giovedì 25 luglio 2013

La fine del Paganesimo antico

La battaglia del Frigido e la fine del paganesimo
di Francesco Lamendola - 18/04/2011

Fonte: Centro Studi La Runa [scheda fonte] 




Willem van Nieulandt II (Anversa 1584 – Amsterdam 1635), Paesaggio con rovine romane. Olio su tela, Collezione Fondazione Roma.
Willem van Nieulandt II (Anversa 1584 – Amsterdam 1635), Paesaggio con rovine romane. Olio su tela, Collezione Fondazione Roma.
Sponde del fiume Frigidus (Vipacco), al di qua delle Alpi Giulie, mattino del 5 settembre 394 d. C. Due eserciti, entrambi “romani” di nome, ma in effetti largamenti barbarici per composizione etnica, consuetudini e mentalità, si fronteggiano minacciosamente presso questo affluente dell’Isonzo che, da sempre, costituisce la “porta” per l’invasione dell’Italia da parte di popoli ed eserciti provenienti da Nord e da Est. Si potrebbe pensare – e, per certi aspetti, è proprio così – a uno dei tanti scontri di potere fra imperatori più o meno legittimi, ovvero fra usurpatori e tiranni come ne ha visti tanti la storia del Basso Impero, da Massimino il Trace in poi. Posta in gioco immediata: la grande e ricca Aquileia, sede pochi anni prima (nel 381) di un grande concilio di vescovi cattolici contro l’eresia ariana; obiettivo finale: il possesso di Roma e dell’Italia e, quindi, la signoria assoluta sull’Impero. In realtà, si tratta di una svolta epocale: per l’ultima volta nella storia del mondo antico stanno per darsi battaglia un esercito pagano ed uno cristiano.
Sulle alture, in posizione imprendibile, è appostato l’esercito di Flavio Eugenio, colui che ha restituito ai templi gli antichi sussidi statali, sia pure sotto forma di concessione alle famiglie sacerdotali dei senatori pagani; che ha fatto nuovamente collocare l’Altare della Vittoria, dopo interminabili dispute, nell’aula del Senato; che ha tolto ogni divieto e limitazione alle pratiche dell’antico culto. Eugenio, ex magister scrinii elevato al rango imperiale dal generale franco Arbogaste dopo la morte sospetta di Valentiniano II, il 15 maggio 392, non era un pagano ma un cristiano del partito moderato, che non intendeva certo avviare una persecuzione anticristiana: l’esempio fallimentare di Giuliano del 361-63 (e cioè solo trent’anni prima), era un chiaro ammonimento. Eugenio e Arbogaste avrebbero voluto, casomai, restaurare quel clima di felice tolleranza religiosa, che ancora era stato possibile sotto Valentiniano I, al 364 al 375, e al quale aspiravano di tornare gli spiriti più equilibrati e prudenti dopo la dura politica antipagana della dinastia di Costantino.
Dall’altra parte avanzava l’esercito di Teodosio il Grande, partito tre mesi prima da Costantinopoli per “vendicare” il preteso suicidio di Valentiniano II (suo cognato) e deciso a restaurare l’unità dell’Impero. Teodosio, campione dell’ortodossia cattolica contro pagani e ariani, è stato dominato dalla poderosa figura del vescovo Ambrogio di Milano, che per due volte gli ha imposto – umiliandolo – il volere della Chiesa: quando gli ha fatto rimangiare l’ordine di ricostruire la sinagoga di Callinico (sull’Eufrate) a spese della comunità cattolica, che l’aveva incendiata e distrutta; e quando gli ha imposto pubblica penitenza per la strage di Tessalonica (nel natale del 390), vera e propria vigilia di Canossa. Nel febbraio 390 Teodosio emana l’assoluto divieto del culto pagano in Roma; nell’estate successiva ordina la distruzione del tempio di Serapide ad Alessandria d’Egitto. Nell’aprile del 392 annulla una sua precedente legge che proibiva ai monaci, “gente che si ciba di disordini”, di risiedere nelle città, e ordina di applicare sino in fondo tutti i precedenti editti anti-pagani contro i templi e contro il culto degli dèi: anche se praticati nelle case private, anche se praticati mediante sacrifici incruenti.
Il 5 settembre 394 l’attacco dell’esercito di Teodosio viene respinto e l’esercito orientale, a sua volta, corre il pericolo di essere aggirato e distrutto. Ciò non avviene solo perché un reparto dell’esercito occidentale, sulla cui manovra l’abile Arbogaste aveva specialmente contato, si lascia corrompere e permette, così, alle truppe di Teodosio di salvarsi. Scrive lo storico Corrado Barbagallo: “La dimane (6 settembre) il combattimento fu ripreso. I soldati di Arbogaste avevano tolto dalle loro bandiere il monogramma di Cristo e lo avevano sostituito con l’mmagine di Ercole, cara a Diocleziano e a tutti gli imperatori romani fin dal secondo secolo. Sulla linea della battaglia, come sui passi più minacciati, erano state collocate le immagini di Giove Capitolino, armato di folgore e rivolto contro i nemici. Paganesimo e cristianesimo, Occidente ed Oriente si affrontavano a pie’ delle Alpi in quella giornata storica. E vinse ancora una volta il labaro cristiano! Nembi di polvere, sollevati dalla micidiale bora carsica, paralizzarono, accecarono l’esercito occidentale, che alla fine fu sopraffatto e distrutto. Flaviano che, nella sua qualità di console dell’anno, così come s’era usato nell’antica Repubblica, conduceva uno dei corpi dell’esercito di Occidente, s’uccise; Eugenio, fatto prigioniero, fu decapitato dai soldati; Arbogaste si uccise due giorni dopo”. E lo storico greco Zosimo: “La testa di Eugenio, conficcata su una lunghissima asta, fu portata in giro per tutto il campo (…). Arbogaste, al quale non importava la clemenza di Teodosio, fuggì tra i monti più impervi; ma quando si accorse che quelli che gli davano la caccia perlustravano ogni luogo, si uccise con la spada, preferendo morire con le sue mani piuttosto che essere catturato dai nemici”.
Da quel momento il paganesimo, come forza organizzata, cessò praticamente di esistere. Sopravvisse ancora, e a lungo, come culto marginalizzato, specialmente nelle campagne. Agostino scrisse ilDe Civitate Dei per confutare l’accusa dei pagani còlti, che il sacco di Roma del 410 ad opera di Alarico fosse stato causato dall’ira degli dèi abbandonati; Rutilio Namaziano, nel De Reditu suo (scritto verso il 417) inveisce contro i monaci e leva alti lamenti per la decadenza della Roma pagana. Il cristianesimo, che ancora nel 303-05 aveva dovuto subire la dura persecuzione di Diocleziano e che solo con l’editto di Milano, nel 313, aveva ottenuto il riconoscimento giuridico da parte dello Stato, in soli ottant’anni aveva inferto al paganesimo il colpo di grazia.
Eppure, tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, ebbe luogo una ripresa della cultura classica che molti storici definiscono una vera e propria rinascenza, e parte notevolissima di tale rinascenza si colloca, più o meno esplicitamente, sotto il segno del paganesimo. Come fu possibile che Giuliano imperatore tentasse una restaurazione del paganesimo nel 361 e che, meno di quarant’anni dopo, il paganesimo avesse perduto irrimediabilmente la sua battaglia per la sopravvivenza?
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza, incominciando dalla terminologia. Che cosa vuol dire paganesimo? “Pagano” è colui che non ha aderito al cristianesimo, rimanendo fedele all’antica religione. Ma non c’è, ovviamente, una religione pagana, come vedremo fra poco. E che significa “pagano”? Fino a pochi decenni fa si dava per scontato che “pagano” fosse sinonimo di “rustico” (Baronio, 1586): i villaggi, i pagi, sarebbero stati l’ultimo rifugio del morente paganesimo. Ma oggi gli storici e i filologi non sono più tanto sicuri di questa etimologia. “Pagano” potrebbe essere il civile, il borghese, contrapposto al “soldato di Cristo” (secondo la celebre metafora di Tertulliano). Sia in Tacito che in Svetonio pagani, paganorum sta per “popolazione civile”, in opposizione ai soldati; Plinio il Giovane parla di milites et pagani per indicare “militari e borghesi”. E nel 1952 Christine Mohrmann, sulla base di alcuni testi, propone di intendere “pagani” come “profani”: infatti nel IV secolo la metafora del “soldato di Cristo” non era più tanto diffusa; e, d’altra parte, il culto tradizionale non era ancora un fatto prevalentemente “rurale”. A quell’epoca, inoltre, all’interno del cristianesimo si era pressoché esaurito il “filone” giudeocristiano (formato dai convertiti dal giudaismo) e i cristiani erano quasi tutti “gentili” (dal greco éthnē, ebraico gojim che, nella Bibbia, indica i popoli estranei al patto dell’Alleanza). Perciò quelli che erano stati definiti come “gentili” (e che, nella tradizione bizantina, continuao a essere definiti “elleni”) divennero “pagani”, mentre i cristiani di origine pagana, cioè la quasi totalità, non potevano più riconoscersi come “greci” (cfr. S. Paolo, Romani, II, 9.10), bensì come portatori di una cultura radicalmente e orgogliosamente “altra” rispetto a quella “greca”, cioè pagana.
La nozione di paganesimo è quindi di matrice teologica e riflette l’idea biblica di una Rivelazione rivolta al “popolo eletto”, circondato da una realtà umana qualificata come estranea, aliena, profana: i pagani, ossia “le genti” (Efesini, II,12), “prive di cittadinanza in Israele”. È chiaro che “pagano” è un termine generico, che si riferisce a tutte le religioni non cristiane (giudaismo escluso) della tarda antichità. In Galati, IV, 9, il paganesimo è identificato con una religione naturalistica, che venera le forze cosmiche (sia terrestri che astrali) ritenute capaci di influire sulla vita umana. In contrapposizione al monoteismo biblico, il paganesimo si presentava, specialmente nell’accezione più propria – quella greco-romana – come una religione “etnica”, ossia tramandata con la stirpe e destinata a consolidarla, tenendo viva la tradizione e la memoria degli antenati; e comereligione “politica” che celebra, consacra e cementa l’unità della società civile e la sottomissione dei suoi membri all’autorità, simboleggiata dalla figura dell’imperatore. Quest’ultimo, infatti, è anche Pōntifex Maximus, “capo del collegio dei pontefici”, titolo che conservarono anche i primi imperatori cristiani, Costantino compreso (solo Graziano, 367-383, vi rinunciò formalmente); e che poi passò, ovviamente con altro significato, al vescovo di Roma e ai suoi successori.
Si tengano presenti questi tre aspetti qualificanti del paganesimo dal punto di vista cristiano: naturalismo, religione etnica, religione politica. Secondo F. König, il termine “paganesimo” designa tutte le religioni “sorte dai popoli, dal loro sangue e spirito, e non provenienti da Dio”; secondo N. Turchi, esso indica tutte quelle religioni o religiosità, soprattutto popolari, accomunate dalla credenza nelle virtù degli elementi naturali, con caratteri superstiziosi, animistici, spiritistici, astrologici, in contrapposizione alla fede nel Dio che regna sulla natura e sull’uomo, da lui creati.
Fatta questa necessaria premessa metodologica, diamo un rapidissimo sguardo al panorama complessivo delle religioni non bibliche della tarda antichità. La religione greco-romana sopravvive ormai quasi solo nella dimensione politico-sociale e in quella mitologico-letteraria. La grande crisi spirituale degli ultimi secoli della Repubblica romana l’ha praticamente distrutta come forza viva a livello interiore: ridotta a mero formalismo liturgico, si trascina per forza d’inerzia. I due secoli a cavallo dell’èra cristiana sono stati definiti, dagli storici moderni, come a-religiosi: l’età che va da Lucrezio eCicerone fino agli ultimi Antonini corrisponde a un diffuso agnosticismo, in cui solo i culti misterici (orfici, eleusini, dionisiaci) tengono ancora in vita un legame vero e sentito fra l’uomo e la divinità. Né mancano autori, come Luciano di Samosata (nel dialogo Le sette all’incanto), che si fanno beffe delle varie filosofie pagane e della religione tradizionale.
A partire dalla fine del II secolo arriva nell’Impero Romano la grande invasione delle religioni orientali a carattere soteriologico e tendenzialmente monoteistico, che meglio rispondono alle esigenze spirituali di quella che è stata definita (dallo storico Charles Harold Dodd) un’”epoca di angoscia”, quale fu quella tardo-antica. I culti di Iside e Osiride dall’Egitto, di Cibele dall’Asia Minore, di Mithra dalla Persia fanno irruzione nella società romana e si diffondono a macchia d’olio fin nel cuore dell’Occidente (Gallia e Britannia comprese), specialmente fra gli strati più umili della popolazione e fra l’elemento militare (in particolare il mitraismo). In effetti, nell’Occidente latino si era prodotto in precedenza un autentico vuoto spirituale, anche perchè il druidismo, la più diffusa religione del mondo celtico, era stato distrutto a viva forza dai Romani per ragioni politiche. Generalmente si crede che i Romani siano stato tolleranti nei confronti di tutte le religioniantiche ad eccezione del cristianesimo; ma ciò non è esatto. Oltre al fatto che Diocleziano perseguitò il manicheismo prima ancora del cristianesimo (editto del 296), si dimentica che il Senato romano fin dal 54 d. C. aveva emesso un decreto che aboliva la religione druidica; e che, sette anni dopo, venne lanciata una campagna per debellare le ultime vestigia di essa. Lo scontro finale ebbe per teatro l’siola di Mona (Anglesey), di fronte alla costa nord-occidentale dell’odierno Galles, una delle maggiori roccaforti del druidismo. Secondo il racconto di Tacito, quando le imbarcazioni romane raggiunsero la riva, dai boschi sbucarono sacerdoti druidi dalle lunghe barbe e donne munite di torce, lanciando terribili maledizioni contro gli invasori (Annales, XIV, 30). Ma i soldati romani avanzarono massacrando uomi e donne e macchiando di sangue gli alberi del boschetto sacro. Il comandante Svetonio Paolino stabilì una guarnigione sull’isola col preciso compito di sorvegliare i vinti e abbattere i boschi “consacrati alle selvagge superstizioni dei Celti“. Scrive Tacito: “Tra l’altro[i druidi] ritenevano un sacro dovere cospargere gli altari con il sangue dei prigionieri e consultare gli dèi spiando nelle viscere umane”: “nam cruore captivo adolere aras et hominum fibris consūlěre deos fas habebant”.
Ma torniamo alla penetrazione delle religioni orientali nel mondo tardo romano. Giustamente si è chiesto Franz Cumont, uno dei massimi esperti in materia: “Ma si può parlare di una religione pagana? Il mescolamento delle razze non aveva avuto per risultato di moltiplicare la varietà dei dissensi? L’urto confuso delle credenze non aveva prodotto un frazionamento, una frantumazione di esse, e le compiacenze del sincretismo un pullulamento di sette? ‘Gli elleni, diceva Temistio all’imperatore Valente, hanno trecento maniere di concepire e d’onorare la divinità, che si rallegra di questa varietà di omaggi’. Nel paganesimo, i culti non periscono di morte violenta, ma si spengono dopo una lunga decrepitezza. Una dottrina nuova non si sostituisce necessariamente ad una più antica. Esse possono coesistere per molto tempo, come possibilità contrarie suggerite dall’intelligenza o dalla fede, e tutte le opinioni, tutte le pratiche vi appaiono rispettabili. Le trasformazioni non vi sono mai radicali né rivoluzionarie. Certo, nel IV secolo come precedentemente, le credenze pagane non vi ebbero la coesione di un sistema metafisico o il vigore di canoni conciliari. Vi è sempre una distanza considerevole tra la fede popolare e quella degli spiriti colti, e questa distanza doveva essere grande soprattutto in un impero aristocratico, in cui le classi sociali erano nettamente separate. La devozione delle folle è immutabile come le acque profonde dei mari; essa non è trascinata, né riscaldata dalle correnti superiori. I campagnuoli continuavano, come per il passato, a praticare pii riti presso pietre unte, sorgenti sacre, alberi coronati di fiori, e a celebrare le loro feste rustiche alle semine o alle vendemmie. Essi si tenevano stretti con una tenacia invincibile ai loro usi tradizionali. Questi dovevano persistere, degradati, caduti al livello di superstizioni, sotto l’ortodossia cristiana senza metterla seriamente in pericolo, e se non sono più notati nei calendari liturgici, lo sono qualche volta nelle raccolte di folklore.
“All’altro polo della società, i filosofi potevano compiacersi a velare la religione col tessuto brillante e fragile delle loro speculazioni. Essi potevano, come l’imperatore Giuliano, improvvisare a proposito del mito della Gran Madre interpretazioni ardite e sottili, che erano accolte e gustate in un ristretto cerchio di letterati. Ma queste licenze della fantasia esegetica non sono, nel IV secolo, che un’applicazione arbitraria di princìpi incontestati. L’anarchia intellettuale è allora assai minore del tempo in cui Luciano metteva ‘le sette all’incanto’; un accordo relativo s’è stabilito fra i pagani da quando essi sono all’opposizione. Una sola scuola, il neoplatonismo, regna su tutti gli spiriti e questa scuola non è soltanto rispettosa della religione positiva, come già l’antico stoicismo, ma la venera, perché vede in essa l’espressione di un’antica rivelazione, trasmessa dalle generazioni scomparse. Essa considera come ispirati dal cielo i suoi libri sacri, quelli d’Ermete Trismegisto, d’Orfeo, gli Oracoli caldaici, Omero stesso, soprattutto le dottrine esoteriche dei misteri, e subordina le sue teorie ai loro insegnamenti. Poiché fra tutte queste tradizioni disparate, venute da paesi così diversi e datanti da epoche così differenti, non vi può essere contraddizione, poiché esse emanano da un’autorità unica, la filosofia, ancilla theologiae, si adopererà a metterle d’accordo, ricorrendo all’allegoria. Ed in tal modo si stabilisce a poco a poco, per mezzo di compromessi fra le vecchie idee orientali ed il pensiero greco-latino, un insieme di credenze la cui verità sembra provata da un consenso universale.
“In tal modo, le parti atrofizzate dell’antico culto romano erano state eliminate, mentre elementi stranieri erano venuti a dargli un vigore nuovo, combinandosi e modificandosi in esso. Questo lavoro oscuro di decomposizione e di ricostituzione interna aveva elaborato insensibilmente una religione assai diversa da quella che Augusto aveva tentato di restaurare”.
A proposito del paganesimo còlto, dobbiamo far cenno ai principali sviluppi della filosofia greca dopo Plotino (205-270 d. C.), il massimo esponente del pensiero tardo-antico. Plotino aveva insegnato che l’anima è anzitutto anima cosmica, anima universale, che lega tutte le cose sensibili mediante un rapporto profondo di “simpatia” reciproca e controbilancia la tendenza, propria della materia, a dissolverle e disperderle. È, quindi, nell’anima che s’incontrano tempo ed eternità, o meglio è l’anima che genera il tempo secondo ritmi e pulsazioni. La dottrina dell’anima cosmica e del nesso profondo tra l’anima umana e quella universale da una parte, e quella delle cose sensibili dall’altra, nonché della consonanza e omogeneità tra macrocosmo e microcosmo spinge Plotino a ipotizzare la possibilità della loro comprensione reciproca, in senso profondamente non dualistico. Plotino combatte ogni concezione antagonistica del rapporto tra spirito e natura e ciò lo accosta a correnti del pensiero non duale dell’India antica, quali il Vedanta o lo Yoga di Patanjali. Coincidenze, forse, più che casuali, se è vero – come è vero – che maestro di Plotino era stato quell’Ammonio Sacca (circa 180-242 d. C.) che pare fosse un Indiano della casta dei Sakya (la stessa di Buddha). L’anima, poi – secondo Plotino – si trova di fronte a due vie: quella di lasciarsi irretire dall’interesse per il sensibile, restandone irrimediabilmente appesantita e impastoiata; oppure quella del ritorno e dell’unificazione verso l’intelligibile. In questa seconda strada svolgeva un ruolo fondamentale, secondo l’insegnamento di Platone, l’amore per la bellezza, capace di attarre l’anima verso il mondo delle idee, attraverso e non contro (come invece per il pensiero cristiano) l’eros della corporeità.
I massimi esponenti della scuola neoplatonica sono Porfirio di Tiro (233 o 234-305), Giamblico di Calcide in Celesiria (250 ca.-325 ca.), Proclo di Costantinopoli (410 o 412-485). “Il genio di Plotino – secondo Léon Robin – era fatto dell’intensità della sua vita spirituale. Nulla di simile nel Neoplatonismo posteriore. Esso, al contrario, dissecca il pensiero del maestro, che organizza in una scolastica dotta. Difende contro i cristiani la causa della cultura razionale, di cui la sua filosofia religiosa crede di essere l’erede. Interpreta metodicamente la filosofia classica in conformità con i suoi principi. Infine, fonda su questi un occultismo e una stregoneria filosofiche”. E ancora il Robin, così si esprime sul primo importante successore di Plotino in ordine cronologico, Porfirio. “Dopo avere, nella sua Filosofia degli oracoli e nelle Immagini degli dèi, esposto la sua concezione dei misteri e della salvezza, ed elaborato tutto un rituale teurgico di magia purificatrice, adattò poi le sue concezioni alla mistica di Plotino e scrisse la sua grande operaContro i cristiani di cui questi ultimi, dopo un secolo e mezzo di polemica, ottennero finalmente la distruzione. Tutta questa parte della sua opera è dominata, d’altronde, dalle sue preoccupazioni morali. Così, se egli raccomanda l’astinenza della carne, è perché questa pratica ascetica ha un valore etico di purificazione. Lo stesso dicasi dell’interpretazione dei poeti nel suo Antro delle Ninfe nell’Odissea“.
Porfirio, a differenza di molti altri neoplatonici, mostra una decisa avversione per la magia e mette in dubbio tutta la demonologia della sua scuola. Alle sue obiezioni si risponde con un’opera nota con il titolo, inesatto, Dei misteri degli Egiziani e attribuita, altrettanto erroneamente, al celesiro Giamblico che, sotto Costantino, era considerato il capo della scuola. Secondo Jakob Burckhardt, che ha parlato, a tal proposito, di una vera e propria demonizzazione del paganesimo, qui “si tratta di una mistica del politeismo, i cui dèi sono stati declassati a dèmoni di grado diverso e privati di una precisa personalità. Il contenuto di questo triste pasticcio è, in breve, una elencazione dei diversi modi di adorare, implorare e distinguere questi spiriti, di come il saggio caro agli dèi debba risolversi nel loro culto, e la scuola neoplatonica del IV secolo si dimostra anche troppo indulgente verso questo tipo di degenerazione, tanto da riconoscere nella teurgia un’arma fondamentale nella lotta contro il cristianesimo”. Tale tendenza, peraltro, è già presente fin dal II e III secolo, in opere come La vita di Apollonio di Tiana di Filostrato, che volutamente contrappone la figura del filosofo-teurgo a quella del Cristo; scritto, pare, su suggerimento di Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, in funzione apertamente anti-cristiana. Approfittiamo qui per chiarire, per inciso, che nella cultura greca il dàimon è un essere soprannaturale tanto benefico (come quello da cui si diceva ispirato Socrate) che – più spesso – malefico. Si ricordano, ad esempio, Eurinomo che divora le carni dei cadaveri; Empusa, demone notturno che si nutre di carne umana; Lamia, che divora specialmente i bambini. I primi scrittori cristiani avevano sottolineato questo aspetto negativo per inferirne la malvagità di tutti i dèmoni e, in ultima analisi, di tutti gli dèi del paganesimo: vedi San Paolo che in II Timoteo, 2, 25-26, afferma che il demonio afferra i pagani nei suoi lacci per costringerli a fare la sua volontà; e che, in 1 Corinzi, 10, 20, arriva al punto di sostenere che i sacrifici resi agli dèi sono, in realtà, offerte al demonio.
Secondo Chester G. Starr, Giamblico “è una figura di scarso rilievo a paragone dei grandi teologi cristiani”. Il suo contributo al pensiero di Plotino consiste principalmente nel porre fra il primo Uno e le anime particolari un mondo intermedio dello spirito, presieduto dal secondo Uno e composto da una complessa gerarchia di ipostasi. Inoltre, sotto l’influenza delle credenze orientali, inserisce nella dottrina neoplatonica elementi tratti dagli Oracoli caldaici, contaminandoli con motivi magico-teurgici. In ciò egli è coerente con la convinzione che la filosofia, di per sé, non possa fornire una risposta alla domanda circa il fine ultimo dell’uomo.
Alla tarda scuola neoplatonica appartengono anche Desippo, di cui ci resta un commento alle Categorie; Libanio e Temistio, rètori e studiosi di notevole levatura; Sallustio, il cui libro Sugli dèi e il mondo espone come la filosofia neoplatonica possa servire di base alla religione tradizionale; e l’imperatore Giuliano, uomo di notevole intelligenza e di grande cultura, autore di otto orazioni, un’ottantina di lettere, un’opera satirica (il Convivio) e il Misopogon, difesa della sua opera religiosa e feroce invettiva contro la folla cristiana di Antiochia. Con Proclo giungiamo fin verso la fine del V secolo e, quindi, oltre i limiti cronologici del nostro discorso. Basterà dire che Proclo crea un sistema speculativo entro il quale riesce a fondere organicamente tutte le acquisizioni filosofiche, scientifiche e religiose del mondo antico. Ma nel 396 i Goti di Alarico incendiano il Santuario di Eleusi; nel 415 Ipazia viene assassinata dalla folla cristiana di Alessandria; nel 489 viene chiusa la scuola siriaca di Edessa; nel 529 Giustiniano ordina la chiusura della scuola di Atene e gli ultimi ellenizzanti, ossia partigiani dell’antica cultura, cercano rifugio alla corte del re dei Persiani, un sovrano amico della filosofia: Cosroe.
Vale la pena di soffermarsi sul primo di questi episodi; e, nel farlo, cediamo la penna al grande studioso delle religioni Mircea Eliade, che vi ha scorto un evento epocale.
“Nessun avvenimento storico può meglio indicare la fine ‘ufficiale’ del paganesimo se non l’incendio del santuario di Eleusi, attuato nel 396 da Alarico, il re dei Goti; e d’altro lato, nessun altro esempio può meglio indicare i misteriosi processi di nascondimento e di continuità della religiosità pagana. Nel V secolo lo storico Eunapio, anch’egli iniziato ai Misteri Eleusini, riferisce la profezia dell’ultimo ierofante legittimo: in presenza di Eunapio, lo ierofante predice che il suo successore sarà illegittimo e sacrilego; non sarà neppure cittadino ateniese e, ancor peggio, sarà uno che, ‘consacrato ad altri dèi’, sarà legato al suo giuramento ‘di presiedere esclusivamente alle loro cerimonie’. A causa di tale profanazione il santuario verrà distrutto e il culto delle Due Dee scomparirà per sempre.
“In effetti, continua Eunapio, divenne poi ierofante un alto iniziato ai misteri di Mithra (dove rivestiva il ruolo di Pater); questi fu l’ultimo ierofante di Eleusi, perché poco tempo dopo giunsero, attraverso il passo delle Termopili, i Goti di Alarico, seguiti da ‘uomini in nero’ (i monaci cristiani), e il più antico e importante centro religioso d’Europa fu definitivamente distrutto.
“Tuttavia, se a Eleusi scomparve il rituale iniziatico, non per questo Demetra abbandonò il luogo della sua teofania più drammatica; è vero che, nel resto della Grecia, san Demetrio ne aveva preso il posto, divenendo il patrono dell’agricoltura, ma a Eleusi si parlava – e si parla ancora – di santa Demetra, santa sconosciuta altrove e mai canonizzata. Fino all’inizio del XIX secolo, i contadini del villaggio coprivano ritualmente di fiori una statua della dea, perché essa assicurava la fertilità dei campi, ma, nonostante la resistenza armata degli abitanti, la statua fu rimossa nel 1820 da E. D. Clarke e offerta all’Università di Cambridge. Sempre a Eleusi, nel 1860, un sacerdote raccontò all’archeologo F. Lenormand la storia di santa Demetra: era una vecchia di Atene, cui un ‘Turco’ aveva rapito la figlia, che fu tuttavia poi liberata da un prode pallikar; e nel 1928 Mylonas sentì raccontare questa stessa storia da una nonagenaria di Eleusi.
“L’episodio più toccante della mitologia cristiana di Demetra avvenne all’inizio del febbraio 1940 e fu ampiamente riferito e discusso dalla stampa ateniese. A una fermata dell’autobus Atene-Corinto salì una vecchia, ‘magra e rinsecchita, ma con grandi occhi molto vivaci’; poiché non aveva denaro per pagare il biglietto, il controllore la fece scendere alla stazione seguente – quella di Eleusi, appunto. Ma il conducente non riuscì più a mettere in moto l’autobus e, alla fine, i viaggiatori decisero di fare una colletta per pagare il biglietto della vecchia. Questa risalì sull’autobus, che ora poté ripartire. Allora la vecchia disse: ‘Avreste dovuto farlo subito, ma siete degli egoisti; e già che sono qui, vi voglio dire ancora una cosa: sarete castigati per il modo in cui vivete; vi saranno tolte persino l’erba, e l’acqua!’. ‘Non aveva ancora finito la sua minaccia – continua l’autore dell’articolo pubblicato sull’Hestia - ed era scomparsa… Nessuno l’aveva vista scendere. E si andò a riguardare il blocchetto dei biglietti per convincersi che era veramente stato staccato un biglietto.
“Riportiamo a mo’ di conclusione, la cauta osservazione di Charles Picard: ‘Credo che, dinanzi a questo aneddoto, gli ellenisti non potranno fare a meno di ritornare con la memoria a certi passi del celebre Inno omerico, dove la madre di Kjore, tramutatasi in vecchia nel palazzo del re eleusino Celeo, profetizzava anche in quell’occasione e – rimproverando gli uomini per la loro empietà – annunciava, in un impeto di collera, terribili catastrofi in tutta la regione.”
Nell’Occidente latino vi è pure una certa fioritura filosofico-letteraria della cultura pagana nel IV e V secolo, anche se meno profonda e originale, sul piano strettamente specultativo, di quella del mondo greco-orientale. Si segnalano storici vigorosi come Ammiano Marcellino, poeti come Decimo Magno Ausonio (un cristiano assai tiepido, impregnato di cultura classica), Claudio Claudiano e Rutilio Namaziano; oratori come Quinto Aurelio Simmaco; traduttori e commentatori di opere filosofiche come Vettio Agorio Pretestato, G. Mario Vittorino e Virio Nicomaco Flaviano (traduttore della già citata Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato e caduto, come si è detto, nella battaglia del Frigido); grammatici come Elio Donato ed eruditi come Ambrosio Teodosio Macrobio e Marziano Felice Capella. Vi è un momento, verso gli anni ’80 del IV secolo, in cui la bilancia fra cristianesimo in ascesa (ma lacerato da feroci lotte interne: “lotte di bestie feroci”, scrive Ammiano Marcellino) e paganesimo declinante (ma ancora relativamente forte, specie nell’Occidente latino) sembra sospesa in equilibrio. È in tale contesto che si colloca la disputa sull’Altare della Vittoria, in cui si affrontano – a distanza – due fra i massimi esponenti delle rispettive culture e religioni: il vescovo di Milano, Ambrogio, e il prestigioso oratore e scrittore Quinto Aurelio Simmaco, praefectus Urbi al tempo dell’imperatore Graziano (384-385).
Nell’aula della Curia era stata posta da Augusto la statua della Vittoria (come riferisce Dione Cassio), presso l’omonimo altare, e vi era rimasta (affermanoSvetonio, Lampridio, Erodiano) fino al IV secolo. Ai suoi piedi i senatori usavano bruciare l’incenso, eseguire della musica durante i sacrifici, prestare giuramento. Rimossa, per breve tempo, all’epoca della visita a Roma di Costanzo, nel 357; ricollocata subito dopo o, al più tardi, sotto Giuliano (361-363); era stata rimossa in maniera formale per volere dell’imperatore Graziano nel 382, nel contesto di una più ampia legislazione anti-pagana (abolizione della carica di Pontifex Maximus; abolizione delle immunità e delle sovvenzioni statali alle Vestali e ai collegi sacerdotali). Da Roma, allora, parte per Milano (allora capitale della pars Occidentis) una delegazione di senatori per chiedere la revoca del provvedimento: Graziano, su consiglio di Ambrogio, non la riceve nemmeno. L’anno dopo, il 383, l’imperatore cade assassinato – a Lione – per mano dell’usurpatore Massimo; il nuovo imperatore, Valentiniano II, è un bambino dodicenne che a stento riesce a conservare l’Italia, sotto la tutela della madre Giustina (ariana e, perciò, nemica di Ambrogio. Il debolissimo sovrano, per reggersi in qualche modo, deve appoggiarsi anche sull’ancor forte elemento pagano: sono pagani i comandanti militari Bautone e Rumorido; il prefetto di Roma, Vettio Agorio Pretestato; il prefetto del Pretorio, Quinto Aurelio Simmaco. Così, nel 384, una seconda delegazone senatoria parte per Milano e Simmaco può leggere la sua orazione davanti al consistorium e alla presenza dell’imperatore. Orazione che risulta così abile e pacata, che gli stessi membri cristiani del Sacro Consiglio sembrano profondamente scossi e propensi non solo a cedere alla richiesta che la statua venga ricollocata in Senato, ma che gli stessi editti anti-pagani di Graziano siano abrogati.
“Restauriamo, quindi, i riti e i culti , che così lungamente protessero il nostro Stato. Possiamo certo noverare prìncipi seguaci dell’una e dell’altra fede: d’essi, i primi han professato la religione dei padri, altri, più vicini a noi, pur non professandola, non l’hanno soppressa. Ora, se non serve a voi d’esempio la religione dei primi, vogliate almeno ispirarvi alla tolleranza di quegli altri”. (“Si exemplum non facit religio veterum, faciat dissimulatio proximorum”). Un discorso, dunque, tutto ispirato al valore della tolleranza, della pacificazione. Ma la reazione di Ambrogio è immediata e durissima. Scrive una prima lettera al’imperatore-bambino, chiedendo – di fatto, ordinando – di avere copia della relazione di Simmaco, onde poterla studiare con calma (lettera XVII): “Ond’è che, poiché devi riconoscere che accogliere le richieste dei gentili vuol dire recare offesa innanzitutto a Dio e quindi a tuo padre e a tuo fratello [entrambi defunti], chiedo che tu faccia solo ciò che può giovare alla tua salvezza presso Dio.” (“Unde cum id advertas, imperator, deum primum, inde patri et fratri iniurias irrogari, si quid tale decernas, peto ut id facias, quod saluti tuae apud eum intelligi profuturum”). Una minaccia, dunque, neanche tanto velata; oltre che una strumentalizzazione della politica religiosa di Valentiniano I, improntata a larga ed energica tolleranza. Quindi, avuta dalla cancelleria imperiale copia della relatio di Simmaco, Ambrogio indirizza una seconda e più lunga lettera a Valentiniano II (la XVIII), ancor più energica: “E invero, a chi asserisce che non seguendo una sola via è dato penetrare nei segreti recessi dell’Essere, così replichiamo: quel che voi ignorate, noi l’abbiamo appreso dalla voce stessa di Dio; e quel che cercate per incerte vie, noi sappiamo in modo certo dalla stessa sapienza e verità divina”. (“Quod vos ignoratis, id nos dei voce cognovimus. Et quod vos suspicionibus quaeritis, nos ex ipsa sapientia dei et veritate compertum habemus”). E prosegue: “Ma, a sentir Simmaco, son da restituire i simulacri ai loro altari, i loro ornamenti ai templi. Ora, perché non chiedono i gentili coteste cose a quei ch’anno le stesse loro superstizioni? Un imperatore cristiano non può onorare che l’altare di Cristo”. (“Christianus imperator aram solius Christi didicit honorare”). Perché vogliono costringere mani pie e labbra fedeli a porsi a servizio dei loro sacrileghi culti? Risultato: anche questa volta le speranze dei senatori pagani finiscono deluse: la statua non viene ripristinata nella Curia.
Su questa vicenda Fabrizio Canfora, curatore di un’utile monografia per i tipi dell’editore Sellerio (citata in bibliografia), opera una sottile distinzione fra intolleranza repressiva (quella dei pagani contro i cristiani dei primi tre secoli) e intolleranza liberatrice (quella dei cristiani che, diventati padroni dello Stato, son costretti a negarla a quelle forze conservatrici – i pagani – che non accettano l’idealità nuova, la più viva e intensa spiritualità, il messaggio sociale rivolto a sollevare le masse dalla loro condizione subalterna portato, appunto, dal cristianesimo. Perché “l’intolleranza liberatrice” è la sola via che conduce – afferma -, nelle società umane, alla riduzione e all’eliminazione progressiva di forme storicamente determinate di discriminazione, di servitù. Vengono in mente, davanti a questi argomenti di Canfora, quelli con cui Lenin giustifica lo scioglimento dell’Assemblea Costituente nel 1917 (che aveva sonoramente bocciato i bolscevichi e premiato, invece, i socialrivoluzionari) in nome di una democrazia proletaria più avanzata della vecchia e “superata” democrazia borghese. Fabio Canfora conclude, infatti, testualmente: “è evidente che tollerante è Simmaco, ma d’una tolleranza, come s’è definita, repressiva; che intollerante è Ambrogio, ma d’una intolleranza, per i problemi e le istanze dei suoi tempi, liberatrice”.
Che dire di una tale interpretazione della vicenda relativa all’Altare dell Vittoria? Secondo noi, è possibile consentire alle tesi di Canfora ad una sola condizione: quella di accettare, manicheisticamente, l’assoluta superiorità morale e sociale del cristianesimo (ma quale? quello dei Vangeli o quello di Ambrogio? e quello dei Vangeli canonici o quello dei Vangeli gnostici?) di fronte a un paganesimo identificato con quanto di peggio (imperialismo, schiavitù, violenza) aveva prodotto il mondo antico. È la tesi, parecchio semplificatrice, di Leopoldo Montanari: “La rivoluzione cristiana consiste in questo: essa ha creato un nuovo tipo di uomo, radicalmente diverso da quello antico… L’uomo vecchio è l’uomo-istinto, l’uomo-animale da preda, che considera l’esistenza una lotta continua di tutti contro tutti, e che vede nella guerra l’attività più nobile e più alta. Questo tipo di uomo si formò nelle età più antiche, quando (…) il guerriero diventò l’uomo-modello, il tipo di uomo più perfetto da imitare, e il coraggio, la forza fisica, l’astuzia, la durezza spietata, la crudeltà si affermarono come le doti più importanti e più pregevoli. Questi ideali furono ereditati e conservati anche dalle grandi civiltà antiche. Roma e la Grecia si educarono leggendo l’Iliade di Omero, il poema della guerra, degli odî, delle vendette feroci, delle ire implacabili. Il cristianesimo si oppose radicalmente a tali idee e creò un nuovo ideale di uomo. L’uomo cristiano è l’uomo-spirito, cioè un essere che non è solo istinto ma anche e soprattutto anima. L’esistenza non deve essere una lotta di tutti contro tutti, ma un lavoro concorde, compiuto per sopportare con minor pena le fatiche inevitabili che la vita stessa ci porta, e per affrontarne insieme i problemi. L’uomo nuovo, perciò, ci propone come modello non più il guerriero, ma il lavoratore. Gesù non era forse un falegname e i suoi primi seguaci, pescatori e contadini? Le virtù da ammirare e seguire non sono la forza, il coraggio e l’eroismo guerrieri, ma la pazienza, la laboriosità, il cuore puro, l’umiltà, il senso della giustizia. All’ira vendicativa, tanto celebrata dai poeti classici, si contrappone l’amore e il perdono…” (da L. Montanari, Storia e civiltà dell’uomo, Bologna, 1967, vol. 1, p. 286).
Semplificazioni e generalizzazioni eccessive ci sembrano alla base di questo ragionamento: come se il cristianesimo, fin dai suoi esordi quale religione organizzata, fosse stato un radicale e improvviso voltar pagina; come se, nella sua storia primitiva, non si trovassero innumerevoli passaggi che testimoniano come non tutta la purezza, l’innocenza e la mansuetudine fossero sempre e solo dalla sua parte; mentre il paganesimo (come vorrebbe San Paolo nell’Epistola ai Romani) non fu solo e unicamente una sentina dei più turpi vizi che l’umanità abbia mai nutrito in seno. Vogliamo ricordare che, nella contesa per l’elezione pontificale del 384, i partigiani dei due opposti candidati, Damaso e Ursino, al termine di scontri sanguinosi lasciarono decine di cadaveri sulle strade e nelle chiese di Roma? Che ad Alessandria d’Egitto, verso il 415, i cristiani della città assassinarono con crudeltà inaudita, scorticandola con gli orli taglienti dei gusci d’ostrica, la filosofa Ipazia, personaggio tanto puro ed eccelso della cultura neoplatonica che il vescovo Sinesio di Cirene (cresciuto alla sua scuola), nonostante la differenza di fede, l’aveva chiamata “sorella, madre, amica e maestra”? E che nel 383 la Chiesa cattolica aveva inaugurato la tragica e millenaria tradizione di mandare al rogo i suoi membri considerati eretici, bruciando tra le fiamme Priscilliano di Avila sotto l’accusa di magia e manicheismo? No, decisamente non è per via empirica (e nemmeno, secondo noi, per via teorica) che si può legittimamente parlare di intolleranza liberatrice, espressione intrinsecamente contraddittoria e politicamente inaccettabile (vorremmo dire di più: radicalmente anticristiana e non solo per la giustificazione della violenza, ma per la sua tortuosa apologia). Del resto, la storia viene scritta ai vincitori: e Teodosio, con gli editti anti-pagani fra il 380 e il 390, aveva spento con la forza il paganesimo. Che poi esso fosse già languente per propria debolezza, è altra questione; ma non si può dire che la sua auto-consunzione fosse certa, se ancora nella più tarda antichità era in grado di esprimere figure notevoli quali PorfirioGiamblico e Proclo. Potremmo dissertare all’infinito circa le rispettive virtù e i rispettivi limiti delle due religioni, ma sarebbe un esercizio intellettuale gratuito; l’unica cosa che potremmo dire è che non sarebbe storico confrontare il cristianesimo deiVangeli con il paganesimo ignorante e superstizioso del IV o V secolo. Anche il cristianesimo dei primi secoli ebbe, specialmente dopo Costantino, le sue folle ignoranti e superstiziose: quelle, per intenderci, che incendiarono il Serapeion di Alessandria e che distrussero la celebre biblioteca, uno dei massimi monumenti della cultura antica. Si può anzi affermare che fu proprio l’opera dei monaci del deserto, capaci di infiammare e scatenare le folle cittadine, a fare del cristianesimo una religione delle masse e a dargli, in tal modo, quella carica di aggressività e quella intensità di consensi che gli avrebbe assicurato la vittoria finale. Ma è noto che le religioni, come le culture, non scompaiono mai del tutto; larghi elementi della cultura e della religione pagana penetrarono nel cristianesimo, specie attraverso il platonismo, tanto da formare con esso un tutto unico e indistinguibile. Nasceva così, sullo scorcio del mondo antico, l’Europa cristiana: ma le sue radici non erano solo giudeo-cristiane, bensì anche greco-romane, come l’esempio del culto di santa Demetra – riferito da Mircea Eliade – bene illustra. Tanto a livello delle persone colte che a livello della cultura popolare, il paganesimo non è mai morto: si è semplicemente trasformato.
Appendice: Una vittoria miracolosa
“La battaglia del fiume Frigido durò vari giorni e sembrò più volte sul punto di risolversi a favore di Flavio Eugenio. All’improvviso, però, un forte vento mise in difficoltà l’esercito ribelle e consegnò la vittoria all’imperatore: un chiaro segno del favore divino, secodo gli storici cristiani che consideravano la battaglia come uno scontro tra la superstizione e la vera fede. Ecco come il monaco Rufino (345-410 circa) ricorda l’episodio.
“Per molto tempo la vittoria fu incerta. I barbari che prestavano il loro servizio nell’esercito romano erano allo sbando e fuggivano di fronte al nemico. Ciò non avvenne affinché Teodosio fosse vinto, ma perché non sembrasse vincere grazie ai barbari.
“Teodosio, quando vide le sue schiere in fuga, in piedi su un’alta roccia da dove poteva vedere ed essere visto dai due eserciti, dopo aver posato le armi, fece ricorso all’aiuto che gli era più familiare e, inginocchiato davanti a Dio, disse: ‘Dio onnipotente, tu sai che io ho ingaggiato questa battaglia nel nome di Cristo tuo Figlio, per compiere una vendetta che ritengo giusta: se non è così puniscimi. Ma se sono giunto fin qui per una causa degna di lode e fidando in te, aiuta i tuoi. Fa’ che i popoli non debbano dire: Dov’è il loro Dio?’
“A stento gli empi crederanno a ciò che accadde. Ma è provato che, appena l’imperatore rivolse a Dio questa preghiera, si alzò un vento così forte che le frecce de nemici tornavano su chi le aveva scagliate. Poiché il vento soffiava senza tregua con grande violenza, qualsiasi giavellotto lanciato dal nemico andava a vuoto; e così l’animo dei nemici fu spezzato o piuttosto divinamente respinto. Eugenio fu portato ai piedi di Teodosio con le mani legate dietro la schiena. Fu quella la fine della sua vita e della battaglia. (Rufino, Storia ecclesiastica.)
Tratto da PALAZZO, M. –BERGESE, M., Clio Reporter, La Scuola, 2002, vol. 2, p.54.
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