martedì 8 novembre 2022

Il vischio e la melagrana i frutti che segnano la discesa agli inferi

Siamo tutti alla ricerca del ramo d'oro come Enea nel sacro bosco di Diana, presso Cuma



di Francesco Lamendola - 01/10/2008 da Arianna Editrice

Vi è un episodio, nel VI libro dell'Eneide, che da sempre attira la curiosità dei lettori, per l'atmosfera arcana e misteriosa lo pervade; tanto che il celebre etnologo scozzese James G. Frazer vi si ispirò per la stesura della sua opera monumentale The Golden Bough, in dodici volumi (1911-1915). 

È l'episodio, appunto, del «ramo d'oro»: un misterioso ramo d'albero, senza il quale l'eroe troiano non avrebbe mai ottenuto da Plutone e Proserpina l'accesso ai regni dell'Ade, ove desiderava recarsi per incontrare l'anima del padre Anchise e apprendere da lui il destino che lo avrebbe atteso dopo l'arrivo nel Lazio.

La Sibilla Cumana, interpellata in proposito, era stata molto chiara, parlando per ispirazione del dio Apollo (Aen., VI, 136-148):

 

     … Latet arbore opaca

aureus et foliis et lento vimine ramus,

Iunonis infernae dictus sacer; hunc tegit omnis

lucus et obscuris  claudunt convallibus umbrae.

Sed non ante datur telluris  operta subire,

auricomos quam qui decerpserit arbore fetus.

Hoc sibi pulchra suum ferri Proserpina munus

instituit; primo avolso non deficit alter

aureus et simili frondescit virga metallo.

Ergo alte vestigia oculis et rite repertum

carpe manu; namque ipse volens  facilisque sequetur,

si tefata vocant; aliter non viribus ullis

vincere nec duro poteris convellere ferro.

 

Diamo qui di seguito la traduzione di Enzio Cetrangolo (Virgilio, Eneide, Sansoni Editore, Firenze, 1988, p. 243):

 

Nascosto in un albero folto è un ramo che ha foglie

d'oro e il gambo flessibile, sacro a Prosèrpina;

tutta la selva lo copre e fitte ombre lo cingono

di convalli. A nessuno è dato di entrare nei regni

segreti se prima non svelle quell'aureo germoglio.

La bella Prosèrpina vuole che a lei si riserbi

Questo tributo; al primo staccato non manca il secondo

d'oro anch'esso, e il ramo di foglie d'oro si veste.

Dunque ben addentro osserva con gli occhi e trovatolo,

come il rito prescrive, staccalo con la tua mano;

quello da sé docilmente verrà alla tua mano

se il fato ti elegge, altrimenti non forza ti giova

a piegarlo, né duro ferro a strapparlo.

 

Udito il vaticinio del Dio, Enea, accompagnato dal fido Acate, lascia pensoso l'antro dalle cento porte della Sibilla. Dalla sacerdotessa ha appreso, inoltre, che il cadavere di un suo compagno giace insepolto sul lido, e che deve trovarlo per rendergli onorevoli esequie sulla pira funebre; infine, dovrà compiere un sacrificio di pecore nere, sacre agli dei dell'Averno, per propiziarsi la temeraria impresa.

Per prima cosa, i due compagni s'imbattono proprio nel corpo di Miseno, precipitato in mare da Tritone, geloso della sua abilità nel suonare la tromba; poi, mentre - con gli altri Troiani - gli apprestano le esequie, Enea leva una preghiera affinché un segno gli mostri ove cercare il misterioso ramo d'oro, nel fitto della foresta di frassini e querce.

Ed ecco che la sua invocazione viene esaudita: compaiono due bianche colombe, uccelli sacri a Venere (la madre dell'eroe), che lo guidano fino al recesso ombroso ove cresce il ramo d'oro, che Enea riesce a svellere - benché esso sia inspiegabilmente resistente - senza eccessiva difficoltà (Id., 199-211):

 

pascentes illae tantum prodire volando,

quantum aciem possent oculi servare sequentum.

Inde ubi venere ad fauces grave  olentis Averni,

tollunt se celeres liquidumque per aëra lapsae

sedibus optatis gemina super arbore sidunt,

discolor unde auri per ramos aura refulsit.

Quale solet silvis brumali frigore viscum

fronde virere nova, quod non sua seminat arbos,

et croceo fetu teretis circumdare truncos,

talis erat species auri frondentis opaca

ilice, sic leni crepitabat brattea vento.

Corripit Aeneas extemplo avidusque refringit

cunctantem et vatis portat sub tecta Sibyllae.

 

Sempre nella traduzione di Enzio Cetrangolo (Op. cit., pp. 245-47):

 

Quelle a volo beccando tanto andavano innanzi

quanto gli occhi potessero intenti guardarle.

E quando alla bocca del livido Averno pervennero

veloci si levano a volo e dal limpido aere calando

si posan su l'albero strano, di doppia natura,

donde rifulse tra i rami un vivido d'oro

scintillio. Quale d'inverno il vischio nei boschi

di nuova fronda si veste che in altro albero ha il seme

e i lisci tronchi circonda di gialle sue bacche,

tale su l'ìlice nera sembrava dell'oro la fronda,

così crepitava al vento lieve la lamina.

Enea in fretta la prende e la stacca bramoso

mentre quella esitava e la reca nell'antro

all'indovina Sibilla.

 

Che il ramo d'oro fosse un ramo di vischio, pianta sacra nell'ambito varie religioni antiche (basti pensare, nel caso dei Celti, al druidismo), non è detto chiaramente; Virgilio si limita a paragonarlo a un ramo di vischio. La cosa, del resto, in questa sede non c'interessa, benché abbia affaticato la curiosità di molti insigni filologi classici.

Quello che ci preme evidenziare, è il significato simbolico che l'intero episodio riveste, in un contesto volutamente allusivo e misteriosofico; preludio ad altre e non meno impegnative allegorie,  delle quali è intessuta la discesa di Enea nell'Averno. Del resto, chi abbia visitato il monte di Cuma e percorso la lunga galleria che lo perfora, scavata nella viva roccia e adducente a un  vasto locale che era l'antico santuario sotterraneo della Sibilla,  ha di certo provato quel fremito arcano cui non sfugge il lettore del libro VI dell'Eneide, e che ha ispirato in gran parte il viaggio oltremondano di Dante nella sua Divina Commedia.

Virgilio, come appare dalla sua concezione del destino delle anime dopo la morte, era imbevuto di dottrine orfico-pitagoriche, ed anche notevolmente aperto (si veda la IV Egloga delle Bucoliche) al clima di aspettativa generalizzata di tipo messianico e soteriologico (cfr. anche il nostro saggio Il culto di Virgilio nel Medioevo, pubblicato nel quarto volume degli Atti della Società «Dante Alighieri» di Treviso, e consultabile anche sul sito di Arianna Editrice).

Ciò su cui vogliamo riflettere in questa sede, tuttavia, non è il significato magico e religioso del «ramo d'oro» nel poema di Virgilio, quanto coglierne la dimensione iniziatica e simbolica a-temporale; e, quindi, il suo possibile significato anche per noi, cittadini - dal punto di vista materiale - di una società di massa dai ritmi sempre più frenetici, tali da distrarci in misura sempre maggiore dalla nostra interiorità e da un legame armonioso col mondo.

E, innanzitutto: che cosa può rappresentare il concetto del «ramo d'oro», non come simbolo iniziatico specifico (sia esso un ramo di vischio o di qualunque altra natura), ma come metafora di una clavis universalis mediante la quale accedere ai livelli profondi della realtà, quelli che sfuggono all'osservatore distratto, ma dai quali - in realtà - dipende l'orientamento fondamentale della nostra vita e, quindi, il nostro destino?

E, prima ancora: vi è bisogno di una siffatta clavis universalis; oppure tutto quel che serve, per affrontare il viaggio della vita, sono un discreto spirito pratico, una istintiva capacità di operare scelte e prendere decisioni, nonché una certa dose di sano buon senso?

Partiamo da questo secondo punto.

Non crediamo che lo spirito pratico, l'istinto e il cosiddetto buon senso - che è poi il mero senso comune -, siano sufficienti; e non perché la vita, oggi, sia divenuta particolarmente complicata (cosa, peraltro, innegabile), quanto perché la vita in se stessa, in qualunque società e circostanza, è sempre una avventura molto più complessa e ricca di possibilità - positive e negative - di quel che generalmente si creda e si ammetta.

Talmente complessa, che non sono poche le persone le quali non fanno in tempo ad impadronirsi nemmeno dei suoi meccanismi più semplici, prima che sia giunta, per esse, la fine del viaggio. Anche da ciò, crediamo, è nata, nel contesto di svariate culture, l'idea della reincarnazione o quella delle rinascite (concetti distinti, ma quasi sempre equiparati, se non addirittura confusi, nel linguaggio comune): non parendo sufficiente, in molti casi, il tempo di una vita umana per comprendere e attuare neppure gli elementi essenziali dell'arte di ben vivere.

Infatti, imparare a vivere è un'arte; ed è un'arte che non può essere insegnata - sebbene sia sempre possibile elargire dei buoni consigli -, ma solo sperimentata su se stessi, consumandola - in parte o anche del tutto - proprio nei reiterati tentativi di apprenderla. In questo sembrerebbe esservi un qualcosa di paradossale: perché l'idea dell'apprendimento, di norma, si accompagna all'idea che le cose imparate siano «spendibili» (come si usa dire, tradendo nel vocabolario la filosofia economicistica oggi dominante) in vista di un fine ulteriore; e non già che l'apprendimento stesso consista nell'esaurimento di ogni ulteriore possibilità d'iniziativa.

Però la contraddizione è più apparente che reale, perché l'arte di imparare a vivere si impara - se la si impara - vivendo; e quindi non vi sono un prima e un dopo, nettamente distinti; vivere e imparare a vivere sono due cose che procedono insieme.

Ciò detto, resta la prima domanda che ci eravamo posta: se, cioè, sia davvero necessario comprendere l'uso di uno strumento di lettura generale della realtà, dal momento che non basta semplicemente, procedere con il buon senso e la «normale» esperienza della vita stessa. Purtroppo, quest'ultimo concetto significa, molto spesso, né più né meno che abituarsi a ripetere sempre i medesimi errori, senza imparare mai nulla; ed è per questo che una «chiave» di accesso ai significati profondi della vita risulta, effettivamente, indispensabile. 

O, almeno, lo è se si desidera vivere in maniera non superficiale, ma con piena consapevolezza delle grandi responsabilità e delle amplissime possibilità che il fenomeno «vita»ci offre, purché non ci accontentiamo di soffermarci nei suoi livelli più elementari ed inferiori, ma avvertiamo l'esigenza di spingerci un poco più avanti.

In questo senso, come dicevamo, imparare l'arte di vivere corrisponde a una vera e propria iniziazione, ossia a una cerimonia di passaggio che introduce da un piano di realtà ad un altro; nel nostro caso, dal piano del contingente e del relativo, a quello dell'assoluto e del necessario.

 

Ora, l'iniziazione è una cosa che non è possibile darsi da sé; la si riceve; però, al tempo steso, è ben vero che la può ricevere solo chi ne sia veramente degno e che vi sia, in qualche modo, preparato ed in grado di accoglierla. Questo, crediamo, si cela dietro il significato allegorico che non basta aver trovato il ramo d'oro - impresa già di tutto rispetto -, ma bisogna anche essere in grado di svellerlo dall'albero su cui cresce (che è di tutt'altra natura), per essere degli iniziati: cosa che in nessun modo si può ottenere mediante un puro atto di forza.

Negli antichi Misteri - in quelli Eleusini, ad esempio - l'iniziazione veniva somministrata da un sacerdote o, comunque, da una persona che era già stata, a sua volta, iniziata. Nella società contemporanea, l'iniziazione può venire da una persona (non necessariamente da un iniziato nel senso tecnico del termine), ma anche da una situazione o da un complesso di circostanze. Il concetto fondamentale è che, quando un individuo è pronto per il passaggio ad un livello superiore di consapevolezza, sono le circostanze stesse a chiamarlo. Il profano dirà che quelle circostanze sono state casuali; ma la verità è che il caso non esiste, e che noi veniamo chiamati allorché siamo pronti, e non un minuto prima.

Un altro concetto fondamentale è che l'iniziazione segna bensì il passaggio a un livello più elevato di consapevolezza, ma anche la capacità e la possibilità di fare ritorno, arricchiti e illuminati da tale esperienza, al livello della vita cosiddetta ordinaria. Vi sono, pertanto, sia un movimento di ascesa, che uno di discesa; una andata  e un ritorno. 

Il vero iniziato non è colui che sa solamente partire, ma colui che ha appreso anche l'arte di ritornare. Ritornare fra gli uomini; ritornare fra le cose di ogni giorno, ma con un altro livello di consapevolezza

Ecco perché l'iniziato non si riconosce facilmente di primo acchito; e chi si atteggia a tale, certamente non lo è. Il vero iniziato è in grado di fare esattamente le stesse cose che fanno tutti gli altri esseri umani, però le fa con uno spirito diverso e con una diversa prospettiva.

 

Esistono, storicamente, diversi tipi di iniziazione.

Qualcuno si è preso la briga di raggrupparli in tre grandi categorie:  l'iniziazione tribale, che segna il passaggio dall'infanzia all'età adulta;  quella misterica, che ricerca le vie dell'altrove e dà accesso ai poteri soprannaturali; infine, per i cristiani,  quella cristica, che prevede una uscita dal mondo, ma anche un ritorno: esattamente come fece Gesù  quando - terminato il ritiro nel deserto, al principio della sua vita pubblica - ritornò fra gli uomini, dopo avere affrontato e vinto le tentazioni demoniache.

E il ritorno è sempre motivato da uno spirito di servizio e di altruismo nei confronti degli altri esseri umani.

Ecco, allora, che abbiamo forse trovato quella clavis universalis di cui andavamo alla ricerca, e che abbiamo compreso il significato riposto dell'allegoria del «ramo d'oro»: si tratta, né più né meno, dell'amore, inteso come apertura totale nei confronti dell'Essere e come assoluta docilità e disponibilità nei confronti del suo progetto cosmico.

 

Il domenicano Philippe-Emmanuel Rausis, nel suo libro L'iniziazione (titolo originale: L'initiation, Paris, 1993; traduzione italiana di Yasmina Melaouah, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1997, pp. 91-93), scrive:

 

Henri Atlan racconta che Rabbi Nahuman di Bratzlav, un maestro hassidim del XVIII secolo, un giorno disse: «da noi il vero problema non è partire (ratso) ma tornare (chouv)». Dicendo ciò pensava al movimento incassante di andata e ritorno (ratso vachouv) degli angeli nella visione di Ezechiele, che egli vedeva come una metafora dei cammini dell'illuminazione.  Ai suoi occhi ciò significa che se chiunque può salire i gradini dell'illuminazione, ben pochi riescono pi a ridiscendere. In effetti ogni uomo arriva un giorno all'illuminazione, non fosse che nel momento della morte. E il compito dell'iniziazione è proprio quello di condurre a questa conoscenza ultima, anticipando simbolicamente il momento della morte - facendo entrare la morte nella vita, essa permette che la vita stessa penetri nella morte - in modo da sollevare un angolo del velo di Iside, di cui è detto che nessun mortale può conoscere il segreto. Ma anche se ci permette di salire qualche grado mistico, non per questo l'iniziazione è compiuta nella sua integrità. Dopo essere salito, l'uomo dovrà ridiscendere, dopo aver contemplato «la vita che è altrove» dovrà raggiungere con tutto se stesso «la vita che è qui». «Io sono la porta - dice Gesù. - Se uno entra attraverso di me, sarà salvo: entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv. 10, 9).

René Guénon ha saputo individuare chiaramente, in uno dei suoi ultimi scritti, questo aspetto fondamentale dell'iniziazione: «Nella realizzazione totale dell'essere, dice, è possibile rilevare l'unione di due aspetti che corrispondo in un certo senso a due fasi  dell'unione stessa, una ascendente e l'altra discendente. La considerazione della prima fase nella quale l'essere, partito da un certo stato di manifestazione, si eleva fino all'identificazione con il suo principio non manifestato, non può sollevare  alcuna difficoltà poiché si tratta di ciò che viene sempre e dovunque espressamente indicato come lo svolgimento e il fine essenziale di ogni iniziazione, la quale ha come esito l'uscita dal cosmo. [...] Per quanto riguarda invece la seconda fase, quella della ridiscesa nel manifestato, pare che se ne parli più raramente, e, in molti casi, in maniera meno esplicita».

Che l'iniziazione debba essere concepita secondo lo schema di una andata e ritorno ne abbiamo un'ulteriore testimonianza in uno dei documenti più venerabili della tradizione iniziatica: la famosa Tabula Smaragdina. Il testo, nel suo ottavo articolo, dice: «Sale dalla terra al cielo per ricevere le luci dell'alto, poi di nuovo scende in terra, riunendo in sé la virtù del superiore e dell'inferiore, perché la luce delle luci è in lui, sicché l'oscurità si allontana da lui». Salire dalla terra verso il cielo è l'opera dell'iniziazione misterica; scendere dal cielo sulla terra è l'opera dell'iniziazione clanica; riunire in sé la virtù del superiore e dell'inferiore, è infine, è l'opera dell'iniziazione cristica. 

Questo andare e venire ricorda i pratyeka-buddha e i  bodhisattva delle religioni dell'India: i primi - che seguono la piccola via (hinayana) - sono giunti al nirvana; mentre i secondi - che seguono la grande via (mahayana)rinunciano alla loro felicità e accettano nuove incarnazioni per aiutare gli altri a sfuggire al circolo del samsara. «La salvezza deve essere accessibile non più solo ad alcuni asceti ma alla massa degli uomini». Ma ancor più che con il buddhismo è con la tradizione islamica che Guénon stabilisce il parallelo. In essa si trova infatti una distinzione dello stesso ordine tra il wali e il nabi. «Un essere può essere wali solo 'per sé'; […]; al contrario un nabi è tale solo perché ha una funzione una funzione da svolgere rispetto agli altri esseri». Questa è anche la regola dell'iniziazione cristiana: non è acquisita per sé ma per gli altri. Il solo modo per essere un iniziato cristiano, nel pieno significato del termine, è diventare a sua volta iniziatore: fermento di iniziazione per coloro che ci circondano. Facendo corpo con Cristo, l'uomo non è solo salvato ma diviene anch'egli, per partecipazione, un salvatore.

Tuttavia Guénon ci mette in guardia: questa discesa non deve diventare il pretesto per un attaccamento al mondo che non è mai stato vinto. Un coinvolgimento esteriore presuppone un'autentica realizzazione interiore. Allora, illuminato al fuoco della contemplazione, l'uomo può diventare una luce viva sul cammino degli altri, un segno di speranza per il mondo. ma tutto ciò richiede, oltre che la grazia, una certa qualità nel proprio rapporto con Dio, con se stesso e con gli altri. Valentin Tomberg lo riassume alla perfezione nella Regola d'oro  con la quale vorremmo concludere questa modesta riflessione:

Non perderti cercando il mondo,

non perdere Dio cercandoti,

non perdere il mondo cercando Dio.

 

Il vero iniziato, infatti, non è solo colui che conosce, oltre all'arte del partire, anche quella del ritornare (come bene è illustrato nel cammino iniziatico di Dante nella Divina Commedia), per portare agli altri i tesori della propria illuminazione. 

Egli è anche, e soprattutto, colui che ha imparato l'arte suprema di non sprecare nulla, di non disperdere nulla, di non rifiutare nulla; ma di assorbire ed accogliere ogni esperienza - lieta e triste, piacevole e dolorosa - in un abbraccio amorevole che tutto reintegra nella propria essenza più profonda, trasformandola in sostanza viva e luminosa dell'Essere, di cui egli stesso ha compreso di costituire una manifestazione.

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