E' ben noto che i Musei Capitolini sono stati i primi musei pubblici al mondo. Ma il primo luogo al mondo ad essere chiamato Museo sorse ad Alessandria d’Egitto per opera del re Tolomeo I° nel III secolo a.C., in epoca ellenistica. Non si trattava, però, di un museo come lo intendiamo oggi: infatti il Museo di Alessandria era un luogo di culto, consacrato appunto alle Muse, dove una comunità di sapienti, scienziati e letterati del tempo, viveva e svolgeva le proprie attività. Il primo vero Museo nacque a Roma ed è frutto di una lunga storia.
La nascita dei Musei Capitolini risale al 1471, quando il papa Sisto IV donò al popolo romano un gruppo di statue bronzee conservate fino ad allora al Laterano, che costituirono il nucleo iniziale della raccolta. Le collezioni furono successivamente incrementate dai pontefici con opere provenienti dagli scavi di Roma, dal Vaticano o acquistate appositamente per il museo, come la collezione Albani. Intorno alla metà del XVIII secolo Benedetto XIV fondò la Pinacoteca. Le raccolte archeologiche si arricchirono notevolmente alla fine dell'Ottocento con i rinvenimenti degli scavi per la costruzione di interi quartieri della città, divenuta capitale d'Italia.
Ma, allora, prima di quella data una persona che non fosse uno studioso non aveva modo di vedere i capolavori eseguiti dai vari artisti? E tutte quelle incredibili opere d'arte riunite dai vari re e potenti dell'antichità, acquistate o requisite nelle loro scorrerie a seguito di guerre vinte, erano destinate ai soli occhi dei proprietari e dei loro amici? Andiamo per ordine.
È opportuno distinguere la storia del museo da quella, assai più estesa nel tempo, del collezionismo, termine usato di preferenza per indicare le diverse forme di raccolta delle opere d'arte antecedenti alla nascita dell'organizzazione museale.
Il più significativo elemento di distinzione tra collezione e museo risiede sicuramente nella destinazione pubblica di quest'ultimo, poiché con essa mutano la concezione stessa e la struttura della raccolta: il patrimonio di una collezione privata, strettamente legato alle leggi del mercato dell'arte, ha sempre una caratteristica di instabilità, in quanto sottoposto a dispersioni e smembramenti, volontari o meno, dovuti a rivolgimenti politici ed economici, a vicende di successione familiare o semplicemente al mutare del gusto e delle mode.
Il patrimonio di un museo ha invece carattere stabile, anche se non immutabile nel tempo, poiché la funzione conservativa è un suo compito fondamentale.
Quindi sembrerebbe che prima del 1471 siano esistite soltanto raccolte private che non hanno niente a che vedere con i musei come li intendiamo noi.
Ma già in epoca antica esistevano raccolte che potevano avere carattere stabile e potevano essere viste e godute anche dall'uomo della strada. Di cosa sto parlando? Ce lo facciamo raccontare da un amico che ormai dovreste avere avuto il modo di apprezzare: Rodolfo Lanciani.
Da Roma Pagana e Cristiana, Newton & Compton Editori, 2004: - - - - - - - - -
[Le antiche guide di Roma, pubblicate a metà del quarto secolo, parlano di 420 templi, 304 santuari, 80 statue di divinità in metallo prezioso, 64 di avorio, e 3.785 statue bronzee di vario tipo. Il numero di statue di marmo non viene specificato. Si è detto, comunque, che Roma aveva due popolazioni pari per numero, una vivente e una di marmo.
Ho avuto la possibilità di assistere personalmente alla scoperta, o di condurla, di diversi templi, santuari, altari e statue bronzee. Il numero di statue di marmo e di busti scoperti negli ultimi venticinque anni in città o nella campagna, può considerarsi pari a un migliaio.
Prima di iniziare con la descrizione di questi stupendi monumenti, devo soffermarmi su alcuni dettagli riguardanti le caratteristiche e l’organizzazione di alcuni luoghi di culto, su cui recenti scoperte hanno gettato una nuova e, in alcuni casi, inaspettata luce.
I templi romani, come le chiese dei giorni nostri, non erano usati solo come luoghi di culto ma come gallerie di dipinti, musei di statue e “contenitori” di oggetti preziosi. Nel capitolo V di “Antica Roma” ho fornito l’elenco delle opere d’arte esposte nel Tempio di Apollo sul Palatino. La lista include: Apollo e Artemide alla guida di una quadriga, di Lisia; cinquanta statue delle Danaidi; cinquanta dei figli d’Egitto; l’Ercole di Lisippo; Augusto con gli attributi di Apollo (una statua in bronzo alta 15 metri); il frontone del tempio, di Bupalos e Anthermos; statue di Apollo, di Skopas; Leto, di Kephisodotos, figlio di Prassitele; Artemide, di Timotheos; le nove Muse; anche un lampadario, precedentemente dedicato da Alessandro il Grande a Kyme; medaglioni di personaggi eminenti; una collezione di vasellame d’oro; un’altra di gemme e incisioni; sculture in avorio; reperti di paleografia e due biblioteche.
Il tempio di Apollo non era l’unico museo sacro dell’antica Roma; ce n’erano molti, cominciando dal Tempio della Concordia, enfaticamente lodato da Plinio. Questo tempio, costruito da Camillo ai piedi del Campidoglio e restaurato da Tiberio e Settimio Severo, era ancora in piedi al tempo di Papa Adriano I (772-795), quando l’iscrizione sulla sua facciata fu copiata per l’ultima volta dall’Einsiedlensis. Fu raso al suolo intorno al 1450. "Quando ho fatto la mia prima visita a Roma," racconta Poggio Bracciolini, "ho visto il tempio della Concordia quasi intatto (aedem fere integram), costruito con marmo bianco”. Da allora i Romani hanno demolito la struttura trasformandola in una fornace per calce. La base del tempio e alcuni frammenti delle sue decorazioni architettoniche furono scoperte nel 1817. Il lettore può apprezzare la grazia di queste decorazioni, da un frammento della trabeazione oggi nel portico del Tabularium, e da uno dei capitelli della cella, oggi nel Palazzo dei Conservatori. La cella conteneva una nicchia centrale e dieci ai lati, nelle quali erano conservati capolavori di artisti greci, quali l’Apollo e Hero, di Baton; Leto che nutre Apollo e Artemide, di Euphranor; Asklepios e Hygieia, di Nikeratos; Ares ed Hermes, di Piston; Zeus, Atena e Demetra, di Sthennis. Il nome dello scultore della statua della Concordia nell’abside è ignoto. Plinio parla anche di un dipinto di Theodoros che riproduceva Cassandra; di quattro elefanti scolpiti in ossidiana, un miracolo di abilità e arte, e di una collezione di pietre preziose, tra cui c’era il sardonice incastonato nel leggendario anello di Policrate di Samo . Molti di questi tesori erano stati offerti alla dea da Augusto, mosso dalla devozione che Giulio Cesare aveva mostrato verso la propria dea ancestrale, Venere Genitrice. Sappiamo da Plinio che Cesare fu il primo a tenere nella dovuta considerazione la pittura, dandone mostre nel suo Foro Giulio. Pagò circa ottanta talenti per due opere di Timomachos, rappresentanti Medea e Aiace. Alla base del tempio di Venere Genitrice fece mettere la propria statua equestre, il cui cavallo, scolpito da Lisippo, aveva un tempo sostenuto la figura di Alessandro il Grande. La statua di Venere era opera di Arkesilaos, e il suo seno era coperto da fili di perle britanniche. Plinio, dopo aver menzionato la collezione di gemme fatta da Scauro ed un’altra da Mitridate che Pompeo Magno aveva offerto a Giove Capitolino, aggiunge:
"Questi precedenti furono sorpassati dal dittatore Cesare che offrì a Venere Genitrice sei collezioni di cammei ed incisioni".
Un elenco descrittivo di questi tesori e di queste opere d’arte era conservato in ognuno di questi templi e, a volte, era inciso su marmo. Gli inventari includevano anche il mobilio e le proprietà della sacrestia. Nel 1871, nel tempio di Diana Nemorense, fu scoperto questo importante documento: l’inventario, scolpito su una colonnina marmorea alta 90 cm, oggi conservata nel castello Orsini a Nemi. E’ stato pubblicato da Henzen in "Hermes," vol. vi. p. 8, e riporta quanto segue:
“Oggetti offerti a [o appartenenti a] entrambi i templi [il tempio di Iside e quello di Bubasti]: — diciassette statue; una testa del Sole; centoquattro immagini in argento; un medaglione; due altari in bronzo; un tripode (ad imitazione di uno a Delfi); una coppa per libagioni; una patera; un diadema [per la statua della dea] tempestato di gemme; un sistro di argento dorato; una coppa dorata, una patera ornata con anse di corno; una collana tempestata di berilli; due braccialetti con gemme; sette collane con gemme; nove orecchini con gemme; due nauplia [conchiglie rare da Propontis]; una corona con 21 topazi e 80 carbonchi (rubini rosso acceso); una ringhiera di ottone sostenuta da otto hermulae; un abito in lino comprendente una tunica, un pallium, una cintura ed una stola, tutti decorati in argento; un abile simile senza decorazioni”.
“[Oggetti offerti] a Bubasti: — un abito di seta viola; un altro di colore turchese, un vaso in marmo con piedistallo; una brocca per acqua; un abito in lino con decorazioni e una cintura d’oro; un altro di puro lino bianco”.
Gli oggetti descritti nel catalogo non appartenevano al tempio di Diana, uno dei più ricchi del centro Italia; ma a due piccoli santuari, di Iside e Bubasti, costruiti da un devoto all’interno del recinto sacro, sul lato nord del complesso.
Gli antichi mostravano un pessimo gusto nell’appesantire le statue dei loro dei con preziosi ornamenti e nel compromettere la bellezza dei loro templi con oggetti di ogni tipo e colore. Un documento pubblicato da Muratori parla della statua di Iside dedicata da una matrona chiamata Fabia Fabiana in memoria della sua defunta nipote, Avita. La statua, fusa in argento, pesava 51 kg, ed era carica di ornamenti e gioielli oltre ogni immaginazione. La dea indossava un diadema in cui erano incastonate sei perle, due smeraldi, sette berilli, un carbonchio, un hyacinthus, e due punte di freccia in selce; inoltre, orecchini con smeraldi e perle, una collana composta da trentasei perle e diciotto smeraldi, due fibbie, due anelli al mignolo, uno sull’anulare, uno sul medio; e molte altre gemme sulle scarpe, caviglie e polsi. Un’altra iscrizione trovata a Costantina, in Algeria, descrive una statua di Giove dedicata nel Campidoglio di quella città. I devoti avevano posto sulla sua testa una ghirlanda di quercia in argento, con trenta foglie e quindici ghiande; avevano caricato la sua mano destra con un disco d’argento, una vittoria che sventolava una foglia di palma, e una corona di quaranta foglie; nell’altra mano avevano fissato una verga d’argento e altri emblemi.
I tendaggi e le decorazioni non solo sfiguravano l’interno dei templi, ma erano anche fonte di pericolo per la loro infiammabilità. Sappiamo che il fuoco distrusse il Pantheon nel 110 d.C., il tempio di Apollo nel 363, quello di Venere e Roma nel 307 e quello della Pace nel 191: possiamo credere che gli incendi furono causati ed alimentati dai materiali infiammabili presenti all’interno. Non c’è altra spiegazione possibile, dal momento che sappiamo che le strutture erano ignifughe ad eccezione del tetto. Per dimostrare come venivano sfigurati gli edifici sacri con ogni sorta di ammennicoli, è sufficiente citare le parole di Livio:
"Nell’anno di Roma, 574, i censori M. Fulvio Nobiliore e M.Emilio Lepido restaurarono il tempio di Giove Capitolino. In questa occasione rimossero dalle colonne tutte le tavolette, i medaglioni e le bandiere militari omnis generis che vi erano state appese."]
Mi sarebbe piaciuto farvi vedere l'interno di uno di questi templi ma si sono portati via tutto, anche le strutture murarie.
Se poi qualche amico dovesse ritenere troppo sintetico questo post, suggerisco sommessamente il link indicato sotto che riporta la storia dei musei nel mondo con relative "acquisizioni" a danno di paesi come l'Italia, la Grecia e l'Egitto ma non solo.
Peccato che l'articolo si fermi alla Rivoluzione Francese; ma forse qualcuno potrà prenderne lo spunto per colmare la lacuna.
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