di Marco Goldin
Fino all’inizio di settembre, due volte alla settimana, pubblichiamo alcuni frammenti in sequenza del lungo saggio/racconto che Marco Goldin ha scritto per il catalogo della mostra “il tempo di Giacometti da Chagall a Kandinsky. Capolavori dalla Fondazione Maeght” (www.lineadombra.it) che prenderà il via a Verona, nel Palazzo della Gran Guardia, il 16 novembre prossimo. Le prenotazioni (0422 429999) si apriranno lunedì 9 settembre.
“[…] I ritratti di
Yanaihara sono per Giacometti, in pittura, una vera e propria presa di
coscienza. Quando il filosofo giapponese gli chiedeva perché avesse
bisogno di lui e perché non potesse proseguire con i volti di Diego e
Annette, si sentì rispondere che era grazie a lui se aveva fatto dei
progressi: “Non sono mai andato così lontano. Certo, continuerò il
lavoro con Diego o Annette in vostra assenza, ma è il vostro ritratto
che vorrei dipingere e non un altro, beneficiando così dei progressi che
ho potuto fare grazie a voi”. Perché rispetto ai ritratti dedicati al
fratello o alla moglie, o anche quelli dedicati a Jean Genet, quelli su
Yanaihara hanno un loro lato di nascondimento e silenzio, di
“scomparibilità", che gli altri non avevano e mai avranno. Come se il
peso della quotidianità, del racconto e finanche dell’aneddoto fosse
fuggito lontano e il pittore quasi inconsapevolmente fosse riuscito a
essere leggero come una piuma. Tra segni, luci e vento.
Soprattutto i quadri dell’autunno 1956, che sono i mesi cruciali delle giornaliere sedute di posa, così importanti da fargli ritardare il rientro in Giappone, hanno un lato di apparente non finito che potrebbe associarli al non finito di Cézanne, un pittore tanto amato da Giacometti. Che però poi da un lato viene liquefacendo la sua materia, in quella grande aura che tiene compresa la testa e il busto di Yanaihara, dall’altro macera di segni il volto ma senza desiderare la violenza su quegli occhi, su quello sguardo. Come se il pittore si fosse fermato un centimetro prima di affondare del tutto il bisturi, avesse provato pietà e sospeso quei tagli aguzzi fatti di segni e tempesta, di onde e bufera.
Yanaihara, con la sua espressione assorta e lievemente malinconica, immette Giacometti nel flusso più vero della sua pittura, la rende una dichiarazione autonoma e necessaria. Per questo motivo, da qui in avanti, le sue tele tormentate non saranno più le stesse. Non potranno più essere le stesse. […]”
[Alberto Giacometti, Isaku Yanaihara, 1956 / Parigi, Musée National d'Art moderne, Centre Georges Pompidou]
Soprattutto i quadri dell’autunno 1956, che sono i mesi cruciali delle giornaliere sedute di posa, così importanti da fargli ritardare il rientro in Giappone, hanno un lato di apparente non finito che potrebbe associarli al non finito di Cézanne, un pittore tanto amato da Giacometti. Che però poi da un lato viene liquefacendo la sua materia, in quella grande aura che tiene compresa la testa e il busto di Yanaihara, dall’altro macera di segni il volto ma senza desiderare la violenza su quegli occhi, su quello sguardo. Come se il pittore si fosse fermato un centimetro prima di affondare del tutto il bisturi, avesse provato pietà e sospeso quei tagli aguzzi fatti di segni e tempesta, di onde e bufera.
Yanaihara, con la sua espressione assorta e lievemente malinconica, immette Giacometti nel flusso più vero della sua pittura, la rende una dichiarazione autonoma e necessaria. Per questo motivo, da qui in avanti, le sue tele tormentate non saranno più le stesse. Non potranno più essere le stesse. […]”
[Alberto Giacometti, Isaku Yanaihara, 1956 / Parigi, Musée National d'Art moderne, Centre Georges Pompidou]
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