Il berretto frigio simbolo di libertà. Dal culto di Mitra a Salvador Dalì, passando per Robespierre
Il berretto frigio rappresenta forse il più famoso simbolo di libertà. Raffaele Salinari ne ricostruisce la storia e i significati più autentici, dal culto di Mitra ai giacobini, passando anche per la pittura di Salvator Dalì.
Raffaele Salinari
Copriti con questo berretto: vale più della corona di un re
Cosa unisce Salvador Dalí ai Puffi? E ancora, il pittore catalano ed i piccoli esseri azzurri all’alchimista di Notre Dame ed alla Rivoluzione francese? Un copricapo che sussume in una sola forma molti aspetti della stessa sostanza: il berretto frigio.
Il cappello dei rivoluzionari giacobini ha origini che ne spiegano ampiamente la capacità di esprimere la medesima essenza simbolica seppur in contesti apparentemente diversi. Se lo troviamo, infatti, posato sul capo di Marianna, l’effige femminile rappresentante la Repubblica francese nel celebre quadro La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix, le sue ascendenze rimandano a quelle di antichissime divinità iraniche, arrivate in Occidente sotto varie forme, inclusi i Re Magi come li troviamo effigiati in alcune raffigurazioni protocristiane.
E dunque, da dove viene questo copricapo, e perché la sua valenza simbolica lo ha reso così espressivo? Per capirne la genesi dobbiamo risalire le tappe storiche che lo hanno visto protagonista. In primis bisogna considerare la sua forma peculiare, che nasce da quella della pelle di un capretto aperta. Inizialmente, infatti, il copricapo era ottenuto da una pelle intera: le zampe posteriori erano legate al mento mentre quelle anteriori formavano la sua caratteristica protuberanza anteriore, che poteva pendere sul davanti o sul dietro o rimanere in posizione verticale. Col tempo non è stato più ottenuto in questo modo, ma ha mantenuto la caratteristica forma che ancora allude all’originaria preparazione.
I MISTERI ELEUSINI
I primi testi che ci parlano del berretto frigio — detto così perché, come vedremo, diviene famoso come copricapo degli antichi persiani che avevano nel VI secolo a C. conquistato la Frigia, l’attuale Anatolia turca — sono quelli inerenti ai Misteri eleusini, riti religiosi misterici che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra nell’antica città greca di Eleusi. Al culmine del rito, dice Ermia Alessandrino, nell’epopteia, la visione: «L’anima recupera la totalità della sua essenza dalla frammentarietà e dalla molteplicità del sensibile».
Epopteúo è il verbo che indica, contemporaneamente, la contemplazione sovra-razionale, il suo momento, e la certezza di questa conoscenza: una visione cairologica, nella quale si supera il frammentario ed il complesso per cogliere ciò che unisce e ci unisce a tutte le cose.
Pierre Dujols nel suo Historie des Jacobins depuis 1789 jusqu’à ce jour (Parigi 1820), in cui traccia la storia rivoluzionaria del cappello, scrive che, giunti al grado di Epopte nei Misteri di Eleusi, si chiedeva all’iniziato se si sentiva la forza, la volontà e la dedizione per dedicarsi alla Grande Opera.
Allora gli si posava sopra il capo un berretto frigio di colore rosso, pronunciando queste parole: «Copriti con questo berretto, vale più della corona di un re».
Il berretto repubblicano, che «vale più della corona di un re», nasce allora come copricapo legato ai culti esoterici di Demetra e Persefone, dove le due divinità rappresentano il ciclo eterno della Natura Naturans in relazione alle sue creature, quelle della Natura Naturata, nelle quali il principio vitale, l’archetipo delle vita indistruttibile, come dice Kerényi di Dioniso, si esprime.
E dunque qui vediamo già una prima determinante simbolica del rosso copricapo: esso rappresenta un principio di liberazione che viene dalla retta visione, quella sulla «trama nascosta» come dice Eraclito, che è «più forte di quella manifesta». L’epopteia nella quale l’anima recupera la totalità della sua essenza altro non è, allora, che la visione essenziale della libertà: quel trovare il nostro posto nel mondo affinché, al contempo, il mondo trovi posto in noi.
MITRA
Ma, prima delle divinità greche, che d’altra parte veicolavano il medesimo significato simbolico, il berretto fu utilizzato dai sacerdoti del Sole, nella regione della Frigia, per i riti dedicati al dio Mitra.
La figura di Mitra compare primariamente nei Veda, gli antichi testi indiani risalenti al XX secolo a C., come uno degli Aditya, un gruppo di divinità solari dell’induismo discendenti da Aditi e Kashyapa. Aditi è una Dea Madre, una delle innumerevoli ipostasi della Grande Dea nei secoli, nel Ṛgveda, (I, 89,10), il testo più antico, si dice: «Aditi è il firmamento, Aditi è l’atmosfera, Aditi è la madre, è il padre, è il figlio, Aditi è tutti gli Dei, Aditi è le cinque razze degli uomini, Aditi è ciò che è già nato, Aditi è ciò che deve ancora nascere».
Kasyapa è invece una figura paterna, un dio-Padre che, all’epoca della religiosità pre-vedica, era un dio primordiale divenuto poi, in epoca vedica, lo sposo di Aditi. Joseph Campbell nel suo Le maschere di dio, saggio sulla mitologia orientale, ci ricorda come fosse originariamente raffigurata come una mucca.
Da qui una prima relazione col toro mitraico che troveremo in tutte le raffigurazioni posteriori. Mitra, divinità dunque di origine indo iranica, primariamente parte di una trinità formata da madre, padre e figlio, sussunse poi col tempo le altre due assumendo una sempre maggiore importanza nella civiltà persiana fino a identificarsi, nella concezione rigidamente monoteista dello Zoroastrismo, o Mazdeismo appunto, con Ahura Mazda l’unico Dio, creatore del mondo sensibile e di quello sovrasensibile.
Questo nome in avestico significa «spirito che crea con il pensiero» da: Ahura derivato dall’antico avestico anshu nel significato di «respiro vitale», collegato ad ansu (spirito), e Mazdā derivato dalla radice indoeuropea mendh che indica l’«apprendere»; quindi nel significato di «memoria» e «pensiero».
Qui si mostra una seconda determinante simbolica legata al berretto frigio: il «retto pensiero» che, con la retta visione epopteica si pone come ulteriore elemento della triade simbolica che verrà poi completata dall’agire libertario. Il culto di Mitra appare per la prima volta a Roma all’epoca di Nerone, che si fece iniziare ai suoi misteri; nel tempo, sostenuto dai legionari romani che lo avevano importato dall’Oriente perché vedevano in lui un dio guerriero per via della sua lotta contro il Toro — al tempo stesso simbolo astrologico delle rinascente primavera e emblema della forza creatrice — si diffuse a tal punto che convenne agli imperatori, capi supremi dell’esercito, divenire miste, cioè iniziati e gran sacerdoti del dio.
Con Aureliano, nel 279 d.C., il culto fu poi fatto coincidere con quello del dio Sole, il Sol Invictus e, da quel momento, la fede in Mitra e la sua adorazione divennero un dovere che l’imperatore esigeva in modo da legittimare il suo potere teocratico. La religiosità mitraica, misterica ed esoterica, comprendeva sette gradi: corvo, ninfo, miles, leone, persiano, heliodromos e Pater, che riproponevano simbolicamente il viaggio dell’anima a ritroso, cioè nella sua risalita attraverso le varie sfere, sino ad oltrepassare quella dell’Aquila, vertice del mondo delle Potenze, e raggiungere così il Principio, il Mondo dell’Origine, l’iperuranio platonico in cui vivono le Idee.
Nel mitreo di Santa Prisca in Roma, uno dei meglio conservati della città, vediamo come le pareti laterali fossero ricoperte di pitture, oggi visibili e leggibili solo in parte, realizzate certamente prima del 200 d.C.. Già questa data, in piena fioritura cristiana, ci dice quanto il culto di Mitra fosse penetrato profondamente all’interno della cultura romana ed anzi, come esso sia stato l’ultimo culto pagano a scomparire con l’affermarsi del cristianesimo. Si dice che anche Costantino, nonostante il suo famoso editto, fosse un adepto del dio. Sulla parete di destra sono raffigurati i sette gradi di iniziazione del culto, ad ognuno dei quali è abbinato un personaggio ed una frase che inizia con la parola persiana Nama, «onore», quindi il grado di iniziazione seguito dalla formula «sotto la protezione», abbreviata in vari modi, spesso sintetizzata dalla sola parola «tutela», per chiudere con il rispettivo pianeta che lo proteggeva.
Ma ciò che maggiormente ci interessa si trova in direzione dell’altare, dove sono raffigurati dei personaggi probabilmente realmente esistiti, dato che di ognuno è riportato il nome; essi si dirigono verso una figura seduta, identificabile con il Pater, vale a dire il grado più alto raggiungibile, al quale portano degli oggetti, forse delle offerte: un toro, un gallo, un cratere, un montone ed un maiale. L’uomo seduto indossa il berretto frigio, è vestito di rosso, ed a sinistra della figura si legge l’iscrizione Nama (Patribus)/ ab oriente / ad occidente (m)/ tutela Saturni. Dunque la figura che poi, nella religiosità cristiana, assumerà il ruolo di Papa, ed indosserà anche la caratteristica Mitra, evoluzione del berretto frigio, deriva da questo culto.
I RE MAGI
Il berretto frigio è anche un indumento fondamentale nell’abito tradizionale del regno persiano dal VI secolo a.C. al II secolo a.C. È per questa sua progressiva diffusione in ambito profano che, nell’arte greca del periodo ellenistico, appare come indumento tipico degli orientali. E chi più orientale dei Magi, cioè maghi, grandi sapienti che, seguendo la stella cometa, arrivano a Betlemme in occasione della nascita del Salvatore?
Le conoscenze astromantiche dei Caldei, cioè dei Babilonesi, erano ben note nell’antichità paleocristiana. Già Diodoro Siculo, nella sua Bibliotheca Historica, (Libro II, cap. IX) così ce ne rende testimonianza: «I Caldei, che tra i Babilonesi sono i più antichi… si applicano per tutta la vita agli studi filosofici e traggono principalmente assai gloria dall’astrologia. E come molto si occupano dell’arte divinatoria, predicono le cose future, e cercano, o con le espiazioni, o con i sacrifici, o con certi incantesimi, di allontanare le cattive vicende o di farne seguire le buone. E sono anche valenti nella scienza degli auguri, ed interpretano i sogni ed i prodigi, e certamente vengono reputati profeti esatti». Ludolfo di Sassonia (m. 1378), nella sua Vita Christi, sostiene che: «I tre re pagani vennero chiamati Magi non perché fossero versati nelle arti magiche, ma per la loro grande competenza nella disciplina dell’astrologia. Erano detti magi dai Persiani coloro che gli Ebrei chiamavano scribi, i Greci filosofi e i latini savi».
Una tra le più antiche raffigurazione dei Magi, a nostra conoscenza, si trova nella cosiddetta cappella Greca della catacomba di Priscilla a Roma. La scena è semplicissima: i tre Magi, distinti nei colori dei loro vestiti, si avvicinano da sinistra a destra ad uno scranno dove si trova seduta la Madre con il Bambino. I tre portano doni non distinguibili. Dietro la sedia si scorge un residuo di colore che può essere forse interpretato come ciò che è rimasto della Stella. I tre Magi indossano un corto chitone con pantaloni e portano il copricapo frigio, cosi da essere caratterizzati come personaggi orientali.
Stessa raffigurazione troviamo sia su una lapide di pietra oggi custodita a Ravenna, presso il Museo Arcivescovile proveniente dalla Cappella dei SS. Quirino e Giulitta (V sec.), sia sulla Copertura dell’Evangelario custodita nel Museo del Duomo di Milano. Le raffigurazioni trovano riscontro nel testo del vangelo di Matteo: «Alcuni Magi giunsero da oriente (…); la stella… li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino (…); videro il bambino con Maria sua madre (…); e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra».
Sul coperchio di un sarcofago delle Grotte Vaticane, rinvenuto sotto la Basilica di S. Pietro, sono raffigurati i tre Magi, alle cui spalle s’intravedono tre dromedari. Il sarcofago è del 345 circa. E di dromedari parla un passo di Isaia (60,6) nell’Antico Testamento, interpretato dunque come profezia dell’adorazione dei Magi: «Verranno a te i beni dei popoli. Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore».
Un altro testo, tratto dal libro dei Salmi, dice: «I re di Tarsis e delle isole porteranno offerte, i re degli Arabi e di Saba offriranno tributi» (71,10). A motivo di quest’ultimo versetto, a partire dall’arte medievale, si comincia a parlare dei Magi come di re, e così vengono rappresentati con i simboli esteriori della loro regalità: non il berretto frigio ma la corona.
Il rilievo sulla porta lignea di S. Sabina, a Roma, eseguito intorno al 431, mostra ancora Maria e il Bambino su di un trono collocato alla sommità di sei scalini, cioè i sei gradi più uno che portano al compimento dell’iniziazione mitraica. I tre Magi indossano i noti vestiti orientali, compreso il berretto frigio. Tutta la rappresentazione della scena allude chiaramente a messaggeri «Parti», cioè Persiani che portano i loro doni.
IL BERRETTO DELL’ADEPTO
«Se, spinti dalla curiosità, o per dare uno scopo piacevole alla passeggiata senza meta d’un giorno d’estate, salite la scala a chiocciola che porta alle parti alte dell’edificio, percorrete lentamente il passaggio, scavato come un canale per lo smaltimento delle acque, sulla sommità della seconda galleria. Giunti vicino all’asse mediano del grande edificio, all’altezza dell’angolo rientrante della torre settentrionale, noterete, in mezzo ad un corteo di chimere, il sorprendente rilievo d’un grande vecchio di pietra.
È lui, è l’Alchimista di Notre Dame. Con il capo coperto dal cappello frigio, attributo dell’Adepto, posato negligentemente sulla lunga capigliatura dai grandi riccioli, il saggio, avvolto nel leggero camice di laboratorio, s’appoggia con una mano alla balaustra, mentre con l’altra accarezza la propria barba abbondante e serica. Egli non medita, osserva. L’occhio è fisso; lo sguardo possiede una straordinaria acutezza. Tutto, nell’atteggiamento del Filosofo, rivela una estrema emozione… Che splendida figura questa del vecchio maestro che scruta, interroga, curioso ed attento, l’evoluzione della vita minerale e poi, infine, abbagliato, contempla il prodigio che solo la propria fede gli faceva intravedere». Con queste parole Fulcanelli, l’enigmatico autore de Il Mistero delle Cattedrali, introduce la figura dell’Alchimista sulla torre settentrionale della grande cattedrale gotica, la cui figura è riconoscibile appunto dal cappello frigio «attributo dell’Adepto».
Anche in un mosaico bizantino della basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, i Re Magi adorano Gesù calzati dei loro cappelli frigi. Interessante notare che essi rivolgono sì lo sguardo al Salvatore, ma sopra di loro brilla una stella d’oro, chiaro riferimento sia alla stella cometa che li indusse a mettersi in cammino, sia alla stella del Compost-stella, cioè alla Stella di San Giacomo di Compostela che compare, insieme alla conchiglia, in innumerevoli facciate di chiese, palazzi, monumenti, sparsi per tutta l’Europa, e che indicavano al tempo stesso sia un rifugio per i pellegrini sulla via del celebre Santuario sia le fasi della Grande Opera, come chiaramente leggibile sulle formelle scolpite ai lati dell’ingresso principale di Notre Dame, sotto il Portale del Giudizio Universale e così ben descritti da Fulcanelli.
Qui, sia a destra che a sinistra del pilastro centrale, sul quale è effigiata la Filosofia con in mano un libro chiuso ed un libro aperto, segno delle due conoscenze esoterica ed essoterica, si svolgono dei bassorilievi che illustrano sia le fasi dell’Opera sia le virtù morali che l’adepto deve sviluppare per poter operare la materia trasformando al contempo se stesso. Se osserviamo bene questi bassorilievi troveremo, ad un certo punto, la figura dell’alchimista che difende l’Atanor, la fornace alchemica, e che indossa il berretto frigio, lo stesso che abbiamo visto sul capo della scultura sul torrione settentrionale.
D’altra parte la sovrapposizione tra il Cristo ed il Lapis, cioè la Pietra Filosofale, è totale nell’alchimia medioevale, sia per evitare le ire dell’Inquisizione, sia come linguaggio iniziatico alle operazioni di trasmutazione della materia. Nel famoso romanzo Notre Dame di Parigi di Victor Hugo, uno dei protagonisti, il delirante arcidiacono della cattedrale Monsignor Claude Frollo, è un alchimista che però, accecato dal suo amore carnale per la bella Esmeralda, ma non certo ricambiato da lei, non è in grado per questo di leggere compiutamente le formule della Grande Opera. Esmeralda, infatti, rappresenta la Prima Materia, ed è innamorata di Febo, cioè del Sole, e non del torvo arcidiacono che pubblicamente la condanna e privatamente la brama.
Dice Eugène Canseliet nella sua prefazione al Mistero delle cattedrali (Mediterranee 1988) che Filatete nel suo libro Entrée ouverte au Palais fermé du Roi, si sofferma più di altri sulla pratica dell’Opera facendo cenno alla stella cometa come analogon di quella ermetica, con queste parole: «È il miracolo del mondo, l’unione delle virtù superiori con quelle inferiori; per questa ragione l’Onnipotente l’ha indicata come segno straordinario. I saggi l’hanno visto in Oriente, ne sono rimasti sbalorditi e subito dopo hanno saputo che un Re purissimo era venuto al mondo»; infine Filatete così conclude: «E l’Onnipotente imprime il suo regale sigillo a quest’Opera e, così facendo, l’adorna in modo del tutto particolare». Qui, dunque, ancora una volta la sovrapposizione tra immagini della sacralità cristiana e fasi dell’Opera è un mezzo per velare ed al contempo comunicare all’adepto i segreti della pratica. Canseliet ci ricorda, infine, che la stella non è un segno esclusivo del travaglio della Grande Opera ma che la si può incontrare anche in numerosi altri composti chimici.
IL PILEUS ROMANO
Queste analogie tra sacro e profano, tra esoterico ed essoterico, tra liberazione della mente e liberazione del corpo, rappresentano la vera forza evocativa del berretto frigio che si porrà definitivamente, col suo uso nell’antica Roma repubblicana, come una componente essenziale di ogni abito che voglia mostrare questi due aspetti. Qui, infatti, divenne sia il copricapo che veniva donato dal padrone agli schiavi liberati, i liberti, sia come simbolo della Repubblica. Fu quindi in questa epoca che il berretto frigio (chiamato pileus in latino) assunse il suo valore simbolico di libertà.
In particolare questo significato viene sancito dalle monete battute dai cesaricidi all’indomani dell’uccisione di Giulio Cesare, che recavano su una delle facce un pileus, considerato dunque simbolo della libertà repubblicana, inserito tra due pugnali, come quelli usati per il regicidio.Il sole, al cui culto originariamente vedico si collegava l’utilizzo del cappello e quindi il suo significato, simboleggia dunque già in epoca romana l’avvenire e il progresso nella libertà e quindi la prosperità data dalla rinascita derivante dal fuoco, elemento purificatore e rinnovatore.
Questi significati di rinnovamento e di libertà si adattavano perfettamente agli ideali ed allo spirito della rivoluzione francese, per la quale il cappello frigio divenne così naturalmente uno dei simboli della rivoluzione stessa, spesso issato come compendio dei tre valori di Libertà, Fraternità ed Eguaglianza sopra l’albero della libertà.
Un berretto simile, infatti, era già indossato dai galeotti di Marsiglia liberati nel 1792 nel corso della rivoluzione. Grazie a questo fatto il simbolo venne immortalato nella figura della Marianne, emblema stesso della Francia giacobina, nel celebre quadro La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix. La simbologia della donna con il berretto frigio fu poi utilizzata dal movimento socialista come simbolo di rinnovamento, progresso e liberazione dell’umanità.
E poiché molte delle rivoluzioni anti-coloniali del Nord e Sud America sono state ispirate dalla rivoluzione francese, esso compare come simbolo di libertà nelle bandiere dello Stato della West Virginia e New Jersey, e come sigillo ufficiale dell’United States Army (sic!) e del Senato degli Stati Uniti. In America Latina è rappresentato negli stemmi di Argentina, Bolivia, Colombia, Cuba, El Salvador, Nicaragua e Paraguay. Il cappello frigio è anche nello stemma dei Tiepolo, antica famiglia veneziana che diede alla città importanti dogi. Anche il Corno ducale, ovvero il copricapo distintivo del Doge della Serenissima Repubblica di Venezia, si ispirerebbe al berretto frigio già indossato dai soldati bizantini.
SALVADOR DALÍ E I PUFFI
Il berretto frigio unisce anche artisti ed espressioni artistiche in apparenza lontanissime tra loro come Salvador Dalí ed i Puffi. Per quello che concerne il pittore catalano, ispirato dalla sua stessa poetica paranoico-critica e dalle mille provocazioni che creava, il cappello è un simbolo forte di appartenenza, tanto da ricomparire trasfigurato nei suoi quadri degli anni ’30 e ’40 proprio all’interno del metodo paranoico-critico.
Questa è la definizione che lo stesso Dalí fornisce del suo metodo: «Tutti, soprattutto in America, vogliono sapere il metodo segreto del mio successo. Questo metodo esiste. Si chiama il metodo paranoico-critico. Da più di trent’anni l’ho inventato e lo applico con successo, benché non sappia ancora in cosa consista. Grosso modo, si tratterebbe della sistemazione più rigorosa dei fenomeni e dei materiali più deliranti, con l’intenzione di rendere tangibilmente creative le mie idee più ossessivamente pericolose. Questo metodo funziona soltanto alla condizione di possedere un dolce motore d’origine divina, un nucleo vivo, una Gala. E ce n’è soltanto una».
Il binomio Gala — la compagna di tutta la vita, la donna che lo prese e mai lo lasciò andare — ed il cappello frigio, lo vediamo in alcune foto che ritraggono la coppia sul mare di Cadaqués, il mare nativo di Dalí, nei pressi del quale poi costruirà la casa museo nella quale è conservato imbalsamato. E allora un artista come Dalí, così visceralmente attaccato alla sua terra tanto da farne la scaturigine dei suoi quadri, non poteva certo tralasciare che il metodo paranoico-critico sviluppasse l’idea del cappello frigio sino a trasformarlo, con quelle metamorfosi così connaturare alla sua opera pittorica, in una sorta di prolungamento cranico, come fosse oramai fuso con la testa che lo indossa.
Una prima idea di questa trasmutazione anatomica compare in alcuni suoi personaggi come il Guglielmo Tell nella celebre tela, L’enigma di Guglielmo Tell del 1933. Il quadro, che determinò la rottura con i Surrealisti di Breton a cagione del viso del protagonista, quello di Lenin, è in realtà un segno di rivolta contro l’autorità in generale, e verso quella paterna in particolare. Il padre di Dalí rifiutava, infatti, la sua relazione con Gala, donna divorziata, e dunque la scelta di Salvador fu quella di «uccidere il padre» sbeffeggiandolo, concependo questa scena altamente simbolica in cui l’eroe svizzero sta per schiacciare sotto il piede una piccola figurina che simboleggia appunto Gala.
Nello stesso periodo, ma posteriore di alcuni mesi al Guglielmo Tell, altri dipinti dichiaratamente autobiografici mostrano direttamente il lungo cranio come prolungamento del berretto frigio, in particolare Io a dieci anni, quando ero il bambino cavalletta, complesso di castrazione, sempre del 1933, oppure in Arpa invisibile del 1934. Nel bambino cavalletta la sommità del berretto frigio diviene tutt’uno con la tesa del piccolo Dalí vestito da marinaretto, come si usava nelle scuole elementari a quell’epoca, mentre il tavolo si erge come un membro inturgidito che punta verso l’infinito.
La fobia del piccolo Salvador per le cavallette era ben nota; di fronte a questi insetti poteva avere anche dei veri e propri attacchi isterici. Le cavallette tornano prepotentemente in tutti i suoi quadri più dichiaratamente autobiografici, a partire dal Grande Masturbatore del 1929, in cui l’autore esprime tutto il disagio sessuale dei primi incontri con Gala. Sarà l’apparizione del berretto frigio fuso col suo capo a formare quello della cavalletta che esprimerà per Dalí il superamento del complesso di castrazione paterno ed una sorta di ritrovato equilibrio sessuale con la compagna di tutta la vita.
Il berretto frigio appare anche nelle forme che l’artista propone per i copricapi disegnati per la stilista Elsa Schiapparelli sul finire degli anni ’30. Ma è nell’ultimo periodo della sua esistenza, dopo la morte di Gala, che Dalí torna ad indossare perennemente il copricapo catalano. Nelle foto della vecchiaia lo vediamo sempre calzato del suo berretto frigio bianco, come quello dei Puffi.
Anche i famosi personaggi inventati da vignettista belga Pierre Culliford detto Peyo in collaborazione con Yvan Delporte nel 1958 indossano il berretto frigio bianco, tranne il Grande Puffo, una sorta di Papa della popolazione dei piccoli esseri «alti tre mele», che lo porta rosso. Perennemente minacciati dall’infido Gargamella, e qui il cerchio alchemico si chiude, alla ricerca di sei Puffi che, bolliti nel veleno di serpente, costituiscono l’ingrediente fondamentale nella formula della pietra filosofale.
Non a caso Gargamella è il figlio degenere di una schiatta di maghi, il cui capostipite si chiama Baldassarre, come uno dei Magi. Chissà cosa avrebbe pensato l’Alchimista di Notre Dame se fosse vissuto ai nostri giorni, anzi, chissà cosa ne pensa osservando il mondo da sotto il suo frigio berretto.
Il Manifesto – 30 maggio 2015
Nessun commento:
Posta un commento