L’Italia ha sempre intrattenuto un ambivalente rapporto
di “amore e odio” con la produzione eliadiana. Promossa nell’immediato
secondo dopoguerra da Pavese e da de Martino all’interno della “collana
viola” di Einaudi, traslata in ambito nazionale essa rappresentava da un
lato il recupero dei «materiali più compromessi con la cultura
reazionaria del nostro secolo» - come scriveva Calvino ricordando
l’opera editoriale di Pavese nel 1965 (1991); dall’altro testimoniava un
vivo interesse nei confronti del sovrannaturale. Il rapporto tra
editoria italiana e storia delle religioni eliadiana si consuma tra
questi due poli, tenuti insieme dal richiamo a quel «passato preistorico
e atemporale dell’uomo», che Calvino considera come vero e proprio vulnus
della ricerca intellettuale a causa del suo alone apodittico e
confermativo nei confronti delle ipotetiche radici spirituali del genere
umano, incastonate nei miti immemoriali e codificate prestigiosamente
nelle tradizioni religiose.
Pavese e de Martino subirono questo fascino: scrittore e letterato affascinato dai canoni archetipali, da Jung e Kerényi e dall’illud tempus
eliadiano il primo ed etnologo interessato ai cosiddetti fenomeni
paranormali il secondo. In questo caso, si trattava anche di una fuga da
una certa idea di modernità e del rifugio (più o meno rassicurante)
nelle realtà atemporali del mito.
Il prodotto scientifico di uno studioso non si deve
giudicare sulla base della sua appartenenza politica nella misura in cui
tale prodotto si riveli essere scientificamente autonomo ed
epistemicamente valido: questo era l’assunto basilare che adottarono
Pavese e de Martino quando decisero di ignorare le obiezioni editoriali
sollevate a seguito della conoscenza del passato politicamente impegnato
di Eliade.
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