sabato 21 luglio 2012
L'eterno moribondo con una salute di ferro, ovvero questo ha una sua immortalità (o immoralita che lo fa vivere come Faust)
di Antonio Margheriti Mastino
L’ETERNO MORIBONDO
In questi giorni penso spesso a Giulio Andreotti. Cresciuto pure io come lui in mezzo a preti, sacrestie, suore, seminaristi, vecchie bigotte acide e amare, politici democristiani, storie dei papi, credo di capirlo al volo come pochi della mia età.
Penso a lui perché, proprio un anno fa, chi poteva saperlo (e furono parecchi) mi diede la ferale notizia: “Il Divo Giulio sta malissimo: è prossimo a spirare”. Si era in ottobre. Guardavo ogni mattina appena sveglio l’Ansa, per sapere se dovevo prepararmi l’abito buono per far visita alla cara salma nella sala nobile di Palazzo Madama. Passato ottobre, si fu in novembre: ancora niente! Passato novembre fu dicembre e, nel frattempo, cambiata la stagione, non era più buono manco l’abito che avevo preparato per il primo autunno. Chiamai chi poteva sapere e chiesi: “Ma insomma, il presidente muore o non muore?”. La risposta: “Muore, muore. É agli sgoccioli: spirerà da un momento all’altro. Questione di ore”. Ripreparo il vestito invernale, per essere pronto al momento della ferale notizia, ormai imminente. Infatti arrivò primavera: erano morti parecchi altri nel frattempo, lui no. Ritelefonai: “Porca miseria! Che sta spirando a rate?! Spira o non spira insomma?”. Risposta: “Spira, Spira. Questione di settimane”. Annamo bene: la prima volta era questione di minuti, la seconda di ore, la terza di giorni, la quarta di settimane. Va da sé che a luglio era già diventata questione di “mesi”. Ed è lecito sospettare diventerà di anni. Nel frattempo ho dovuto cambiare abito di circostanza quattro volte al mutar delle stagioni… e lui sempre lì, immobile, eterno, sfinge, a sfidare i secoli, disumano pure in quello che per tutti è il momento più umano. L’unico di una intera vita, per taluni. Non per lui.
Andreotti… Andreotti! Era lui il capo del governo quando io sono nato. Era lui il premier la prima volta che mi sono reso conto che esisteva la politica. Averlo rivisto un paio di anni fa, essermi emozionato e di nuovo meravigliato del fatto che me lo immaginavo sempre piccolo ma poi ogni volta era alto quanto me (1.82)… tutto questo l’ho sempre davanti gli occhi!
E’ disumano? E’ marziano come vorrebbe Bocca? No, è solo un “prelato” romano.
Mi meraviglio della gente che parla del “mistero” antico, impenetrabile e tremendo, di Andreotti. Profani! Non lo capiranno mai se per lui usano i comuni parametri per una carriera istituzionale laica qualsiasi, invece che i parametri clericali. Se non lo pensano e non lo vedono nell’agire, nella gestualità minimalista, nella modulazione della voce, nei pudori e nelle malignità della sua ironia gentile e velenosa, soprattutto nello scetticismo verso il mondo e nella diffidenza verso chiunque, nell’anaffettività… se non lo vedono, dico, per quel che è: un esponente del clero romano carrierizio d’altri tempi. La sua infanzia? Giocava coi seminaristi di Segni, tutti futuri cardinali. E’ tutto qui: un cardinale laico, al potere a vita come fin poco fa a vita e in aeternum si era preti, vescovi titolari, cardinali curiali, papi. Chiaro che proprio dalle stesse parrocchie e conventi ciociari e romani siano venuti tanti dei suoi voti.
TU PREGA, E STA ZITTO!
Oro, incenso e mafia. I voti della mafia? Quelli c’erano. Andreotti, però, non c’entra: ha lasciato che la storia e il triste carrozzone della commedia umana facesse il suo corso, che i capponi di Renzo si beccassero a vicenda mentre andavano al macello: lui non era né un pollo né il macellaio, neppure un cliente della macelleria; ma una persona rispettabile a cui un cliente del macellaio dei polli ha fatto “disinteressato” dono di due ottimi capponi. Lui che c’entra? A gallin “donata” non si guarda in culo. Altre parole per spiegarsi non serviranno tra loro: i gesti e il silenzio, dicono tutto; le parole, invece, compromettono. E questo è tutto. La storia “mafiosa” di Andreotti è tutta qui. Tutto e niente.
Capiamoci. Dentro il potere non ci stanno reati che non si possano commettere per mantenerlo: basta non commetterli mai in prima persona, non lasciare prove, tracce; soprattutto la fottutissima carta (cibo per i moralisti scrupolosi e giacobini) quella deve essere sempre a posto, immacolata, sulla carta tutto deve risultare in regola. Pulitisi con la “carta”, inizia la vita vera, la commedia della politica, il dramma del potere. Ecco: punto e a capo.
Diciamolo quindi. L’uomo di potere vero sa due cose: che i voti non hanno odore e non si respingono mai; che non si deve mai personalmente zozzare le mani, ma deve delegare sempre (distrattamente e come non lo riguardasse) lo zozzo a chi zozzo è già. Senza nominare mai l’innominabile. L’uomo di potere vero si fa capire dai silenzi, parla e acconsente coi silenzi, senza dire una parola accetta il male: “sceglie” dostoieskamente il male, se ne può trarre il suo bene o un bene maggiore del male. Per tutti (e se sono magistrati, a maggior ragione), egli “vede” fin dove è lecito vedere, “sa” finché è conveniente sapere. Accetta; in silenzio, senza dire una parola, lasciando che l’orribile, quasi per volontà degli arcana imperia, si faccia sotto, ricavando da esso moltiplicazione di pani e pesci, accetta il mistero tragico e glorioso del potere. Per un uomo di potere così, per un cardinale laico come lui, per un esponente del “clero” di quella stazza, a capo di un aleggiante redivivo Stato Pontificio (che pure in certe pratiche e liturgie temporali romane sembra persistere), l’importante è non dare mai pubblici scandali e il cattivo esempio. Che non deriva (ecco il prete romano) dal praticare certe cose, ma dall’ammetterlo pubblicamente. Dal nominare l’innominabile. Ecco allora la consegna del silenzio. Tu, prega e sta zitto. Eventualmente nega!
“Si non caste, tamen caute”, dicono i Gesuiti. E questo Giulio lo sa da quand’era chierichetto. Prega e fotti. Tacendo.
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