. I mosaici gnostici dell’Aula Nord
Estratto da: http://stopilluminati.weebly.com/aquileia.html
I mosaici dell’Aula Nord rappresentano allegoricamente il percorso dell’anima secondo la concezione gnostica: essa, per riuscire a ritornare al Padre (simboleggiato dal Pleroma, la parte più orientale dell’aula), deve oltrepassare il sistema cosmologico costituito dai cieli planetari e dallo Sterèoma (le costellazioni). L’ascesi gnostica subisce quindi l’influenza dei pianeti, e la salvezza o meno della propria anima è determinata a priori. Secondo l’ascesi gnostica di Pistis Sophia, questa è la via detta “di destra”, fatta di luce e di tenebre; la raffigurazione delle altre due vie (dette “di centro” e “di sinistra”) sarebbe andata perduta.
Non conosciamo la posizione del vescovo Teodoro nei confronti di tale concezione, l’unica cosa certa è che in pochi secoli anche la sua opera fu distrutta, col rischio di perdere per sempre le tracce del primitivo culto gnostico e paleocristiano.
Il mosaico va interpretato partendo dalla parete est dell'aula, dove sono raffigurati i cieli planetari; avanzando troviamo le costellazioni e infine il Pleroma, lo spazio riservato a Dio.
Il percorso inizia dalla seconda campata, con la descrizione del mondo terreno. L'umanità e la vita terrena sono rappresentate come una mandria di varie creature. I canestri con fiori o frutta potrebbero essere delle offerte. Della regione degli inferi (ovvero la terza regione del mondo degli Eoni) sembra non esserci traccia.
Nella terza campata si incontrano cinque zone dedicate ai cinque cieli planetari. Ciascuna di queste è suddivisa in due ottagoni curvilinei (individuati da tendine fatte di tondi e ovali) l’uno con un mitico animale (arconte/sorvegliante) e l’altro con una coppia di uccelli giustapposti (l’anima con le due tendenze al bene e al male) ai lati di un tirso di albero da frutta.
Il primo cielo è quello di Zeus (Giove): il relativo arconte è Jachthanabas, il cavallo alato infuocato (si tratta di Pégaso). Questo arconte è violento, ruba le anime che ivi si trovano e le consuma con il fumo e il fuoco. Tuttavia, in particolari situazioni astrologiche, egli permette il passaggio di alcune anime al cielo successivo[40]. Alla sua sinistra, le tendenze dell’anima sono rappresentate da due corvi attorno a un melograno. Le anime stesse appaiono sotto forma di nodi o di fiori all’interno di cerchi od ovali.
Più in alto scorgiamo il cielo di Afrodite (Venere) sorvegliato dall’arconte Typhon o Parhedron, un asino scalpitante; costui controlla trentadue demoni che istigano alla lussuria, al tradimento e alla prostituzione. Alla sua destra, nel riquadro ottagonale, si vedono due pernici contrapposte.
Il terzo cielo è quello di Hermes (Mercurio), sottoposto all’egemonia di Ecate, raffigurata con le tre facce dell’Hermes alessandrino: essa governa ventisette demoni che possono insidiare gli uomini inducendoli a mentire, spergiurare e bramare le cose altrui. A sinistra, nel riquadro arcuato, trovano spazio due fagiani.
Salendo troviamo il cielo di Ares (Marte) governato dall'arconte Ariuth, una capra scura con il drappo rosso, il corno dell’attacco e uno scettro (tutte insegne del comando). Lo scettro è stato trasformato dalla Chiesa ufficiale in un pastorale. Ariuth è promotore di guerre e omicidi e istigatore di violenza. Alla sua destra vediamo una coppia di averle attorno ad un alberello di frutti con tralci di ribes.
Il cielo più alto appartiene a Cronos (Saturno), presieduto dall’arconte Paraplex, il torello dell’abbondanza con la falce messoria[41]. Al suo fianco appaiono due porfirioni sgargianti davanti a un tirso di mele[42].
Procedendo verso est, uscendo dalla regione degli Eoni, si accede alla parte inferiore della quarta campata: il Cielo delle Stelle Fisse (Steréoma). Le anime, ora purificate, varcano il cielo delle costellazioni, ovvero la sfera del destino (in quanto secondo gli gnostici il destino umano è condizionato dalle stelle). Qui sono state usate tessere musive più chiare rispetto a quelle adoperate per le altre zone, probabilmente per enfatizzare la luminosità delle costellazioni. In questo cielo ci dovrebbero essere dieci costellazioni zodiacali (non tutte visibili purtroppo), mentre le due rimanenti (ariete e bilancia) si trovano nel Pleroma con significato diverso.
Secondo il Pistis Sophia, nel cielo delle costellazioni ci sarebbero cinque alberi, ciascuno simboleggiante un millennio trascorso dalla creazione del mondo. Il padre vi sarebbe disceso sotto forma di Colomba. Nel mosaico troviamo ciascun albero sormontato dalla propria costellazione “custode”, raffigurata da un animale mitologico. Le anime sono rappresentate da uccelli singoli, già liberate dalla loro controparte negativa. Seguendo il Pistis Sophia, i cinque “Grandi Custodi della Luce” sarebbero: Mosè, Giosuè, Melchisedech, il “custode della cortina di quelli di destra” e Ieova “il sorvegliante della luce”.
Sul pavimento possiamo facilmente identificarli con gli animali assisi sugli alberi-millennio; purtroppo solo quattro sono visibili, mentre uno è andato perduto sotto il campanile.
Secondo il Pistis Sophia, nel cielo delle costellazioni ci sarebbero cinque alberi, ciascuno simboleggiante un millennio trascorso dalla creazione del mondo. Il padre vi sarebbe disceso sotto forma di Colomba. Nel mosaico troviamo ciascun albero sormontato dalla propria costellazione “custode”, raffigurata da un animale mitologico. Le anime sono rappresentate da uccelli singoli, già liberate dalla loro controparte negativa. Seguendo il Pistis Sophia, i cinque “Grandi Custodi della Luce” sarebbero: Mosè, Giosuè, Melchisedech, il “custode della cortina di quelli di destra” e Ieova “il sorvegliante della luce”.
Sul pavimento possiamo facilmente identificarli con gli animali assisi sugli alberi-millennio; purtroppo solo quattro sono visibili, mentre uno è andato perduto sotto il campanile.
Accovacciato sul primo albero vediamo il Capricorno, la costellazione che rappresenta la capra Amaltea. Zeus era stato affidato dalla madre Rea a questa capra affinché lo allevasse al sicuro dal padre Crònos, il quale aveva la strana abitudine di inghiottire i propri figli. Zeus, per gratitudine, dopo la sua morte l’aveva trasformata in costellazione.
Zeus era il legislatore dei Greci; allo stesso modo Mosè era il legislatore degli Ebrei ed era stato salvato da piccolo dalle acque del Nilo. Nel cristianesimo gnostico le due figure si sovrapposero e di conseguenza il capricorno divenne anche il simbolo di Mosè.
Zeus era il legislatore dei Greci; allo stesso modo Mosè era il legislatore degli Ebrei ed era stato salvato da piccolo dalle acque del Nilo. Nel cristianesimo gnostico le due figure si sovrapposero e di conseguenza il capricorno divenne anche il simbolo di Mosè.
Sul secondo albero si trova una famiglia di pernici, allusiva alle “sette vergini raccoglitrici di Luce” assistenti di Melchisedec. In cielo trovano corrispondenza nelle Pleiadi, gruppo di sette stelle appartenenti al Toro che diventano visibili dal periodo della mietitura (maggio). Il raccolto agricolo è metafora della raccolta di luce (o semi luminosi) affidata agli gnostici. In tal senso si può intendere sia il lavoro interiore di ricostituzione dell’anima, sia quello di ricerca nel mondo delle anime inquiete.
Sul terzo albero troviamo un Gambero, paralizzato dalla scarica della torpedine. Nella stessa situazione è il sole nel solstizio d’estate (solis–statio = fermata del sole) quando, al massimo del suo fulgore, sembra che non prosegua la sua corsa annuale, ma che si fermi per qualche giorno. Nel solstizio d’estate il sole sorge nella casa del Cancro: gli Egizi e i Caldei avevano chiamato questa costellazione Gambero, e possiamo associarla a Giosué perché, com’è noto, egli aveva fermato il sole.
Sopra la torpedine compare la colomba treronina (o colomba pappagallo), dal collare rossiccio e dal meraviglioso colore verdazzurro del piumaggio. E’ racchiusa in un ottagono concavo e rappresenterebbe il Padre che scende attraverso la “cortina”. Questa colomba abita l’Africa orientale e il Medio Oriente, inducendoci a vedere la mano di artisti alessandrini o mediorientali[43].
Sul terzo albero troviamo un Gambero, paralizzato dalla scarica della torpedine. Nella stessa situazione è il sole nel solstizio d’estate (solis–statio = fermata del sole) quando, al massimo del suo fulgore, sembra che non prosegua la sua corsa annuale, ma che si fermi per qualche giorno. Nel solstizio d’estate il sole sorge nella casa del Cancro: gli Egizi e i Caldei avevano chiamato questa costellazione Gambero, e possiamo associarla a Giosué perché, com’è noto, egli aveva fermato il sole.
Sopra la torpedine compare la colomba treronina (o colomba pappagallo), dal collare rossiccio e dal meraviglioso colore verdazzurro del piumaggio. E’ racchiusa in un ottagono concavo e rappresenterebbe il Padre che scende attraverso la “cortina”. Questa colomba abita l’Africa orientale e il Medio Oriente, inducendoci a vedere la mano di artisti alessandrini o mediorientali[43].
Sul quarto albero sostava un drago con la coda a spire (la costellazione del Drago), trasformato in seguito da Teodoro in una sorta capretto[44]. Raffigurerebbe Ieova, il Dio veterotestamentario custode delle dodici tribù d’Israele. Come già detto, il quinto albero è assente, poiché coperto dalla torre campanaria in età medioevale[45]. Così riporta il Pistis Sophia:
tre vie (di destra, di centro e di sinistra) e sulla via di destra il Padre, in forma di colomba, in prossimità dell’albero di Ieova, e poi i “grandi ricevitori di luce”, le “due guide primordiali” e i “cinque alberi”. Al di sopra di tutto il Plèroma, cioè la pienezza di Dio.
Procedendo ancora verso est la raffigurazione continua appunto nel Pleroma, separata da una linea divisoria di qualche tessera nera. Ci imbattiamo in una serie di ottagoni (allegoria dell’ottavo giorno - ottavo millennio - regno del Padre), dei quali solo il secondo e terzo sono originali (gli altri sono stati sostituiti dalla chiesa ortodossa).
Il secondo contiene l'ariete, allegoria del Padre Celeste come principio di ogni cosa: egli è il padre del gregge, sulla cui fronte si vede una sorta di C capovolta. Nel Pistis Sophia essa indica il luogo in cui Gesù radunerà gli Apostoli all’interno del Padre: Gesù invita gli Apostoli a formare una corona attorno a sé nel posto della glorificazione, alla fine dell’ascesi. Secondo il Pistis Sophia ognuno di noi può far parte di tali semi eternamente vivi, il cui destino finale sarà di diventare “corona” sulla fronte del Padre. In tal senso gli Gnostici si ritenevano conoscitori della via della salvezza. Sopra la figura dell’ariete c’era l’iscrizione CYRIACOI (= uomini eletti in quanto detentori della conoscenza), che venne sostituita dalla Chiesa ufficiale con CYRIACE VIBAS (= O uomo-signore, che tu viva in Dio), con cui si voleva esprimere la fede e la speranza nella Resurrezione[46].
Il terzo ottagono è adiacente alle fondamenta del campanile e al suo interno si distinguono un gallo e una tartaruga in lotta, simboleggianti l'eterna opposizione tra il bene e il male. Il gallo rappresenta la luce, mentre la tartaruga (da “Tartaro”, mondo-inferno, letteralmente “abitatore delle tenebre”) indica il maligno, la materia e l’uomo materiale. Dietro gli animali c’è una colonnina che sostiene un sacchetto o un’anfora. Questa iconografia è un caso unico nell'arte paleocristiana: interpretandola secondo il culto pagano di Mithra, il sacchetto sarebbe pieno di denaro, premio per il vincitore. Il credente sarebbe esortato a combattere il peccato per ricevere in dono la vita eterna. In chiave gnostica l’anfora simboleggia invece l'aroma o l'essenza, cioè lo spirito. Curioso che secondo la corrente gnostica dei Sethiani i tre principi che si trovano all’origine di ogni forma esistente sono proprio la luce, le tenebre, lo spirito (o pneuma).
tre vie (di destra, di centro e di sinistra) e sulla via di destra il Padre, in forma di colomba, in prossimità dell’albero di Ieova, e poi i “grandi ricevitori di luce”, le “due guide primordiali” e i “cinque alberi”. Al di sopra di tutto il Plèroma, cioè la pienezza di Dio.
Procedendo ancora verso est la raffigurazione continua appunto nel Pleroma, separata da una linea divisoria di qualche tessera nera. Ci imbattiamo in una serie di ottagoni (allegoria dell’ottavo giorno - ottavo millennio - regno del Padre), dei quali solo il secondo e terzo sono originali (gli altri sono stati sostituiti dalla chiesa ortodossa).
Il secondo contiene l'ariete, allegoria del Padre Celeste come principio di ogni cosa: egli è il padre del gregge, sulla cui fronte si vede una sorta di C capovolta. Nel Pistis Sophia essa indica il luogo in cui Gesù radunerà gli Apostoli all’interno del Padre: Gesù invita gli Apostoli a formare una corona attorno a sé nel posto della glorificazione, alla fine dell’ascesi. Secondo il Pistis Sophia ognuno di noi può far parte di tali semi eternamente vivi, il cui destino finale sarà di diventare “corona” sulla fronte del Padre. In tal senso gli Gnostici si ritenevano conoscitori della via della salvezza. Sopra la figura dell’ariete c’era l’iscrizione CYRIACOI (= uomini eletti in quanto detentori della conoscenza), che venne sostituita dalla Chiesa ufficiale con CYRIACE VIBAS (= O uomo-signore, che tu viva in Dio), con cui si voleva esprimere la fede e la speranza nella Resurrezione[46].
Il terzo ottagono è adiacente alle fondamenta del campanile e al suo interno si distinguono un gallo e una tartaruga in lotta, simboleggianti l'eterna opposizione tra il bene e il male. Il gallo rappresenta la luce, mentre la tartaruga (da “Tartaro”, mondo-inferno, letteralmente “abitatore delle tenebre”) indica il maligno, la materia e l’uomo materiale. Dietro gli animali c’è una colonnina che sostiene un sacchetto o un’anfora. Questa iconografia è un caso unico nell'arte paleocristiana: interpretandola secondo il culto pagano di Mithra, il sacchetto sarebbe pieno di denaro, premio per il vincitore. Il credente sarebbe esortato a combattere il peccato per ricevere in dono la vita eterna. In chiave gnostica l’anfora simboleggia invece l'aroma o l'essenza, cioè lo spirito. Curioso che secondo la corrente gnostica dei Sethiani i tre principi che si trovano all’origine di ogni forma esistente sono proprio la luce, le tenebre, lo spirito (o pneuma).
La coppia di animali richiama la costellazione della Bilancia: l’immagine ricorda una scena classica dell’iconografia egizia, quella del giudizio delle anime, pesate da Anubis sui piatti della bilancia. E’ palese il richiamo al giudizio finale, a cui ogni anima dovrà sottostare prima del ritorno al Padre.
All’estremità superiore del Pleroma troviamo il Padre dall’aspetto di colomba pappagallo, dalle piume verdi-azzurre e dal collare rossiccio. Egli è separato dal resto del cosmo da una doppia linea, il limite (Hòros) che non si può valicare perché Dio non può essere compreso dall'uomo corporeo. Gli gnostici chiamavano questo limite anche “ventilabro”[47] e gli attribuivano la funzione di separare la parte materiale dell’uomo da quella spirituale.
All’estremità superiore del Pleroma troviamo il Padre dall’aspetto di colomba pappagallo, dalle piume verdi-azzurre e dal collare rossiccio. Egli è separato dal resto del cosmo da una doppia linea, il limite (Hòros) che non si può valicare perché Dio non può essere compreso dall'uomo corporeo. Gli gnostici chiamavano questo limite anche “ventilabro”[47] e gli attribuivano la funzione di separare la parte materiale dell’uomo da quella spirituale.
9. Tracce dell’evangelizzazione marciana in Friuli
Alle origini del cristianesimo convivevano varie scuole di pensiero, dominate in numero dalle correnti pietrina e paolina (poi prevalsa). Paolo conferma la presenza di più correnti di evangelizzazione nella Lettera ai Romani, affermando di non essere mai andato a costruire “dove altri avevano già piantato il fondamento”:
Così da Gerusalemme e in tutte le direzioni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunciare il Vangelo dove era già conosciuto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui...[48]
La regione dell’Illiria comprendeva Dalmazia e Pannonia, e probabilmente anche la città di Aquileia[49]. Sull'argomento la questione è ancora aperta: ci si chiede infatti se la missione evangelica di Paolo avesse compreso l’Illirico o se si fosse fermata ai suoi confini. Ci sono infatti buoni motivi per ritenere che la buona novella fosse giunta in questi territori sulla bocca di predicatori non paolini, probabilmente san Marco e san Pietro.
Le Chiese di matrice petrino-marciana mostravano opposizione e rifiuto verso le chiese paoline[50]. Esponenti di questo gruppo, come le comunità di Alessandria d’Egitto e di Aquileia, hanno ribadito la loro fondazione marciana con forza per secoli. Nel I secolo esistevano due ambiti di predicazione: uno era destinato agli Ebrei (circoncisi) ed era affidato a san Pietro e agli altri apostoli; l’altro era rivolto ai gentili (non circoncisi) ed era gestito da san Paolo e dai suoi aiutanti.
L’elemento più significativo che distingue le due correnti è la pentecostalità. San Paolo non figurava tra i 12 che avevano ricevuto lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, divenendo così le “pietre vive” a fondamenta della Chiesa. San Paolo aveva ricevuto soltanto una rivelazione solitaria sulla via di Damasco, un episodio sospetto agli occhi di quei “cristiani” che aveva a lungo perseguitato[51].
La pentecostalità, che si manifestava nella ebrietas[52] e nella glossolalia[53], era una peculiarità delle comunità non paoline. Tra queste vi era anche Alessandria, come testimoniato dall’identità del suo evangelizzatore, ovvero San Marco. Si tratta di quel Johanna/Marcos indicato dalle fonti come interprete di Pietro (interprete non tanto dell’apostolo, quanto di un particolare carisma: il dono delle lingue, riversato sui dodici apostoli, con Pietro protagonista e Paolo assente).
Sappiamo che Marco accompagnò Barnaba e san Paolo nel loro primo viaggio apostolico, ma abbandonò la missione per alcune divergenze sulla predicazione ai gentili. Non è vero che Pietro e Marco intendevano limitare agli Ebrei l’annuncio di salvezza: il tema dell’universalismo è anzi radicato in Pietro e Marco. Entrambi però non volevano escludere Israele[54], contrariamente a Paolo. Infatti, sia Giacomo (capo della Chiesa di Gerusalemme) che Pietro e Marco predicavano la buona novella senza abbandonare però la legge di Mosè (come facevano gli Ebioniti[55]), promuovendo una sorta di programma giudeo-cristiano.
Un’antica leggenda fa risalire il primo annuncio del Vangelo nel basso Salento al passaggio di san Pietro, accompagnato da san Marco, in viaggio verso Roma. Nei primi secoli dopo Cristo, chiunque volesse recarsi dall’oriente a Roma, doveva passare obbligatoriamente per la Puglia. Due importanti vie romane attraversavano questa regione a partire dal porto di Brindisi, la via Appia e la via Traiana: la prima, passando per Taranto e Venosa, portava a Roma, mentre la seconda si dirigeva verso Benevento[56]. Lungo il litorale adriatico vi sono diverse dedicazioni di chiese o cappelle a san Pietro, san Marco e san Giacomo, cui sovente si accompagna la presenza di sorgive, olle e fonti[57].
Percorsa la Puglia da un estremo all’altro, Pietro e Marco giunsero a Roma. Secondo la tradizione patristica, Pietro avrebbe vissuto a lungo a Roma e qui avrebbe trovato la morte. Eusebio aggiunge che a Roma avvenne anche l’importante incontro con Filone alessandrino, a seguito del quale, forse, quest’ultimo si convertì al cristianesimo, anche se è più probabile che sia stato Marco ad assumere il ruolo di mediatore tra il pescatore Pietro e l’erudito Filone.
Occupiamoci ora della Pentecoste, così cara all’evangelizzazione pietrina e marciana. I Terapeuti di Alessandria accompagnavano la festa con una danza sacra ed estatica, che trova stretta analogia con le usanze degli Ebrei più antichi[58] che a loro volta le avevano apprese in Egitto. Questo tema è stato approfondito dal musicologo Egon Wellesz, interessato agli influssi orientali sul canto ecclesiastico latino.
Secondo Wellesz, la prima testimonianza in epoca cristiana di “canto in due cori” (ovvero canto antifonico, a botta e risposta, con l’esecuzione alternata di uno stesso tema musicale da parte di due gruppi) si troverebbe nel De vita contemplativa del filosofo Filone di Alessandria (ca 40 d.C.). Secondo l’opera di Filone, questa prassi coreica risalirebbe ad una bizzarra comunità di uomini e donne, dediti alla preghiera e alla meditazione, stabilitisi nei pressi di Alessandria d’Egitto: si tratta appunto dei Terapeuti. Ogni sabato si radunavano per lodare Dio, in particolate nel sabato della Pentecoste. In tale circostanza ballavano e cantavano tutta la notte, prima divisi in due cori e poi uniti in uno solo, fino a raggiungere una sorta di estasi collettiva.
Queste celebrazioni ricordano tanto le feste bacchiche quanto i riti ebraici ai tempi dell’Esodo: nel libro sacro leggiamo che durante la traversata del Mar Rosso, alla vista dell’esercito faraonico inghiottito dalle acque, la profetessa Myriam prese in mano un tamburello, e guidò le donne d’Israele in una danza di ringraziamento, salmodiando in due cori[59].
Don Gilberto Pressacco, ammirato investigatore sull’origine marciana della Chiesa di Aquileia, ci informa che una simile usanza era diffusa in Friuli nel XVII secolo. A testimoniarlo sarebbe una lettera-denuncia spedita nel 1624 al Tribunale d’Inquisizione di Aquileia dal parroco di Palazzolo dello Stella. Il prete segnalava la presenza nella sua comunità di uno strano rituale che si svolgeva nella notte del sabato di Pentecoste e coinvolgeva un gruppo di uomini e donne. Costoro si muovevano in processione e aspergevano con un mazzetto di issopo attorno alla villa, cantando un canto a due cori intitolato Schiarazzola Marazzola. Ancora oggi si colloca tra i canti più famosi della tradizione popolare friulana. Il ruolo principale nella celebrazione spettava alle donne, guidate da una certa Maria Alessandrina. Spontaneo il confronto con la profetessa Myriam che guidava le donne d’Israele nell’Esodo[60].
Pratiche coreiche simili erano diffuse all’interno dell’ordine dei Carmelitani Scalzi, fondati da Santa Teresa d’Avila[61] (la città del vescovo eretico Priscilliano) durante la seconda metà del XVI secolo. Questa santa, annoverata tra i 33 Dottori della Chiesa, fu una delle figure più importanti della Controriforma cattolica per la sua attività di scrittrice e di riformatrice degli ordini religiosi.
Nel convento di Avila sono oggi conservati i tamburelli usati da santa Teresa e dalle sue consorelle durante le preghiere. Nell’atrio del convento si trova inoltre un dipinto che raffigura Filone, noto decantatore dei Terapeuti, considerati in senso ampio i precorritori del movimento carmelitano[62]. I Carmelitani Scalzi sono infatti dediti alla vita contemplativa, alla quale uniscono opere di apostolato missionario.
Schiarazzola Marazzola è anche il titolo di un ballo contenuto in una raccolta musicale compilata nel 1578 dal maestro di cappella di Aquileia, pre’ Giorgio Mainerio. La cosa è interessante poiché egli fu inquisito con l’accusa di aver praticato riti notturni attorno a dei fuochi, presso le colline della campagna friulana[63].
Ma cosa significa letteralmente Schiarazzola Marazzola? Don Gilberto Pressacco propone un’interessante chiave di lettura isolando la radice dei due termini: la parola scjaràz in dialetto friulano è usata per indicare una canna; la radice etimologica è greca (càrax) e significa appunto canna o bastone. Marath in greco significa finocchio; ne deriva che schiarazz(ola) e marazz(ola) sono gli equivalenti friulani dei greci “canna e finocchio” a cui è stato aggiunto il suffisso –ola[64].
Come abbiamo accennato, il canto a due cori prevede l’esecuzione alternata, a botta e risposta, tra due gruppi opposti e dialoganti. È possibile, anzi probabile, che la mimica usata nel canto volesse enfatizzare una sorta di battaglia coreica. Questo riporta alla mente le dispute notturne dei Beneandanti[65], che dichiaravano di combattere contro streghe e demoni brandendo proprio canna e finocchio, per proteggere il raccolto delle campagne. Nei secoli XVI e XVII, i Beneandanti erano piccoli gruppi di persone dediti alla protezione dei villaggi e del raccolto dall'intervento malefico delle streghe. Si tratta di un culto agrario pagano diffusosi nel centro-nord Europa e arrivato fino alle regioni nord-orientali dell'Italia. Ne deduciamo che una tradizione coreica dei Terapeuti è andata a mescolarsi con una “battaglia” pagana.
Le tracce dell’evangelizzazione marciana in Friuli devono ricercarsi nelle campagne, in quanto aree non raggiunte dalla cultura ufficiale e dominante. La diffidenza dell’ambiente rurale di fronte ai cambiamenti favorisce la conservazione per secoli di riti e tradizioni. E il rifiuto dell’ambiente cittadino è una prerogativa sia dei Terapeuti che degli Esseni.
Sappiamo che i Terapeuti preferivano la tranquillità della campagna al caos e alla corruzione delle città. Prediligevano luoghi collinari e con acque sorgive, come le acque sorgive dette “olle”[66] che caratterizzano la bassa friulana e in particolare la zona di Aquileia.
La loro comunità era composta da uomini e donne che vivevano in zone divise, potendo così sentirsi ma non vedersi. Vigeva la regola del celibato e le donne erano per lo più vergini anziane. Vestivano in modo sobrio e mangiavano pane comune condito con sale o issopo (proprio quell’issopo usato dalle donne di Palazzolo per l’aspersione). Per essere ammessi all’ordine era necessario lasciare i propri beni (come per gli Esseni) e dedicarsi completamente alla contemplazione e alla preghiera.
Filone chiamava monasterium il luogo in cui vivevano i Terapeuti, e da un passo dell’Apologia contro Girolamo di Rufino si intuisce la presenza di un luogo simile proprio ad Aquileia. Ancora oggi è presente una zona chiamata Monastero, un luogo situato fuori città in cui un tempo sorgeva una sinagoga ebraica[67].
Sembra che i cristiani della campagna osservassero il riposo del sabato, in linea con la tradizione ebraica, diversamente dai fedeli di città. Il Patriarca di Aquileia Paolino, nel canone XIII, steso a conclusione del Concilio provinciale di Cividale del Friuli (796-797), sancì che la celebrazione della domenica dovesse iniziare la sera del sabato e che quanto detto dal profeta Isaia sul Sabato (Isaia 58,13) dovesse intendersi riferito alla domenica. Aggiungeva:
Inoltre, se gli Ebrei fanno festa il giorno di sabato, che è l’ultimo della settimana e che anche le nostre genti contadine osservano, si direbbe tanto importante il sabato, e in alcun modo si potrebbe aggiungere delizioso e mio…[68].
Nonostante i provvedimenti della Chiesa per abolire la solennità del sabato, la tradizione gnostica restò radicata nelle usanze aquileiesi anche dopo la soppressione del Patriarcato di Aquileia nel 1751. Testimonianze di tale tradizione sono rimaste impresse nella lingua locale: in friulano il giorno del sabato viene detto “la sabide”, nome di genere femminile. L’unica altra lingua in cui il termine ha lo stesso genere è l’ebraico (“shabuoth”)[69]. Una "Santa Sabide" appare nelle pievi costruite nei pressi delle olle o risorgive della bassa friulana: insieme a santa Margherita, san Michele e san Giacomo, compone un gruppo esclusivo di santi a cui sono dedicate le pievi[70].
I cristiani di Aquileia usavano per la catechesi alcuni testi diversi dai Vangeli, tra cui Il Pastore di Erma, uno scrittore degli inizi del II secolo. Il suo tema centrale è la discesa agli inferi, compiuta dopo Cristo dagli Apostoli e dai Dottori della Chiesa. Essa simboleggia un’estensione dell’annuncio di salvezza ai giusti di tutte le nazioni. Secondo quest’opera, la discesa all’inferno avveniva attraverso varchi aperti nel terreno dalle sorgive, acque che avevano quindi la funzione di collegare il mondo terreno e ultraterreno[71].
La discesa agli inferi trova forse un riscontro testuale nei Vangeli: Gesù viene infatti ripreso da un gruppo farisei e sadducei, indignati dal suo agire indistinto verso ebrei e pagani. L’accusa che gli rivolgono è di guarire gli ammalati in nome di Beelzebul, collegando di nuovo i temi dell’universalità e della discesa agli inferi.
Alle origini del cristianesimo convivevano varie scuole di pensiero, dominate in numero dalle correnti pietrina e paolina (poi prevalsa). Paolo conferma la presenza di più correnti di evangelizzazione nella Lettera ai Romani, affermando di non essere mai andato a costruire “dove altri avevano già piantato il fondamento”:
Così da Gerusalemme e in tutte le direzioni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunciare il Vangelo dove era già conosciuto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui...[48]
La regione dell’Illiria comprendeva Dalmazia e Pannonia, e probabilmente anche la città di Aquileia[49]. Sull'argomento la questione è ancora aperta: ci si chiede infatti se la missione evangelica di Paolo avesse compreso l’Illirico o se si fosse fermata ai suoi confini. Ci sono infatti buoni motivi per ritenere che la buona novella fosse giunta in questi territori sulla bocca di predicatori non paolini, probabilmente san Marco e san Pietro.
Le Chiese di matrice petrino-marciana mostravano opposizione e rifiuto verso le chiese paoline[50]. Esponenti di questo gruppo, come le comunità di Alessandria d’Egitto e di Aquileia, hanno ribadito la loro fondazione marciana con forza per secoli. Nel I secolo esistevano due ambiti di predicazione: uno era destinato agli Ebrei (circoncisi) ed era affidato a san Pietro e agli altri apostoli; l’altro era rivolto ai gentili (non circoncisi) ed era gestito da san Paolo e dai suoi aiutanti.
L’elemento più significativo che distingue le due correnti è la pentecostalità. San Paolo non figurava tra i 12 che avevano ricevuto lo Spirito Santo nel giorno di Pentecoste, divenendo così le “pietre vive” a fondamenta della Chiesa. San Paolo aveva ricevuto soltanto una rivelazione solitaria sulla via di Damasco, un episodio sospetto agli occhi di quei “cristiani” che aveva a lungo perseguitato[51].
La pentecostalità, che si manifestava nella ebrietas[52] e nella glossolalia[53], era una peculiarità delle comunità non paoline. Tra queste vi era anche Alessandria, come testimoniato dall’identità del suo evangelizzatore, ovvero San Marco. Si tratta di quel Johanna/Marcos indicato dalle fonti come interprete di Pietro (interprete non tanto dell’apostolo, quanto di un particolare carisma: il dono delle lingue, riversato sui dodici apostoli, con Pietro protagonista e Paolo assente).
Sappiamo che Marco accompagnò Barnaba e san Paolo nel loro primo viaggio apostolico, ma abbandonò la missione per alcune divergenze sulla predicazione ai gentili. Non è vero che Pietro e Marco intendevano limitare agli Ebrei l’annuncio di salvezza: il tema dell’universalismo è anzi radicato in Pietro e Marco. Entrambi però non volevano escludere Israele[54], contrariamente a Paolo. Infatti, sia Giacomo (capo della Chiesa di Gerusalemme) che Pietro e Marco predicavano la buona novella senza abbandonare però la legge di Mosè (come facevano gli Ebioniti[55]), promuovendo una sorta di programma giudeo-cristiano.
Un’antica leggenda fa risalire il primo annuncio del Vangelo nel basso Salento al passaggio di san Pietro, accompagnato da san Marco, in viaggio verso Roma. Nei primi secoli dopo Cristo, chiunque volesse recarsi dall’oriente a Roma, doveva passare obbligatoriamente per la Puglia. Due importanti vie romane attraversavano questa regione a partire dal porto di Brindisi, la via Appia e la via Traiana: la prima, passando per Taranto e Venosa, portava a Roma, mentre la seconda si dirigeva verso Benevento[56]. Lungo il litorale adriatico vi sono diverse dedicazioni di chiese o cappelle a san Pietro, san Marco e san Giacomo, cui sovente si accompagna la presenza di sorgive, olle e fonti[57].
Percorsa la Puglia da un estremo all’altro, Pietro e Marco giunsero a Roma. Secondo la tradizione patristica, Pietro avrebbe vissuto a lungo a Roma e qui avrebbe trovato la morte. Eusebio aggiunge che a Roma avvenne anche l’importante incontro con Filone alessandrino, a seguito del quale, forse, quest’ultimo si convertì al cristianesimo, anche se è più probabile che sia stato Marco ad assumere il ruolo di mediatore tra il pescatore Pietro e l’erudito Filone.
Occupiamoci ora della Pentecoste, così cara all’evangelizzazione pietrina e marciana. I Terapeuti di Alessandria accompagnavano la festa con una danza sacra ed estatica, che trova stretta analogia con le usanze degli Ebrei più antichi[58] che a loro volta le avevano apprese in Egitto. Questo tema è stato approfondito dal musicologo Egon Wellesz, interessato agli influssi orientali sul canto ecclesiastico latino.
Secondo Wellesz, la prima testimonianza in epoca cristiana di “canto in due cori” (ovvero canto antifonico, a botta e risposta, con l’esecuzione alternata di uno stesso tema musicale da parte di due gruppi) si troverebbe nel De vita contemplativa del filosofo Filone di Alessandria (ca 40 d.C.). Secondo l’opera di Filone, questa prassi coreica risalirebbe ad una bizzarra comunità di uomini e donne, dediti alla preghiera e alla meditazione, stabilitisi nei pressi di Alessandria d’Egitto: si tratta appunto dei Terapeuti. Ogni sabato si radunavano per lodare Dio, in particolate nel sabato della Pentecoste. In tale circostanza ballavano e cantavano tutta la notte, prima divisi in due cori e poi uniti in uno solo, fino a raggiungere una sorta di estasi collettiva.
Queste celebrazioni ricordano tanto le feste bacchiche quanto i riti ebraici ai tempi dell’Esodo: nel libro sacro leggiamo che durante la traversata del Mar Rosso, alla vista dell’esercito faraonico inghiottito dalle acque, la profetessa Myriam prese in mano un tamburello, e guidò le donne d’Israele in una danza di ringraziamento, salmodiando in due cori[59].
Don Gilberto Pressacco, ammirato investigatore sull’origine marciana della Chiesa di Aquileia, ci informa che una simile usanza era diffusa in Friuli nel XVII secolo. A testimoniarlo sarebbe una lettera-denuncia spedita nel 1624 al Tribunale d’Inquisizione di Aquileia dal parroco di Palazzolo dello Stella. Il prete segnalava la presenza nella sua comunità di uno strano rituale che si svolgeva nella notte del sabato di Pentecoste e coinvolgeva un gruppo di uomini e donne. Costoro si muovevano in processione e aspergevano con un mazzetto di issopo attorno alla villa, cantando un canto a due cori intitolato Schiarazzola Marazzola. Ancora oggi si colloca tra i canti più famosi della tradizione popolare friulana. Il ruolo principale nella celebrazione spettava alle donne, guidate da una certa Maria Alessandrina. Spontaneo il confronto con la profetessa Myriam che guidava le donne d’Israele nell’Esodo[60].
Pratiche coreiche simili erano diffuse all’interno dell’ordine dei Carmelitani Scalzi, fondati da Santa Teresa d’Avila[61] (la città del vescovo eretico Priscilliano) durante la seconda metà del XVI secolo. Questa santa, annoverata tra i 33 Dottori della Chiesa, fu una delle figure più importanti della Controriforma cattolica per la sua attività di scrittrice e di riformatrice degli ordini religiosi.
Nel convento di Avila sono oggi conservati i tamburelli usati da santa Teresa e dalle sue consorelle durante le preghiere. Nell’atrio del convento si trova inoltre un dipinto che raffigura Filone, noto decantatore dei Terapeuti, considerati in senso ampio i precorritori del movimento carmelitano[62]. I Carmelitani Scalzi sono infatti dediti alla vita contemplativa, alla quale uniscono opere di apostolato missionario.
Schiarazzola Marazzola è anche il titolo di un ballo contenuto in una raccolta musicale compilata nel 1578 dal maestro di cappella di Aquileia, pre’ Giorgio Mainerio. La cosa è interessante poiché egli fu inquisito con l’accusa di aver praticato riti notturni attorno a dei fuochi, presso le colline della campagna friulana[63].
Ma cosa significa letteralmente Schiarazzola Marazzola? Don Gilberto Pressacco propone un’interessante chiave di lettura isolando la radice dei due termini: la parola scjaràz in dialetto friulano è usata per indicare una canna; la radice etimologica è greca (càrax) e significa appunto canna o bastone. Marath in greco significa finocchio; ne deriva che schiarazz(ola) e marazz(ola) sono gli equivalenti friulani dei greci “canna e finocchio” a cui è stato aggiunto il suffisso –ola[64].
Come abbiamo accennato, il canto a due cori prevede l’esecuzione alternata, a botta e risposta, tra due gruppi opposti e dialoganti. È possibile, anzi probabile, che la mimica usata nel canto volesse enfatizzare una sorta di battaglia coreica. Questo riporta alla mente le dispute notturne dei Beneandanti[65], che dichiaravano di combattere contro streghe e demoni brandendo proprio canna e finocchio, per proteggere il raccolto delle campagne. Nei secoli XVI e XVII, i Beneandanti erano piccoli gruppi di persone dediti alla protezione dei villaggi e del raccolto dall'intervento malefico delle streghe. Si tratta di un culto agrario pagano diffusosi nel centro-nord Europa e arrivato fino alle regioni nord-orientali dell'Italia. Ne deduciamo che una tradizione coreica dei Terapeuti è andata a mescolarsi con una “battaglia” pagana.
Le tracce dell’evangelizzazione marciana in Friuli devono ricercarsi nelle campagne, in quanto aree non raggiunte dalla cultura ufficiale e dominante. La diffidenza dell’ambiente rurale di fronte ai cambiamenti favorisce la conservazione per secoli di riti e tradizioni. E il rifiuto dell’ambiente cittadino è una prerogativa sia dei Terapeuti che degli Esseni.
Sappiamo che i Terapeuti preferivano la tranquillità della campagna al caos e alla corruzione delle città. Prediligevano luoghi collinari e con acque sorgive, come le acque sorgive dette “olle”[66] che caratterizzano la bassa friulana e in particolare la zona di Aquileia.
La loro comunità era composta da uomini e donne che vivevano in zone divise, potendo così sentirsi ma non vedersi. Vigeva la regola del celibato e le donne erano per lo più vergini anziane. Vestivano in modo sobrio e mangiavano pane comune condito con sale o issopo (proprio quell’issopo usato dalle donne di Palazzolo per l’aspersione). Per essere ammessi all’ordine era necessario lasciare i propri beni (come per gli Esseni) e dedicarsi completamente alla contemplazione e alla preghiera.
Filone chiamava monasterium il luogo in cui vivevano i Terapeuti, e da un passo dell’Apologia contro Girolamo di Rufino si intuisce la presenza di un luogo simile proprio ad Aquileia. Ancora oggi è presente una zona chiamata Monastero, un luogo situato fuori città in cui un tempo sorgeva una sinagoga ebraica[67].
Sembra che i cristiani della campagna osservassero il riposo del sabato, in linea con la tradizione ebraica, diversamente dai fedeli di città. Il Patriarca di Aquileia Paolino, nel canone XIII, steso a conclusione del Concilio provinciale di Cividale del Friuli (796-797), sancì che la celebrazione della domenica dovesse iniziare la sera del sabato e che quanto detto dal profeta Isaia sul Sabato (Isaia 58,13) dovesse intendersi riferito alla domenica. Aggiungeva:
Inoltre, se gli Ebrei fanno festa il giorno di sabato, che è l’ultimo della settimana e che anche le nostre genti contadine osservano, si direbbe tanto importante il sabato, e in alcun modo si potrebbe aggiungere delizioso e mio…[68].
Nonostante i provvedimenti della Chiesa per abolire la solennità del sabato, la tradizione gnostica restò radicata nelle usanze aquileiesi anche dopo la soppressione del Patriarcato di Aquileia nel 1751. Testimonianze di tale tradizione sono rimaste impresse nella lingua locale: in friulano il giorno del sabato viene detto “la sabide”, nome di genere femminile. L’unica altra lingua in cui il termine ha lo stesso genere è l’ebraico (“shabuoth”)[69]. Una "Santa Sabide" appare nelle pievi costruite nei pressi delle olle o risorgive della bassa friulana: insieme a santa Margherita, san Michele e san Giacomo, compone un gruppo esclusivo di santi a cui sono dedicate le pievi[70].
I cristiani di Aquileia usavano per la catechesi alcuni testi diversi dai Vangeli, tra cui Il Pastore di Erma, uno scrittore degli inizi del II secolo. Il suo tema centrale è la discesa agli inferi, compiuta dopo Cristo dagli Apostoli e dai Dottori della Chiesa. Essa simboleggia un’estensione dell’annuncio di salvezza ai giusti di tutte le nazioni. Secondo quest’opera, la discesa all’inferno avveniva attraverso varchi aperti nel terreno dalle sorgive, acque che avevano quindi la funzione di collegare il mondo terreno e ultraterreno[71].
La discesa agli inferi trova forse un riscontro testuale nei Vangeli: Gesù viene infatti ripreso da un gruppo farisei e sadducei, indignati dal suo agire indistinto verso ebrei e pagani. L’accusa che gli rivolgono è di guarire gli ammalati in nome di Beelzebul, collegando di nuovo i temi dell’universalità e della discesa agli inferi.
10. I Santi Gnostici
I santi più venerati del Friuli sono san Michele, san Giorgio[72] e san Martino[73]: parecchie chiese friulane adottano questi santi come patroni, soprattutto nelle Diocesi di Udine e Pordenone. Non è un caso che la stessa triade sia onorata dalle confessioni gnostiche, come non è un caso rincontrarli in Etiopia dove esistevano colonie ebraiche dall'VIII secolo a.C. (i cosiddetti Falasha), che mantennero immutate le tradizioni più antiche sfuggendo alle riforme dei re di Giuda Ezechia (r.716-687 a.C.) e Giosia (r.640-609 a.C.). In Etiopia troviamo gli stessi i cori e le danze estatiche diffusi tra i Terapeuti di Alessandria e Aquileia, completamenti assenti nel cristianesimo copto del vicino Egitto.
La devozione e il culto verso san Giorgio erano particolarmente diffusi durante l’epoca longobarda. In Friuli si edificarono sacelli in onore del Santo: nel “castro Nemas” (Nimis) esiste ancora una chiesetta di san Giorgio nei pressi della vetta del monte Zucon, risalente ai secoli VI-VII. A san Giorgio di Nogaro si trova la Chiesa della Madonna Addolorata: alcuni scavi iniziati nel 1988 hanno portato alla luce i resti di una chiesa medievale e di un edificio a pavimentazione musiva di epoca paleocristiana. Databile attorno al IV secolo, era probabilmente dedicato al santo. Ricordiamo infine la chiesa di san Giorgio a Vado di Rualis, parte di un antico complesso monastico documentato già agli inizi del XIII secolo.
In relazione al culto friulano di San Michele, si deve evidenziare la Chiesa di San Michele in Campeglio: la sua origine è attribuita al periodo longobardo, giustificata dalla devozione di questo popolo verso il santo. Ma solo quando il Castello di Soffumbergo divenne soggiorno estivo dei patriarchi di Aquileia (1240) si ebbero notizie certe della presenza di questa chiesa.
Altrettanto degna di nota è la Chiesa di San Michele Arcangelo a Cervignano del Friuli. Essa fu costruita nel 1614 su un precedente edificio. La chiesa conserva un antico mosaico, con motivi ad intrecci di palmette e colombe, che ricordano quelli di Aquileia e Grado, databili all’inizio del secolo VIII.
Anche il culto di san Martino andò rafforzandosi in Friuli coi longobardi convertiti al cristianesimo, costituendo un vero e proprio punto di riferimento nel calendario agrario del contadino friulano. La popolarità del santo è legata anche alla diffusione dei racconti popolari che lo vedono protagonista.
Interessante è il culto delle acque di san Martino a Fontaneto d’Agogna: qui un edificio sorge ai margini della località omonima presso la sorgente chiamata “la fontana di San Martino”. Il Paesaggio evoca sacralità e rituali legati al culto delle acque, le cui radici potrebbero affondare in culture pagane più antiche e le cui acque incontaminate sono elemento purificatore e curativo.
I santi più venerati del Friuli sono san Michele, san Giorgio[72] e san Martino[73]: parecchie chiese friulane adottano questi santi come patroni, soprattutto nelle Diocesi di Udine e Pordenone. Non è un caso che la stessa triade sia onorata dalle confessioni gnostiche, come non è un caso rincontrarli in Etiopia dove esistevano colonie ebraiche dall'VIII secolo a.C. (i cosiddetti Falasha), che mantennero immutate le tradizioni più antiche sfuggendo alle riforme dei re di Giuda Ezechia (r.716-687 a.C.) e Giosia (r.640-609 a.C.). In Etiopia troviamo gli stessi i cori e le danze estatiche diffusi tra i Terapeuti di Alessandria e Aquileia, completamenti assenti nel cristianesimo copto del vicino Egitto.
La devozione e il culto verso san Giorgio erano particolarmente diffusi durante l’epoca longobarda. In Friuli si edificarono sacelli in onore del Santo: nel “castro Nemas” (Nimis) esiste ancora una chiesetta di san Giorgio nei pressi della vetta del monte Zucon, risalente ai secoli VI-VII. A san Giorgio di Nogaro si trova la Chiesa della Madonna Addolorata: alcuni scavi iniziati nel 1988 hanno portato alla luce i resti di una chiesa medievale e di un edificio a pavimentazione musiva di epoca paleocristiana. Databile attorno al IV secolo, era probabilmente dedicato al santo. Ricordiamo infine la chiesa di san Giorgio a Vado di Rualis, parte di un antico complesso monastico documentato già agli inizi del XIII secolo.
In relazione al culto friulano di San Michele, si deve evidenziare la Chiesa di San Michele in Campeglio: la sua origine è attribuita al periodo longobardo, giustificata dalla devozione di questo popolo verso il santo. Ma solo quando il Castello di Soffumbergo divenne soggiorno estivo dei patriarchi di Aquileia (1240) si ebbero notizie certe della presenza di questa chiesa.
Altrettanto degna di nota è la Chiesa di San Michele Arcangelo a Cervignano del Friuli. Essa fu costruita nel 1614 su un precedente edificio. La chiesa conserva un antico mosaico, con motivi ad intrecci di palmette e colombe, che ricordano quelli di Aquileia e Grado, databili all’inizio del secolo VIII.
Anche il culto di san Martino andò rafforzandosi in Friuli coi longobardi convertiti al cristianesimo, costituendo un vero e proprio punto di riferimento nel calendario agrario del contadino friulano. La popolarità del santo è legata anche alla diffusione dei racconti popolari che lo vedono protagonista.
Interessante è il culto delle acque di san Martino a Fontaneto d’Agogna: qui un edificio sorge ai margini della località omonima presso la sorgente chiamata “la fontana di San Martino”. Il Paesaggio evoca sacralità e rituali legati al culto delle acque, le cui radici potrebbero affondare in culture pagane più antiche e le cui acque incontaminate sono elemento purificatore e curativo.
[42] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi, Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[43] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi: Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[44] Questa figura ricorda il mito greco-romano del drago a guardia delle dodici mele d’oro nel giardino delle Esperidi.
[45] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi: Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[46] Vedi: R. Iacumin Le porte della salvezza -Guida alla lettura dei mosaici della basilica di Aquileia, Gaspari Editore, 2000; L. Moraldi, Pistis Sophia, ed. Adelphi.
[47] Il ventilabro è un attrezzo agricolo che serviva a separare la pula dal frumento.
[48] Lettera ai Romani 15, 19-20
[49] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 87
[50] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 89
[51] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 63
[52] La “sobria ebrietas”, la cosiddetta gioia del profeta, è un’ebbrezza controllata, uno stato di euforia ed espansione di sé, una sorta di estasi.
[53] La glossolalia è il dono soprannaturale di parlare lingue sconosciute.
[54] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 66
[55] Gli Ebioniti erano un gruppo sorto dopo il 70 d.C. in Transgiordania; si tratta di proto cristiani, ovvero giudei che ritenevano Cristo solo un grande profeta inviato da Dio, ma non il figlio di Dio. Numerose notizie sulla setta degli Ebioniti sono fornite da Ireneo da Lione e soprattutto dalle Omelie e Decretali dello Pseudo-Clemente. In queste ultime è sviluppata la teoria delle Due vie, tematica tipica dell’essenismo, con una aggiunta colorazione cristiana nel ritenere Cristo l’ultimo dei veri profeti. Ma l’Ebionismo e le Pseudo-Clementine hanno in comune un altro aspetto: l’ostilità al grande avversario, a colui che sopprime la legge di Mosè, ovvero san Paolo. Vedi R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 85
[56] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 69
[57] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 69
[58] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 64
[59] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 11
[60] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 12
[61] Nel 1562 Santa Teresa d'Avila fondò un primo monastero femminile di tipo eremitico, dedicato a San Giuseppe, con lo scopo di dare inizio ad una riforma dell'ordine carmelitano, riportandolo alla Regola del 1247. Nel 1566 la santa ottenne l'autorizzazione a fondare due conventi maschili di frati detti "riformati" o "scalzi". Il fulcro del pensiero di Teresa è l'amicizia tra il Signore e la sua creatura. Secondo l'interpretazione più tradizionale, l'ascesa dell'anima umana avverrebbe attraverso quattro stadi, [come descritto nella sua Autobiografia, cc. X-XXII]: il primo è l’orazione di accoglimento o meditazione, una sorta di "ritiro" dell'anima e delle sue facoltà dall'esterno per ascoltare la Parola di Dio. Il secondo stadio è l'orazione di quiete, nel quale la volontà umana è rimessa in quella di Dio, mentre le altre facoltà (memoria, immaginazione e ragione) non sono ancora sicure a causa della distrazione mondana. Segue l'orazione di unione, in cui la presenza dello Spirito attrae in sé la volontà e l'intelletto, in un dono reciproco tra il Signore e la creatura, mentre rimangono "libere" solo l'immaginazione e la memoria. Quando tutta la vita è trasformata da questa esperienza si compie l'unione, che non richiede più le "estasi", che caratterizzano le fasi ancora immature del percorso spirituale. Tra gli scritti di Teresa, particolarmente interessante è Il Castello Interiore, composto nel 1577, in cui paragona l'anima contemplante ad un castello composto da sette camere interne successive.
[62] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 57
[63] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 16
[64] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 31
[65] I Beneandanti erano quelle persone che nascevano avvolte nel sacco amniotico; dopo il parto, veniva custodito un piccolo pezzo del sacco, che costoro avrebbero dovuto conservare in un sacchettino da portare al collo come amuleto. Una volta raggiunta la maggiore età, nelle notti delle quattro tempora, sarebbero stati in grado di uscire dal proprio corpo durante il sonno in forma di spirito, per riunirsi e combattere contro streghe e stregoni. Se nelle dispute prevalevano i Beneandanti sarebbero seguiti mesi prosperi, altrimenti sarebbero giunti periodi di carestia e malattia. Inoltre, i Beneandanti fungevano da guaritori contro malocchio e incantesimi, e potevano vedere i morti in processione e ascoltare i loro messaggi. Fra il 1575 ed il 1675 furono sanciti come eretici dall’Inquisizione. Tuttavia, verso la fine del 1600, l'Inquisizione diminuì le inchieste sui Beneandanti, dovendo concentrare l’attività sull’ eresia seguita alla Riforma.
[66] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 34
[67] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 35
[68] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 39
[69] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 41
[70] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 36
[71] R. Paluzzano, G. Pressacco, Viaggio nella notte della Chiesa di Aquileia, Gaspari Editore, p. 42
[72] San Giorgio, oltre ad essere venerato da quasi tutte le chiese cristiane, è onorato anche dai musulmani come profeta. Noto presso gli arabi cristiani come al-Khadr (il “verde”), egli è il santo che porta l’acqua e la fertilità, che protegge dai mali e guarisce dalle infermità. Le principali informazioni sulla sua vita provengono dalla Passio Georgii che il Decretum Gelasianum del 496 classificava tra le opere apocrife. Secondo questa fonte, Giorgio sarebbe nato verso il 280 d.C. in Cappadocia (odierna Turchia) da padre persiano e madre cappadoce. Fu educato dai genitori alla religione cristiana fino al momento in cui si trasferì in Palestina per arruolarsi nell'esercito dell'imperatore Diocleziano. Il suo martirio sarebbe avvenuto proprio sotto Diocleziano (che però in molte versioni è sostituito da Daciano imperatore dei Persiani). Giorgio donò ai poveri i suoi beni e si professò cristiano davanti alla corte; all'invito dell'imperatore di sacrificare agli dei si rifiutò ed iniziarono così numerose scene di martirio. Attorno alla figura di san Giorgio è sorta durante il periodo delle Crociate la cosiddetta “Leggenda Aurea”: si narra che avesse liberato la popolazione della città libica di Selem dall’ira di un terribile drago. Nel Medioevo la lotta di san Giorgio contro il drago divenne il simbolo della lotta del bene contro il male e per questo il mondo della cavalleria vi vide incarnati i suoi ideali. Al tempo delle crociate il culto di san Giorgio giungerà in occidente e diventerà ancora più di san Martino figura ispiratrice ed emblema della cavalleria Cristiana, e in nome di san Michele si compiranno i riti di consacrazione dei suoi membri. I Crociati si erano convinti che san Giorgio li avesse accompagnati nella loro marcia, perché tutte le città che incontravano erano in qualche modo collegate con il suo culto.
[73] Martino di Tours, vescovo e confessore, è venerato come santo dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e da quella copta. Era nativo di Sabaria Sicca in Pannonia (oggi Ungheria). Figlio di un ufficiale dell'esercito dell'Impero Romano, a quindici anni iniziò la carriera militare. Fu mandato in Gallia dove, ancora adolescente, si convertì al Cristianesimo e, dopo il congedo dall'esercito, divenne un monaco nella regione di Poitiers. Quando Martino era ancora un militare ebbe una visione: si trovava alle porte della città di Amiens con i suoi soldati quando incontrò un mendicante seminudo. D'impulso tagliò in due il suo mantello e lo condivise col mendicante. Quella notte sognò che Gesù si recava da lui e gli restituiva la metà di mantello che aveva condiviso. Udì Gesù dire ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito.» Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro. Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia, ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi.
Martino si adoperò per la conversione al cristianesimo della popolazione gallica, facendo molti viaggi per predicare nella Francia centrale e occidentale, soprattutto nelle aree rurali, demolendo templi e altari pagani. Nel corso di questa opera divenne estremamente popolare, e nel 371 i cittadini di Tours lo vollero loro vescovo. Martino fu un vescovo attivo ed un energico propagatore della fede. Il suo prestigio si impose e si irradiò ovunque, sorretto dalle sue doti di carità, giustizia e sobrietà e dalla fama di taumaturgo.
Egli aveva della sua missione di “pastore” un concetto assai ampio, a differenza di molti vescovi del tempo, uomini di abitudini cittadine poco conoscitori della campagna e dei suoi abitanti. Martino, uomo di preghiera e di azione, percorreva personalmente i distretti abitati dai servi agricoltori, le cui necessità spirituali erano immense, mettendo in pratica la sua grande intuizione: l'evangelizzazione delle campagne. Si rifiutava di vivere in città e a Tours fondò un monastero a poca distanza dalle mura che divenne, per qualche tempo, la sua residenza (da confrontare coi monasterium in Friuli e coi Terapeuti). Martino lottò contro l'eresia ariana, in totale fedeltà alle conclusioni del Concilio di Nicea (325), consentendo di vincerla. Visse fino in età avanzata proseguendo l’attività pastorale e dando prova di santità fino alla fine dei suoi giorni. Fu sepolto nel cimitero pubblico di Tours l’11 novembre 397.
1 commento:
Exhaustive.
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