Nel settembre del 1900 su iniziativa dello psicologo Carl Stumpf nasceva a Berlino il Phonogramm-Archiv, archivio per la conservazione di documenti sonori di musica extra-europea. Un avvenimento straordinario se solo si pensa che l’invenzione di uno dei primissimi strumenti di registrazione sonora, il fonografo, avvenne nel 1877. L’archivio afferiva inizialmente all’Istituto di Psicologia berlinese presieduto da Stumpf stesso per diventare, intorno agli anni 30, parte integrante del Museum für Völkerkunde. Il primo direttore fu Erich von Hornbostel, pioniere nel campo della musicologia comparata (vergleichende Musikwissenschaft), disciplina che nell’ambito dello sviluppo delle scienze storiche e acustiche del periodo si prefiggeva lo studio e la comparazione delle differenti culture musicali. Fu von Hornbostel, anche grazie a sacrifici e investimenti personali, che contribuì in massima parte alla costituzione dell’archivio. Nel 1933, in sostituzione di von Hornbostel, venne nominato direttore Marius Schneider. Il giovane etnomusicologo si ritrovò ad amministrare uno degli archivi musicali più importanti del mondo costituito da circa 30.000 cilindri sonori di registrazioni musicali provenienti dai diversi continenti.
Marius Schneider nacque in Alsazia il primo luglio del 1903. Compì studi musicali in pianoforte e composizione (tra i suoi insegnanti ci furono Alfred Cortot e Maurice Ravel) e musicologici laureandosi con una tesi sulla musica nell’Ars Nova italiana e francese del 300. Nel 1944 si trasferì in Spagna dove insegnò all’Istituto di Musicologia di Barcellona per poi riappacificarsi nel dopoguerra con la Vaterland ottenendo l’abilitazione all’insegnamento presso l’Università di Colonia nel 1955. Nel 1968 si trasferisce ad Amsterdam per insegnare nell’omonima università e diffondere il proprio insegnamento attraverso conferenze tenute in tutto il mondo. Marius Schneider muore in Baviera il 10 luglio del 1982. Sembrerebbe la classica carriera di un qualunque docente universitario di un certo rango. Ci troviamo invece di fronte ad uno degli intellettuali più importanti del 900. Chiariamo subito: non ha mai avuto la fortuna critica e accademica che avrebbe meritato. Soprattutto in Italia. All’Università Schneider si meritò non solo il patetico sorriso saccente dei professori. La Čeka accademica arrivò a boicottarne i testi dai programmi di studio per non parlare degli “avvertimenti” agli studenti ad avvicinare l’etnomusicologia secondo il metodo scientifico del compromesso autore alsaziano. Molte le ragioni di questo ostracismo quasi tutte riconducibili a due motivi principali: primo, l’inevitabile legame di Schneider con la Germania nazionalsocialista in seguito anche alla perentoria e sospetta sostituzione alla direzione dell’Archiv di von Hornbostel. Ricordiamo al lettore, correva l’annus horribilis 1933. Secondo motivo, più metodologico ma non meno politico, fu l’oggetto degli studi di Schneider. Károly Kerényi lo definirà lo studio dei “mitologemi”. Tutta l’opera di Schneider è riconducibile allo studio della mentalità mitica, primitiva ed extra-europea e della relazione che questa intrattiene con la musica, il suono e la sua natura simbolica.
Nel 1991 in un suo celebre testo Roberto Leydi, uno dei più importanti etnomusicologi italiani (autore di quell’avvertimento di cui sopra rivolto personalmente a chi scrive) liquidò frettolosamente il lavoro della scuola berlinese di musicologia comparata in quanto esponenti di una “rivoluzione conservatrice”. Non è questo il contesto per una revisione critica e storica della musicologia comparata ma un’attenta analisi dei fatti avrebbe dovuto evidenziare un contesto storico e culturale ben più complesso. Marius Schneider, non c’è dubbio, fu esponente tout-court della Rivoluzione Conservatrice (RC). Ma non nel senso negativo che si attribuiva al termine. D’altronde una coscienza storica di cosa fosse la RC è conquista culturale piuttosto recente. Se è palese la continuità tra questa e il nazionalsocialismo (il lettore curioso può fare riferimento all’esaustivo testo di Luca Leonello Rimbotti, La Profezia del Terzo Regno, edizioni Ritter) è altrettanto evidente, oggi, che la RC fu un laboratorio ideologico non omogeneo in cui confluirono in modo non sistematico nazional-bolscevichi, pensatori völkisch, leghe giovanili (ad esempio il movimento Wandervogel), istanze filosofiche irrazionali, conservatori, reduci dei Freikorps e movimenti esoterici. Fu anche aspro terreno di scontro tra gli stessi intellettuali. Si pensi solamente al conflitto, dalle conseguenze drammatiche, tra Heidegger e Rosenberg. Pare che fu proprio il personale di Rosenberg per tramite della Nationalsozialistische Deutsche Dozentenbund a respingere l’abilitazione post-dottorale di Schneider a insegnante in quanto «avversario esplicito del nazionalsocialismo». Il progetto culturale di Marius Schneider fu quindi certamente contiguo a quello di altri esponenti della RC come Ludwig Klages, Bergson o Jung ma di certo avverso all’ideologia rosenberghiana. Incentrato sullo studio comparato del mito musicale l’opera di Schneider fu poi ostracizzata nel dopoguerra perché contrastava con un assunto fondamentale dell’ideologia marxiana la quale vedeva nel “mito” «una forma scaturente da una mentalità alogica o pre-logica…un’ideologia regressiva, fondata da una falsa coscienza della realtà» (Giorgio Locchi). Al contrario «il Mito – proseguendo con le parole di Locchi – è l’espressione immediata di una concezione del mondo nuova – originaria e originale – ed insieme designazione di un fine umano al cui servizio la ragione è posta». Oggetto di studio del Mito non può essere quindi la filosofia o la scienza. Non esiste semiosi entro cui crogiolarsi accademicamente perché il significato della parola è perentorio. Con Marius Schneider siamo più dalle parti di una teologia dell’azione sonora che delle scienze umane.
Ma qual’è l’insegnamento di Schneider? C’è un momento nella nostra storia di semplici lettori in cui possiamo fare esperienza del Mito in relazione al suono e alla Musica. I testi di Schneider ci mettono di fronte ad un fatto affascinante e incontrovertibile: ogni narrazione mitica sull’origine del Mondo inizia con un suono e ogni narrazione filosofica termina con la Musica. Si sfogli uno dei suoi testi più celebri, La Musica Primitiva. In principio, ci raccontano, era il Verbo. E il verbo era un suono. Per le Upanisad l’OM è la sillaba creatrice del mondo e il divenire del mondo è garantito dal tamburo di Śiva. I caratteri numerati ebraici dal Sefer Yetzirah corrispondono ad emanazioni sonore divine…e così via. Allo studio sui miti nella musica primitiva segue quello sull’universo simbolico dei suoni. Celebre è il suo studio sui capitelli dei chiostri romanici di San Cugat. Emergono da questo testo i lineamenti di una Tradizione arcaica di corrispondenze segrete tra i suoni e simboli figurativi. Di questa Tradizione Schneider è il più importante portavoce. La musicologia comparata, non si limitò quindi come vuole la vulgata accademica ad assemblare e catalogare semplicisticamente documentazioni sonore. Il percorso di ricerca che lo studioso alsaziano ha compiuto consistette nell’esplicitare i mitologemi musicali, gli archetipi e i simboli sonori. Il mito in Schneider diventa l’a priori, un tutt’uno con «la capacità poetica di mobilitare l’impossibile e di farne un evento» ci racconta Leonello Rimbotti citando Arnold Gehlen: «un evento…irrazionale per principio…non attinge la scientificità e non è controllabile direttamente, ha una sua verità: la certezza…qui però è l’immagine, il fantasma a farsi volàno delle azioni, e la verità trapassa nello stato di una certezza non razionale e tuttavia satura d’esperienza». La verità delle azioni si manifesterà nella storia e per quello che qui ci riguarda nella Storia delle Musiche del Mondo. Il lettore attento sarà colto da un certo sgomento nel trarre le dovute conseguenze dallo studio dell’opera di Schneider, perché, di fatto si tratta di un percorso iniziatico rivelato. Come nella natura del Mito solo chi è disposto a condividerne le istanze si troverà intento a celebrarlo in eterno nel suo lavoro quotidiano. D’altronde ci aveva già avvertiti, con lungimiranza, Elémire Zolla nell’introduzione all’edizione italiana Rusconi de Il Significato della Musica: «…questo sgomento bisognerà bene presto o tardi affrontarlo, comunque, perché l’idea progressista della storia è già stata confutata»
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