PAOLO RUMIZ
Un flauto solitario, un catafalco verde, folle incantate che entrano in silenzio, si sparpagliano sui tappeti, si appartano a pregare. Sembra non ci sia nient'altro nel santuario. Nemmeno le altre tombe in penombra, più piccole, con sopra i turbanti dei venerabili che dormono sul fianco destro, il viso rivolto alla Mecca. Null'altro conta per quegli uomini e quelle donne che mormorano in piedi, con le mani aperte, come per prendere acqua a una fonte, come gli antichi cristiani. Non parlano con Allah ma con quella tomba verde. La cripta di Rumi, detto Mevlana, massimo poeta dell'Islam e inventore dei dervisci rotanti, i cercatori dell'estasi. Tra Lui e i fedeli, nessun imam. Solo l'energia dello spirito.
E' come un faro il santuario di Mevlana, col suo tetto verde smeraldo piantato in mezzo all'altopiano anatolico, un tronco di cono simile a una gonna plissettata. E' venerdì, tuonano gli altoparlanti della moschea strapiena, nella piazza accanto, ma quella moschea è un altro mondo. Konya è la città più islamica della Turchia, e l'Islam duro non ama né le tombe né le danze dei dervisci. Nulla dev'esserci al di fuori di Allah. La massa genuflessa in moschea è disturbata da quel luogo santo fuori ordinanza. Di cosa ha paura? E io, se cerco davvero i cristiani d'Oriente, che ci faccio, in un ventoso e rovente venerdì di preghiera, in questo labirinto di minareti urlanti?
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Tutto è cominciato per caso, due anni fa, in una piccola "tekke" (luogo di preghiera) di Istanbul, frequentata da mistici Sufi legati a Mevlana. Per entrarci, avevo ottenuto un viatico da Gabriel Mandel Khan, un affascinante turco-afghano padrone di dieci lingue, grande padre in Italia di un'importante confraternita Sufi, gli Halveti. Quando bussai, Ibrahim Baba, un vecchio veneratissimo, m'accolse come un figlio e disse: "Il nostro nome viene da Halva, ritiro, perché il nostro sceicco, il capo prescelto, deve ritirarsi per 40 giorni in una stanza senza finestre, con solo un buco per ricevere il cibo". E mi fece sedere alla turca a un tavolo rotondo, a due passi dai maggiorenti della santa congrega.
Si mangiò in silenzio, c'erano trecento persone accovacciate sui tappeti in diverse sale. Gente nobile, composta. Neanche l'ombra del fanatismo di altre consorterie, come i Rufai che si bucano con gli spilloni. Ebbi cibo salato, latte acido, un dolce al miele detto Lokum. Dopo un'ora, lo sceicco ruppe il silenzio e parlò. "Noi non c'entriamo con le masse che si prostrano per conformismo. Non facciamo proseliti. Vogliamo solo svezzare la nostra anima, all'interno di un gruppo". Ci siamo, pensai. Ecco tutti i segni di una venerabile, esclusiva consorteria della fede.
"L'orefice batte col suo martelletto, a ogni colpo ripete il nome di Dio. Il derviscio ruota e a ogni giro si perde in Dio. Il suo cappello di panno è una pietra tombale: ruotando, muore. Sente il sapore dell'altro mondo, il Nur, l'energia luminosa visibile da tutte le creature. Poi torna tra i vivi, e allora ogni suo atto è una celebrazione di Lui". Il capo parlò ancora: "se ragioniamo soltanto, il nostro sarà solo un rullaggio senza decollo. Il volo vero comincia quando si abbandona la mente. Dio è indefinibile, si raggiunge solo col cuore. Per esempio - mi disse con un lampo di sfida - lei provi a definire il profumo della rosa".
Tacque, aspettando la risposta. Nella "Tekke" non volava una mosca. Tutti si aspettavano che convenissi che la rosa era indefinibile. Ma l'occidentale che era in me osò provarci. Dissi: "Erba bagnata di rugiada, latte, vaniglia, scorza di pesca, pelle di donna". Mi accorsi che l'intereprete esitava a tradurre. Quando lo fece, tutti si guardarono. Capii che la risposta era letta come una sfida. Così ammorbidii: "Certo, non sarà il vero profumo della rosa. Ma il fatto di averci provato è anch'esso una forma di preghiera". Nella confraternita passò un'onda di sollievo. Ero uscito indenne dalla prova.
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Così fui ammesso alla preghiera, che durò cinque ore, fino a notte fonda. Ero l'unico cristiano presente. Cominciò con uomini schierati in file diagonali, rivolti alla Mecca. L'angolo tra quella direzione e l'asse della moschea diceva forse che l'edificio era stato una chiesa. Partì un flauto, poi un canto, un ritmo nomade, regolare come un metronomo, costruito attorno a una nota unica di fondo. Lo guidava un cieco dalla voce purissima, che restava sospesa nell'aria come un grido nel deserto. Quel cieco cantava come se Qualcuno abitasse in lui.
A intervalli, dopo una pausa di silenzio, i trecento precipitavano sui tappeti per la genuflessione, con un rumore di tuono. Poi una voce solitaria lanciava un richiamo, un ordine secco, e tutti si rialzavano. Se chiudevi gli occhi, sentivi la carovana sotto le stelle, l'eterno ciclo dell'andare, accamparsi e ripartire. Attaccarono i tamburi, e la preghiera mi portò lontano, nelle steppe dell'Asia centrale. Poi la marcia accelerò, divenne respiro, affanno, orgasmo. I trecento ondeggiavano come alghe nel mare. Il confine tra eros e adorazione s'era rotto, come nel Cantico dei cantici. S'erano rotti anche i confini tra fedi.
Dietro ai Sufi vidi gli Apostoli, e dietro agli Apostoli, Abramo. Dissi questa mia impressione a uno degli Halveti, e questi rispose che avrei dovuto andare in Anatolia, perché quella era la sorgente di tutto: della fede dei cristiani e dell'Islam. Lì era nato il pensiero di Mevlana e quello dei Padri della Chiesa. Citò Giovanni Crisostomo e Basilio di Cesarea. Poi, quando gli diedi il biglietto da visita, s'illuminò: "amico, nel suo nome c'è già la chiave del suo viaggio. Rumi, come il nostro maestro che da cinquecento anni ci indica la strada. E Paolo, il santo che diffuse il cristianesimo tra i pagani. Tutti e due sono venuti da lontano, e hanno espresso il meglio di sé a Konya. Qui in Turchia".
Quella notte, in un alberghetto sul Bosforo, mi buttai a leggere tutto quello che avevo sui Sufi. Scoprii che si erano innestati sulla mistica cristiana al suo apogeo, riequilibrando poi col calore dell'estasi la freddezza dogmatica, l'algoritmo dell'Islam. Rumi aveva portato al massimo il loro linguaggio poetico. Capii perché i Sufi erano odiati dall'Islam ortodosso e perché la Chiesa, nei secoli bui, aveva messo al rogo i mistici del cristianesimo.
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Così eccomi a Konya, in una sera di rondini, col flauto di Mevlana che gioca col vento anatolico, propone all'anima lontananze dimenticate verso il Caucaso e l'Eufrate. "Ascolta il flauto di canna quante cose narra e come triste lamenta la sua separazione; da quando sono stato strappato dal canneto il dolce mio suono fa gemere uomini e donne". Ritorna quanto mi disse un frate a Bari, accanto alla tomba di San Nicola: la fede come nostalgia, il santo che stabilisce con l'uomo un rapporto senza intermediari, il corpo come strumento rivoluzionario di preghiera.
Donne scalze pregano ansimando rauche sui tappeti, portano alla sincronia invocazione e respiro, arretrano senza voltarsi, le mani aperte ai lati delle orecchie. "Serve a cacciare i demoni" sorride Abdullah, un professore dell'università di Konya. "Questo non è Islam, è qualcosa di assai più antico". Intanto villaggi interi arrivano dalle montagne solo per vedere quella tomba verde, li senti dall'odore di naftalina, dai vestiti presi dall'armadio per l'occasione.
E' tutto così lampante: gli imam tollerano questa devozione popolare solo perché attira turisti.
Altrimenti la spazzerebbero via. Non posso ammettere che Konya sia quella tomba, nient'altro che quella tomba. Il vento leva turbini di polvere, danza in cerchio come i dervisci. Sento che il viaggio si avvicina al suo centro affascinante e terribile. L'Anatolia senza più cristiani. La terra di Basilio, Paolo, Crisostomo e di tanti altri santi, oggi solo una culla vuota.
(12 agosto 2005)
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