Ernesto De Martino: un mistico del fascismo?
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Aggiunto da Adriano Scianca il 6 maggio 2015.
Roma, 6 mag – Esattamente 50 anni fa, il 6 maggio
1965, moriva a Roma l’antropologo e studioso delle religioni Ernesto De
Martino, considerato il “Lévi-Strauss italiano” per i suoi studi sulle
culture ancestrali del meridione d’Italia. Lavori di alto profilo scientifico,
certo, eppure mai disgiunti da quell’intrinseca connotazione politica così
tipica delle scienze sociali del secondo dopoguerra, armi predilette per la
strategia culturale gramsciana messa in atto dall’estrema sinistra con
notevole successo.
Antifascista, iscritto al Pci,
in uno sguardo retrospettivo sulla propria opera l’antropologo spiegherà di
essersi dedicato allo studio del primitivo spinto dalla “tenace avversione per
i fascismi europei”. Questo il De Martino del periodo postbellico.
L’altro De Martino
Desterà allora stupore in molti
appassionati lettori de Il mondo magico o La terra del
rimorso la ricostruzione del pensiero demartiniano degli anni ’30,
dove di tale “tenace avversione” non sembra in realtà esservi traccia. Anzi.
La ricostruzione ex post di inappuntabili
curricula antifascisti non è ovviamente una rarità nella storia di questa
nazione. Il caso De Martino, tuttavia, si presenta come particolarmente
interessante in quanto, nella vita e nel pensiero del giovane studioso delle
religioni, l’ossequio al regime non assume toni di pura formalità esteriore ma
si radica nel cuore di quello che Emilio Gentile ha chiamato “il
culto del littorio”.
Ernesto De Martino nasce a Napoli il 1
dicembre 1908 dal padre omonimo Ernesto, ingegnere delle Ferrovie dello Stato,
e da Gina Jaquinangelo. All’università di Napoli, nel 1932, si laurea con
Adolfo Omodeo con una tesi in storia delle religioni. Stringe contatti con
Benedetto Croce, Raffaele
Pettazzoni e Vittorio Macchioro. Il suo primo libro (Naturalismo
e storicismo nell’etnologia) esce nel 1941. Le scarse notizie biografiche
relative al periodo anteriore al 1945 (le sue opere maggiori escono nel
dopoguerra) finiscono più o meno qui, in genere.
È solo nella cerchia degli specialisti del
settore, e non senza un certo imbarazzo, che, invece, circolano ulteriori
dettagli sul De Martino degli anni ’30. Vediamo di approfondire, allora. De
Martino, abbiamo visto, si laurea nel 1932 con l’antifascista Omodeo. Eppure il
suo percorso è tutt’altro che lineare, in questo senso. La sua biografa Giordana
Charuty, ad esempio, si dice convinta di poter supporre che “il giovane De
Martino aderisce al gruppo napoletano [dei Guf] fin dal suo
ingresso all’università, due anni prima di essere reclutato dal Partito, nel
1930”.
Successivamente entrerà anche nella
Milizia universitaria. In questo momento il suo sguardo sull’elemento primitivo
sembra radicarsi in un più generale interesse per la cultura vitalista del
primo ‘900. De Martino legge infatti Schopenhauer e Nietzsche, Bergson
e Sorel. Rispetto a quest’ultimo, si appassiona al concetto dello
sciopero generale come “mito”: l’uso di questo termine non può non catturare
l’attenzione del giovane studioso di storia delle religioni.
In alcune lettere del 1929, De Martino
riflette sulla necessità di “imbarbarire” l’Europa al fine di
salvarla dalla decadenza, esattamente in linea con le provocazioni lanciate
dagli stessi anni dagli ambienti de “Il Selvaggio”. Chi si è occupato di tali
aspetti del pensiero demartiniano non ha dubbi: Riccardo Di Donato ha parlato
esplicitamente di un “fascismo di sinistra” da parte di De
Martino, scrivendo che l’antropologo, negli anni ’30, “è conformista in
politica. È fascista, non come tutti, ma, se possibile, un po’ di più […]. Egli
è di sinistra, rispetta Giovanni Gentile ma ama Ugo
Spirito”. Gennaro Sasso parla invece di “iperfascismo”.
Giordana Charuty, dal canto suo, spiega senza mezzi termini che, negli anni del
regime, De Martino “si sforza di diventare quello che dopo la guerra verrà
chiamato un intellettuale organico”.
Un fascismo “Universale”
Nel 1932, lo studioso delle religioni
scrive a “L’Universale” di Berto Ricci, in quel momento in
procinto di aprire una redazione napoletana. La lettera – uscita nel numero di
agosto-settembre di quell’anno sulla rivista fiorentina – è densa di “mistica
fascista” in
senso letterale, ovvero di adesione orgogliosamente
irrazionale al fascismo come vera e propria “fede”.
Rispondendo a un articolo del “camerata
Brocchi” – queste le sue parole – De Martino intende esprimere alcune
puntualizzazioni circa “il problema centrale del periodo presente: i rapporti
tra fede e spirito”. Spiega l’antropologo: “Si tratta in qualche modo di
questo: il liberalismo ha ‘ragione’ e il fascismo ha ‘torto’. Il liberalismo
ha, con sé, la civiltà e la tradizione: insomma, la Storia che è storia della
libertà; il fascismo non dispone che di un pugno di uomini d’azione,
professanti delle ‘dottrine’ apertamente retrive, in evidente soluzione di
continuità con questa civiltà e questa tradizione. Ciononostante, pur avendo
oscuramente coscienza di ciò, noi siamo fascisti e saremmo pronti a
versare fino all’ultima goccia del nostro sangue per la rivoluzione. Quando
il pungolo della straordinaria, o meglio diabolica, potenza logica del mondo
che noi ci apprestiamo a combattere ci turba fino al punto di convincerci, noi
preferiamo ‘non pensare’ come se, in questo momento supremo della nostra fede,
l’oblio ci sembrasse caro e desiderabile come una grazia […]. Il fascismo
appare talvolta alle coscienze più sensibili come l’espiazione di una colpa
misteriosa: una volontà tragica di ribellione più che l’affermazione di
programmi precisi”.
Bisogna poi aggiungere che De Martino
collaborò ancora con la rivista di Ricci, stavolta con due articoli firmati nel
marzo 1934 e nel settembre dello stesso anno. In quest’ultimo caso,
l’antropologo fece uscire sul foglio fiorentino un piccolo saggio, Critica
e fede, in cui, parlando della differenza tra filosofia e
religione, scriveva: “Questo carattere propulsivo della religione, questa
sollecitazione entusiastica che deriva dal mito, questa necessità di prolungare
subito l’ideale in un’azione conforme, implicano una concezione della
vita sostanzialmente illiberale. L’uomo di fede pura è intransigente:
chiuso nel suo mito, egli è pronto a scatenare la guerra santa ove qualcuno
minacci la saldezza del suo credo”. Seguiva un vivace attacco alla “critica”,
intesa come pura facoltà raziocinante, antimitica e scettica, con tanto di
riferimento polemico alla crociana “religione della libertà”.
Siamo molto vicini, come si vede, alle
tesi della Scuola di mistica fascista, con cui peraltro lo stesso
Ricci collaborò. Di contatti diretti di De Martino con l’istituto presieduto da Niccolò
Giani non c’è traccia, ma la Scuola non doveva comunque essergli
ignota. In un sommario tratteggiato fugacemente all’inizio dell’opera, infatti,
De Martino verga sei punti da trattare cui in seguito aggiunge un settimo in
cui, spiega Sasso, l’antropologo “citava Mazzini, Julius Evola, il
Manifesto realista, la scuola di mistica fascista”. Certo è che De Martino
dialogò, esattamente su questi temi, con il gruppo di Ricci e che si confrontò,
seppur criticamente, con le tesi dell’altro collaboratore illustre
dell’istituto: Julius Evola.
Contro Evola
In un saggio inedito che stiamo per
esaminare, De Martino critica il neopaganesimo proposto pochi anni prima dal
pensatore tradizionalista con queste parole: “Laddove la Religione civile è già
nata, e si tratta soltanto di acquistarne consapevolezza, le varie religioni
nazionali s’han da fondare con intervento governativo, o con un libro che si
atteggia a Vangelo. In realtà son destinate al
fallimento, come quelle che, in un’età dominata dallo
storicismo, avanzano senza giustificazioni una pretesa antistoricistica”. E
ancora: “Dalla considerazione storica della grandezza del Cristianesimo noi
passiamo alla constatazione della sua attuale insufficienza religiosa. E
proprio dalla giustificazione, in sede storica, di questa religione, noi
ricaviamo il carattere necessario e definitivo della sua decadenza attuale. Non
è perciò senza fastidio che abbiamo, di recente, sentito lanciare le ingiurie
più triviali verso una religione che ha pur salvato durante millenni, e che
ora, all’imperialista pagano, apparirebbe nient’altro che un bluff, ora,
s’intende, che non salva più”. La polemica, come si vede, si incentra su Imperialismo
pagano, il testo del 1928 con cui Evola metteva in guardia il fascismo dal
“pericolo eurocristiano”. Gli argomenti di De Martino contro il testo del
pensatore tradizionalista sono fortemente influenzati dalla sua matrice
idealista gentiliana e, ancor più, crociana. Il cristianesimo, insomma, non va
negato o ingiuriato, quanto piuttosto “superato” dialetticamente.
La nuova religione civile
Le citazioni su Evola sono tratte dal Saggio
sulla religione civile, fatto circolare dattiloscritto in una cerchia
di amici intorno al 1934 e sul quale l’antropologo torna a lavorare fino al
1936 (secondo Sasso per riscrivere il testo alla luce del suo passaggio nei
ranghi dell’antifascismo). Il lavoro è assolutamente illuminante circa le idee
di De Martino a proposito dei rapporti tra fascismo e religione.
Gennaro Sasso, commentando il saggio, ha
affermato con chiarezza che è nel fascismo che, “se lo si fosse pensato e
vissuto in profondità, la religione civile avrebbe per intero dovuto
risolversi”. “Questa che De Martino chiamava ‘religione civile’ – ha spiegato
ancora lo studioso – era […] una religione della comunità, e quindi
del tutto: con la conseguenza che totalitaria, anzi ‘misticamente’ totalitaria,
si richiedeva che fosse la forma statuale capace di adeguarne lo spirito”. Ma
lasciamo la parola al giovane antropologo, che senza mezzi termini afferma : “La
religione civile è il fascismo, ma essa non potrebbe non essere il fascismo
ed essa non potrebbe non essere nata in Italia, nelle forme e nelle modalità
che tutti conosciamo. Non perché l’Italia sia veramente la nazione eletta da
Dio, le altre, invece, reprobe e maledette nel piano provvidenziale; ma perché
l’elezione ci proviene dalla storia, dalla tradizione che è nostra e, in un
certo senso, soltanto nostra e non d’altri. Noi non annunziamo – come già il
nazionalismo – un primato di razza, una civiltà militaristica, un destino
imperiale egoistico e rapace: che allora – se questo fosse il nostro annunzio –
dovremmo sempre temere che altri opponga altra razza, altra civiltà, altro
destino e non saremmo mai sicuri di noi stessi. Noi annunziamo invece un nuovo
contenuto religioso e civile, e, in questo annunzio godiamo di quella certezza
d’essere nel vero e nel bene che può derivare soltanto da un primato che non ci
appartiene per natura, ma che ci deriva dalla Storia, da un’elezione che non è
dono gratuito di Dio ma che procede dalla tradizione, da una verità veramente
nostra, il cui possesso si conserva difendendola e aggiornandola giorno dopo
giorno”.
Il tono, a tratti oscuro e involuto, ci
riporta alla formulazione di una mistica del fascismo universale,
autenticamente romana in quanto priva di ristrettezze particolaristiche e
naturalistiche, ma allo stesso tempo non più, banalmente e antistoricamente,
“pagana”. La Roma cristiana è assimilata e superata, la nuova religione civile
essendo desunta quasi dialetticamente dai suoi precedenti cattolici e pagani. A
tal proposito l’antropologo, dopo aver distinto tra religioni mondane (come il
paganesimo romano) e sopramondane (come il cristianesimo), spiega: “Al presente
è possibile trovare una terza direzione in cui possa svolgersi la coscienza
religiosa dell’umanità. Dal momento che il cristianesimo è ridotto unicamente a
sfruttare la sua forza d’inerzia, è l’ombra di se stesso, il mito del
sopramondo non è più attuale, al sopramondo nessuno ci crede più, ed è
necessario, tuttavia, è possibile tornare a indirizzarla, questa coscienza, nel
primo senso, conservando tuttavia le conquiste realizzate nel secondo senso? Può
sorgere una Terza Roma, che sia terza anche idealmente, come momenti
separati, rispetto a quella pagana e quella cristiana? Ma è già sorta, è la
Roma fascista”.
Il fascismo di pietra
La nuova religione si contraddistingue anche per uno
spiccato senso estetico e architettonico, sulla scorta del nesso poi
individuato da Emilio Gentile tra “culto del littorio”
e “fascismo di pietra”. Spiega De Martino, con parole evocative ma non sempre
lineari: “Via dell’Impero io la sento come espressione architettonica,
materiale e spirituale insieme, del ciclo cosmico. Tutto ritorna, e al tempo
stesso, tutto è irripetibile. Torna il Colosseo? No. C’è qualcosa che
torna dello spirito antico nel modo in cui sento oggi l’Altare della Patria:
ma intanto, in questo mio stato d’animo d’oggi, c’è qualcosa di più e di meglio
dell’esperienza degli antichi. Si badi, di più e di meglio e non soltanto di
diverso: che se il periodo naturale produce solo il diverso, quello spirituale,
lui solo, il meglio: gli astri che descrivono le loro orbite nel cielo, non
migliorano. L’Altare della Patria, come espressione dello spirito, deve essere
qualcosa di meglio del Colosseo. L’orbita degli astri non dura: via dell’Impero
dura”.
De Martino ribadisce inoltre il carattere
marcatamente irrazionale, fideistico, mistico della sua adesione al fascismo:
“Nella Religione civile – spiega – perdersi per salvarsi significa questo:
bisogna perdersi nella disciplina dei ranghi, fondere la propria volontà con
quella del camerata, sentirsi inquadrati nella mortificante squadra di un
manipolo per ottenere, su questa terra, la salvezza dell’anima”.
Il Concordato come strategia anticattolica
L’utilizzo di una tale terminologia a
carattere marcatamente cattolico, ovviamente, pone la questione dei rapporti
tra la religione civile e la religione istituzionale. Argomento, questo, sul
quale De Martino è assai radicale ed esplicito: “Io credo che il cattolicesimo
romano non possa scomparire d’un tratto, ma certo molto facile sarebbe aiutare
la rovina di un edificio che fa acqua da tutte le parti. Io credo, anzi, in un
periodo di transizione in cui il cattolicesimo sarà ‘religione
tollerata’ e la religione civile quella ufficiale. Comunque al lavoro!
Speriamo”.
E ancora: “Lo Stato totalitario è, per
necessità, confessionale e anticattolico. Ma quale sarà la sua
confessione? Perché ne deve avere una. Presto detto:
il carattere religioso della politica, l’opera provvidenziale, la religione
civile, Dio in terra”. Infine, più esplicitamente ancora: “Tuttavia può
accadere che ci sia qualcuno che senta in sé una nuova fede da proferire contro
un’altra antichissima ed illanguidita. Cosa farà? Proclamerà subito la Guerra
santa, nei modi e nei sistemi che tutti sappiamo? Sarebbe estremamente
pericoloso. Piuttosto si ‘accorderà’ con l’altra fede, ma fissando lui le
clausole dell’accordo così abilmente da consentire alla nuova di progredire
nelle coscienze inesorabilmente, senza arroganti proclamazioni di
incompatibilità, anzi con apparenti asserzioni di identità. Nel caso nostro, la
curia romana è tanto debole che vuol essere ingannata. Ma sotto altro rispetto
quella curia è ancora abbastanza forte da vincerci se volessimo combatterla con
altri mezzi se non l’inganno. Inganniamo dunque la curia romana, dopodiché
abbiamo un’altra fede da far valere. Gli accordi del Laterano rappresentano
– io lo credo fermamente – un episodio di lotta politica per far
valere, nei confronti del cattolicesimo romano, la nuova fede della religione
civile. A questo patto soltanto la mia coscienza è disposta ad accettarli. Una
lettura attenta di quegli accordi, e soprattutto dei discorsi di Mussolini, non
può che confermare la mia tesi”.
Intuizioni, speranze, progetti di un altro
“mondo magico”.
Adriano Scianca
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