venerdì 20 aprile 2012
Il nome segreto di ROMA
Nonostante l'età sei sempre più bella e carica di fascino indescrivibile. Da un piccolo villaggio sei diventata poleis dilatandoti fino a segnare i confini del mondo antico.
Molti millenni hai davanti, auguri e vita eterna!
Fra i tanti misteri di Roma c'è quello del suo nome. Quando gli storici antichi cominciarono a interrogarsi sulla sua origine e sul significato, si erano già recisi i fili della memoria e le interpretazioni si accumulavano : contraddicendosi; né i moderni sono riusciti a giungere a una conclusione convincente. Servio, vissuto tra il quarto e il quinto secolo d.C., sosteneva che derivasse da un nome arcaico del Tevere, Rumon o Rumen, la cui radice era analoga al verbo ruo, scorro; sicché Roma avrebbe significato la Città del Fiume. Ma Servio era il solo a collegare il nome al Tevere, il quale d'altronde era stato chiamato anche Albula per la presenza di argille nel suo letto '.
Gli storici di lingua greca, ispirandosi a Ellanico di Lesbo, vissuto nel quinto secolo a.C., narravano invece sulla scia dell'Iliade l'arrivo di un gruppo di profughi troiani sulle coste del Lazio dove il loro capo, Enea, avrebbe fondato la città dandole il nome di una delle donne, Rome, che stanca di vagabondare da una terra all'altra aveva convinto le sue compagne a bruciare le navi 2. In un'altra versione della leggenda Rome diventava la figlia di Ascanio e nipote di Enea ; e in un'altra si narrava che Rome, una troiana giunta in Italia con alcuni suoi compatrioti, sposò Latino, re degli Aborigeni, ed ebbe tre figli, Romos, Romylos e Telego- che fondarono una città chiamandola col nome della madre 4.
In questi e altri racconti si riscontra un elemento comune, la derivazione del nome da un'eponima Rome di cui è certo perlomeno l'etimo: rome, che in greco significa forza. È evidente il tentativo dei Greci, che si ritenevano non senza un'eccessiva presunzione i civilizzatori dell'Italia come di altre regioni mediterranee, di considerare Roma una città di origine ellenica.
La leggenda di Enea fuggiasco da Troia era già nota agli Etruschi fin dal sesto secolo, sicché Ellanico potrebbe averla riscritta con l'epilogo della fondazione di Roma, avendo notato che il suo nome era simile a rome.
I NOMI DI ROMA
Un millennio dopo, Servio per restituire Roma giustamente agli italici sosteneva che l'etimo greco non era se non la traduzione del nome originario della città: «Ateìo», scriveva, «asserisce che Roma, prima dell'avvento di evandro, fu a lungo chiamata Valentia e poi Roma con nome greco»
Secondo una variante a queste leggende, a Enea era succeduto Ascanio che aveva diviso il regno dei Latini in tre parti con i fratelli Romylos e Romos. Ascanio avrebbe fondato Alba e altre città mentre Romos avrebbe dato il proprio nome a Roma. Poi la città rimase disabitata per qualche tempo finché non vi s'insediò un'altra colonia guidata da due gemelli, Romylos e Romos, che la rifondarono con lo stesso nome
Vi è infine un terzo gruppo di interpretazioni la cui fondatezza non è da escludere. Si congettura che l'abitato del Palatino, il cui primo nucleo centrale risale all'incirca alla fine del secondo millennio a.C., avesse un altro nome, sostituito durante la dominazione etrusca da Ruma, che i Latini avrebbero poi pronunciato Roma. 11 passaggio dalla u alla o è spiegabile, secondo alcuni filologi che hanno riconosciuto nell'aggettivo rnminalis, nell'epiteto di Giove Ruminus e nella dea Rumina il nome di Roma, con un vocalismo etrusco che oscura la o in u 7.
Ma, stabilita la supposta origine etrusca della parola, che cosa mai poteva significare? Si è sostenuto che Ruma fosse un gentilizio etrusco, testimoniato da qualche iscrizione la cui interpretazione ha suscitato tuttavia molte discussioni. È certo invece che ruma, con le varianti rumis e rumen, significava sia nel latino arcaico che nell'etrusco, da cui derivava, «poppa». Narra a questo proposito Plutarco nella Vita di Romolo: «Sulla rive dell'insenatura sorgeva un fico selvatico che i Romani chiamavano Ruminalis o, come opina la maggioranza degli sludiosi, dal nome di Romolo, oppure perché gli armenti usavano rilirarsi a ruminare sotto la sua ombra di mezzodì, o meglio ancora perché i bambini vi furono allattati; e gli antichi latini chiamavano ruma o poppa: oggi ancora chiamano Rumilia una dea che viene invocata durante l'allattamento dei bambini. Ad essa si offrono libagioni d'acqua, e nei sacrifici in suo onore si cospargono le vittime di latte».
Se questa fosse l'origine del nome, si potrebbe interpretare ruma, come suggerisce lo Herbig, non soltanto come mammella o petto che offre il nutrimento e la vita ma anche, in senso traslato, come sede delle forze vitali racchiuse nel petto: dunque come «forte», omologo al latino I '(tienila e al greco Rome .
Questa ipotesi interpretativa spiegherebbe perché venne scelta in epoca storica, come simbolo della città, la lupa di fattura etrusca identico a quello del misterioso dio che la tutelava; mai svelati pubblicamente nonostante che Giovanni Lorenzo Lido affermasse nel quinto secolo d.C.: «Impugnata la tromba liturgica, che i Romani chiamavano lituus, Romolo pronunciò il nome della città... Una città ha tre nomi: uno segreto, uno sacrale e uno pubblico. Il nome segreto dì Roma è Amor; quello sacrale Flora e Florens; quello pubblico Roma» .
Che il nome segreto fosse Amor era una tarda e infondata credenza, avallata poi nel medioevo e giunta fino a noi come testimonia Giovanni Pascoli scrivendo nell'Inno a Roma:
Risuoni il nome che nessun profano sapea qual fosse, e solo nei misteri segretamente s'inalzò tra gl'inni... Amor! oh! l'invincibile in battaglia!
È pur vero che la lettura del nome di Roma da destra a sinistra era conosciuta fin dall'antichità, come testimonia un graffito trovato sulla parete di una casa di Pompei, nella via tra le insulare vi e rx della prima regione: sono quattro righe disposte a quadrato, quasi allusioni alla Roma quadrata del Palatino. Le lettere esterne, partendo dall'alto e scendendo verso il basso per poi proseguire a destra e infine verso l'alto, compongono il nome di Roma alternato a quello di Amor in una sequenza dove l'ultima vocale o consonante diventa la prima lettera della parola successiva: ROMAMOROMAMOR.
Ma quel graffito non può rivelare il nome segreto che era tutelato severamente, come attesta Servio ancora nel quinto secolo d.C.: «Nessuno pronuncia il vero nome dell'Urbe, persine nei riti. E così dunque Valerio Sorano, tribuno della plebe, poiché ardì pronunciare questo nome, fu rapito per ordine del Senato e posto in croce, come dicono alcuni storici; secondo altri, per timore del supplizio fuggì e in Sicilia, catturato dal pretore, venne ucciso per ordine del Senato».
Secondo la tradizione romana - riscontrabile oggi ancora in molti Paesi non occidentali - il nome era la formula che esprimeva l'energia di ciò che si nominava. Conoscere il nome era conoscere la cosa, sicché la conoscenza del nome dava le chiavi per poter influire - nel bene e nel male - sulla cosa stessa. Conscguentemente i Romani usavano evocare negli assedi il dio che aveva in tutela la città assediata promettendogli un culto pari o maggiore in Roma. «Per questo motivo i Romani», scriveva Servio «vollero che fosse celato il dio nella tutela del quale è Roma, e nelle leggi pontificali si badò bene a non chiamare con i loro nomi gli dei di Roma affinchè non potessero essere oggetto di exauguratio. Sul Campidoglio vi fu uno
scudo consacrato sul quale era scritto: Al Genio della città di Roma, maschio o femmina [Genio Urbis Romae sive mas sive femina]. E i Pontefici così invocavano: Giove Ottimo Massimo, o con qualunque altro nome tu voglia essere chiamato.»
È impossibile dunque che il nome segreto della città sia pervenuto fino a noi perché chi era autorizzato a conoscerlo non lo avrebbe mai affidato a uno scritto, che poteva cadere nelle mani di un non iniziato provocando un sacrilegio; e se fosse stato trasmesso oralmente fino ad oggi, ipotesi che non si può totalmente escludere, non sarebbe svelato. Quanto alla storia del tribuno della plebe giustiziato per aver pronunciato il suo nome, sembra più un ammonimento che una notizia fondata perché era impossibile che il nome arcano potesse essere conosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di aristocratici, ovvero di iniziati.
Oggi si possono proporre soltanto alcune ipotesi non per individuare il dio sive mas sive femina e con lui il nome segreto di Roma, ma per coglierne le manifestazioni o i nomi proposti exotericamente alla venerazione pubblica. Ci pone sulla buona strada non tanto l'affermazione di Iido che il nome sacrale era Flora, la Sempiterna Fiorente celebrata alla line di aprile nei Floralia, giochi festosi e sensuali che talvolta sconfinavano durante le notti in spettacoli osceni, quanto il non casuale culto congiunto di Venere Genitrice e di Marte Ultore che la restaurazione religiosa augustea vede come divinità tanto complementari da dedicare loro lo stesso Pantheon.
Si potrebbero interpretare le due divinità come i due aspetti complementari della ruma, della mammella: Venere esprimerebbe la funzione materna, Marte quella guerriera, virile; sicché non sarebbe del tutto infondato affermare che il nome di Roma, letto da destra a sinistra, alluderebbe al dio padre di Romolo e Remo e difensore della città, mentre la lettura da destra a sinistra alluderebbe a Venere, madre di enea e progenitrice del popolo romano.
Ma entrambi non sono se non ipostasi della misteriosa divinità androgina cui possono attribuirsi molti nomi, anch'essi pronunciabili ovvero exoterici. La si può evocare per esempio come Mater Magna, che nel mito frigio assumeva le sembianze dell'ermafrodito Agdistis o Cibele: o non casualmente Cibele era adorata sul Palatino dov'era stata portata dall'Asia Minore nel 205-204 a.C. Oppure può assumere le sembianze del dio purificatore e fecondatore, venerato anticamente sul monte Soratte col nome di Soranus, il Lupo, da sacerdoti sabini chiamati lupi: (il Soranus che Virgilio non causalmente identificava con Apollo, il dio patrono di Augusto.
Non si sorprenda il lettore di questa proteiforme epifania di divinità, normale in una religione «politeistica» dove, come osservava il cardinal
Cusano ne La dotta ignoranza, i nomi dei vari dei non sono esplicazioni e aspetti funzionali di un unico ineffabile nume: nomi tratti in realtà dalla considerazione delle varie relazioni che Egli ha con le creature. Uno ineffabile che non ha un sesso definito, perché «la causa di tutte le cose», spiegava il teologo e filosofo umanista, «ossia Dio, complica in sé il sesso maschile e femminile... Anche Valerio Romano sostenendo lo stesso concetto, cantava Giove come onnipotente genitore e genitrice».
A questa divinità senza nome, sive mas sive femina, Adriano s'ispirò costruendo nel secondo secolo il maestoso tempio di Venere a Roma, lungo 145 metri e largo 100, volendo significare che il nome palese dell'Urbe deificata s'identificava con la forza cosmica di coesione e di vita designata exotericamente con il nome della dea che aveva generato Enea. L'imperatore romano alludeva enigmaticamente in un gioco di specchi all'ineffabile realtà che si celava dietro le due immagini. «I templi di Roma e Venere sono della stessa grandezza e alle due divinità si offrivano incensi contemporaneamente» cantava il poeta Prudenzio due secoli dopo: «Urbis Venerisque pari se culmine tollunt Templea: simul geminis adolentur tura deabus».
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