venerdì 24 aprile 2015

Una festa controversa 25 Aprile

Questo è un artico di Sandro Consolato scritto in occasione della "festa" del 25 aprile! Trovando l'articolo vicino alle mie idee  lo pubblico sul mio blog con piacere.

IL “MIO” 25 APRILE
Degli avvenimenti storici del secolo scorso, ormai non mi interessano più veramente che le storie, i destini individuali di coloro che vi furono coinvolti. Nella storia di ogni individuo vi è una verità morale che si perde nello sguardo alla storia collettiva, soprattutto se è uno sguardo piegato al giudizio e all’interesse fazioso.
Lo dirò francamente: provo distanza, spesso fastidio leggendo tanti dei post, anche di amici, scritti per il 25 aprile: raccontare che tutti i partigiani erano vigliacchi, assassini ed “eroi a guerra conclusa” è una stronzata; come è una stronzata raccontare che tutti i “repubblichini” erano dei criminali, torturatori, semplici lacché dei tedeschi; ed è una stronzata raccontare che tutti i partigiani erano idealisti, buoni e, soprattutto, amanti della libertà e della democrazia; ed è pure una stronzata raccontare che i repubblichini erano essi pure tutti degli idealisti, dei valorosi e puri “soldati dell’onore”, unici veri amanti della patria tradita ecc.
Fin da bambino ho amato ascoltare le storie sulle due guerre mondiali, sul fascismo, sui due dopoguerra. Negli anni ‘60 (che sono quelli della mia infanzia) in casa se ne parlava ancora molto. C’erano i ricordi dei genitori, dei nonni, dei parenti, degli amici di famiglia (lascio a chi legge giudicare quanto possa significare, per capire il mio modo di pensare, il fatto di essere figlio di un socialista che aveva come più caro amico – forse una cosa possibile solo al Sud - un fascista a cui Beltrame durante la guerra aveva dedicato una copertina della “Domenica del Corriere” per un’impresa eroica nell’Egeo). Poi, a partire dagli anni (‘70) del liceo, e fino ad oggi, ho potuto ascoltare anche le storie di uomini estranei al più o meno largo cerchio famigliare: uomini in cui mi sono imbattuto al seguito delle visioni del mondo e delle ricerche che mi hanno guidato in fasi diverse del mio percorso ideale e umano.
La riflessione più profonda che collettivamente oggi si potrebbe fare, ma che non sento fare, è la seguente, brutalmente cronologica. Sono passati 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla guerra civile che ne fu la coda italiana. Dunque, hanno 70 (settanta: avete capito?) anni coloro che sono nati nel 1945. 80 (ottanta: avete capito?) ne hanno quelli che allora avevano 10 anni e vissero quello e i precedenti tragici anni solo con gli occhi di un’infanzia trascorsa tra paure, dolori, difficoltà. 90 (novanta: avete capito?) quelli che avevano 20 anni nel ’45, e che poi sono coloro che entrarono appunto nella guerra quando la guerra ufficiale dello Stato italiano, monarchico e fascista, era già finita con l’8 settembre del ’43.
Io oggi il “mio” 25 aprile lo ricordo con due Uomini che ho conosciuto e che avevano due visioni del mondo radicalmente antitetiche, e combatterono dunque su fronti opposti. Nessuno dei due era ciò che oggi un giovane pensa o viene indotto a pensare che fosse un “partigiano” o un “repubblichino” da chi non vorrebbe mai chiusa (da una parte e dall’altra) la ferita della guerra civile. Nell’uno e nell’altro campo – come si affaticava a spiegare anche Indro Montanelli – ci andarono persone tra loro diversissime: gentiluomini e criminali, idealisti e avventurieri. Ed era così anche nelle guerre civili antiche, anche in quelle di Mario e Silla, anche in quella di Cesare e Pompeo. Se tutto questo fosse chiaro, sarebbe molto più facile poi esprimere dei giudizi storico-politici più equilibrati sul passato, giudizi che non potranno mai essere unanimi per forza di cose, che non potranno dare mai luogo a “memorie condivise” che è ingiusto chiedere, ma che possono contribuire a togliere un po’ di veleni ancora in giro, veleni vecchi da cui i più giovani non dovrebbero essere intossicati.
Poco più che 17enne, mi avvicinai al movimento anarchico, e ad Aosta un amico mi fece conoscere un anziano compagno, che era un tipico rappresentante del vecchio mondo anarchico italiano. Ricordo solo il cognome: Borgo. Era un bravissimo artigiano (lavorava il rame, e fu nella sua bottega che lo incontrai) come molti anarchici (tra cui un caro amico di mio nonno paterno), e aveva partecipato alla guerra di Spagna, che fu la grande epopea e la grande catastrofe novecentesca dell’anarchismo spagnolo ed internazionale. Poi, raggiunta l’Italia nel ’44, aveva combattuto nelle file della Resistenza, insieme ai partigiani di Giustizia e Libertà: gli anarchici, là dove erano pochi (quindi sostanzialmente dappertutto al di fuori del Carrarese), si arruolavano con gli azionisti di GL o con i socialisti: non mai con i comunisti stalinisti, poiché ricordavano bene che in Spagna questi ultimi (ovunque dediti a pratiche sterminazioniste al pari dei loro cugini nazisti) erano stati più affaccendati a far fuori anarchici e trotzkisti che fascisti. Mi raccontò che era a Milano il 25 aprile, e partecipò all’apertura delle carceri di San Vittore. “Ma faceste uscire tutti, anche i comuni?” gli chiesi. “Sì, doveva essere il principio di un mondo nuovo” mi rispose. Borgo, con cui poi ci scrivemmo per qualche anno, era un uomo libero, coraggioso, moralmente purissimo, come peraltro la quasi totalità degli anarchici che ho conosciuto (non ho idea alcuna di cosa sia l’anarchismo in senso stretto oggi: ma posso dire con certezza che ancora alle soglie degli anni ‘80 era un movimento – diretto erede di quello ottocentesco - con un grado di eticità individuale altissimo, mentre nei movimenti marxisti dilagava molta discutibile umanità). Che io oggi pensi che quelle di Borgo (e anche le mie di gioventù) fossero idee irrealizzabili e anche non interamente “giuste” pur se animate da spirito di giustizia, non toglie nulla al fatto che Borgo era un Grande Uomo, e oggi può essere il giorno giusto per ricordarmene, perché non mi va giù che soprattutto chi è nato negli anni ’80 o ’90 lo chiami “assassino” o “vigliacco” stando seduto dietro a una tastiera.
Agli inizi di questo nuovo e pessimo secolo XXI con cui non ho nulla a che spartire ebbi invece l’onore di essere ospite a Trieste di Rinaldo Massi, che ammiravo come yamatologo e curatore di una bellissima edizione del “Bushido” di Inazo Nitobe. Massi, nato nel 1924 e morto nel 1912, era presidente dell’Associazione nazionale paracadutisti d’Italia di Trieste, dove mi ricevette insieme agli amici veneti che già lo conoscevano, portandoci poi generosamente a pranzo. Nel ’43 Massi era un ragazzo di 19 anni, e si arruolò nei bersaglieri della Rsi, passando poi a combattere gli angloamericani col Battaglione Paracadutisti Nembo della Folgore nella “battaglia per Roma”, al comando del maggiore Rizzati: una delle più belle e alte figure di tutto l’esercito della Rsi, che perfino Giorgio Bocca nella sua “Storia della guerra partigiana” riconosce come una figura anticonformista e puramente eroica. Massi, mutilato di guerra, vestito con signorile eleganza demodé, mi ricordava l’Erich von Stroheim del magnifico film di Renoir “La grande illusione”. Ci disse senza infingimenti, e senza alcun compiacimento, di aver dovuto fare parte di plotoni d’esecuzione di partigiani catturati. Gli chiesi cosa pensasse dei partigiani. Mi rispose che dal punto di vista militare non erano gran cosa e che senza gli Alleati non avrebbero “liberato” un bel niente, ma precisò che tutti quelli che avevano fucilato erano morti onorevolmente, con grande dignità. “Solo – mi spiegò – almeno a me non capitò mai di sentirli gridare, al nostro fuoco, ‘Viva l’Italia!’. Ci urlavano in faccia ‘Viva Stalin!’, ‘Viva il socialismo!’”. Questo è il racconto di Massi (che conferma le tesi di Pansa: il partigianato comunista – di cui peraltro fece parte pure un mio zio - sognava soprattutto di sostituire una dittatura con un’altra dittatura, e se avessero vinto loro finiva con una mattanza in stile Porzus e poi un bel gulag anche per i partigiani non comunisti: i cattolici, i monarchici, i giellini). Massi pure ci disse: “Io non ho nulla di cui pentirmi. C’è solo una cosa di cui mi vergogno: nel ’38, dopo le leggi razziali, andai con un gruppetto di ragazzini a tirare pietre ai vetri delle case di alcuni ebrei. Quello era un atto di violenza gratuito, volgare, che ancora mi pesa.” Quando sento lo stupidario vetero e neo-antifastista sui “fucilatori” (che si esercitò anche contro Giorgio Albertazzi, che pure mi onoro di aver conosciuto, stupidario che fece sbottare persino il già citato Giorgio Bocca, il quale ricordò che la guerra e soprattutto una guerra civile non è una passeggiata, e da tutte le parti in campo ci stanno plotoni d’esecuzione) mi ricordo del “fucilatore” Massi: uno dei tanti ragazzi che avrebbero voluto (e lui almeno per un po’ ci riuscì) combattere solo contro gli angloamericani per riscattare l’Italia dalla vergogna dell’armistizio badogliano, e mai e poi mai contro altri italiani, ma si ritrovarono nel più terribile gorgo della nostra storia degli ultimi secoli. So che anche Massi era un Grande Uomo, e oggi è il giorno giusto per ricordarmene, contro le “verità” della vulgata che lo vorrebbero una canaglia da cui ci siamo “liberati”.
Dal punto di vista politico e storico, tanto Borgo quanto Massi sono stati due “vinti”. Borgo aveva speso la sua vita giovanile, in Spagna e in Italia, per realizzare la più estrema delle utopie, quella del comunismo anarchico (“Né Dio né Stato, né servi né padroni” diceva il motto che fu caro anche ai miei 17-21 anni) e viveva invece in uno Stato “democratico” che “suicidava” gli anarchici buttandoli giù dalle finestre delle questure. Massi aveva perso un braccio per il “Nuovo Ordine Europeo” e viveva in un’Europa “libera” dove lui, impiegato in banca, fu costretto al prepensionamento quando la direzione scoprì cosa pensasse delle banche. Nonostante ciò, Borgo si sentiva un po’ vincitore, poiché aveva fatto la sua parte nel far crollare una dittatura che non era stata certo tenera con la sua famiglia ideologica, mandandone gli uomini al confino, in prigione, sotto vigilanza continua. E anche Massi si sentiva sicuramente un po’ vincitore, vincitore in quanto mai arresosi a coloro che lo avevano vinto. Con questi miei estinti Amici “vinti” e “vincitori”, i cui corpi sono in decomposizione e le anime chissà dove, trascorro – senza festeggiare e senza maledire - il “mio” 70° compleanno della fine della guerra. Ascoltando i Baustelle.

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