venerdì 5 gennaio 2018

Eliade e le vicissitudini editoriali italiane

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L’Italia ha sempre intrattenuto un ambivalente rapporto di “amore e odio” con la produzione eliadiana. Promossa nell’immediato secondo dopoguerra da Pavese e da de Martino all’interno della “collana viola” di Einaudi, traslata in ambito nazionale essa rappresentava da un lato il recupero dei «materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo» - come scriveva Calvino ricordando l’opera editoriale di Pavese nel 1965 (1991); dall’altro testimoniava un vivo interesse nei confronti del sovrannaturale. Il rapporto tra editoria italiana e storia delle religioni eliadiana si consuma tra questi due poli, tenuti insieme dal richiamo a quel «passato preistorico e atemporale dell’uomo», che Calvino considera come vero e proprio vulnus della ricerca intellettuale a causa del suo alone apodittico e confermativo nei confronti delle ipotetiche radici spirituali del genere umano, incastonate nei miti immemoriali e codificate prestigiosamente nelle tradizioni religiose.
Pavese e de Martino subirono questo fascino: scrittore e letterato affascinato dai canoni archetipali, da Jung e Kerényi e dall’illud tempus eliadiano il primo ed etnologo interessato ai cosiddetti fenomeni paranormali il secondo. In questo caso, si trattava anche di una fuga da una certa idea di modernità e del rifugio (più o meno rassicurante) nelle realtà atemporali del mito.
Il prodotto scientifico di uno studioso non si deve giudicare sulla base della sua appartenenza politica nella misura in cui tale prodotto si riveli essere scientificamente autonomo ed epistemicamente valido: questo era l’assunto basilare che adottarono Pavese e de Martino quando decisero di ignorare le obiezioni editoriali sollevate a seguito della conoscenza del passato politicamente impegnato di Eliade.

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