Luca D'Ammando
Lenin morì durante un inverno freddissimo, il 24 gennaio 1924. Siccome
il Partito intendeva costruire un mausoleo che ne ospitasse la salma, la
terra ghiacciata sulla piazza Rossa fu fatta saltare con la dinamite.
Da allora il suo corpo imbalsamato, disteso dentro una teca di
cristallo, a due metri di profondità, torna a tormentare ciclicamente la
memoria dei russi. Nei giorni delle celebrazioni del centenario della
Rivoluzione d’ottobre a riaccendere le polemiche ci ha pensato Ksenia
Sobchak, già presentatrice tv, ora candidata alle elezioni presidenziali
del prossimo marzo. «Se fossi eletta – ha detto la figlia del mentore
politico di Putin – ordinerei di rimuovere la mummia di Lenin dal
Mausoleo e di seppellirla». Le ha replicato Valentina Matvijenko,
presidente del Consiglio della Federazione, proponendo un referendum
popolare sulla questione. Ma non subito, «c’è ancora un’intera
generazione di russi per i quali Lenin ha un grandissimo significato».
Ecco, l’intramontabile culto della personalità che si intreccia con le
contraddizioni della Russia post-sovietica. Più prosaicamente Mikhail
Fyodotov, capo del Consiglio russo per i Diritti umani, ha proposto di
trasformare il Mausoleo in un museo sulla tecnica dell’imbalsamazione,
nella quale i russi sono all’avanguardia nel mondo. Esempio più evidente
è il cosiddetto “gruppo del Mausoleo” dell’Istituto di ricerca per le
strutture biologiche di Mosca: composto da anatomisti, biochimici e
chirurghi, si occupa della manutenzione del corpo di Lenin, ed è
arrivato a impiegare fino a 200 persone (oggi sono circa un quarto).
Sono loro a conservare anche le salme dei nordcoreani Kim Il Sung e Kim
Jong Il e del vietnamita Ho Chi Min. E sono loro che ogni due anni
sottopongono la mummia di Lenin a un trattamento speciale: la immergono
in una vasca rigenerante riempita di una soluzione formata da glicerolo,
formaldeide, acetato di potassio, alcool, perossido di idrogeno, acido
acetico e acetato di sodio. Per evitare la disidratazione, il grasso
naturale della pelle viene sostituito con un materiale modellabile in
paraffina, glicerina e carotene. Infine vengono sostituiti ciclicamente
le ciglia e i pezzi di pelle deteriorati.
Ma non c’è solo la Russia. Anche l’Italia può ritenersi storicamente
un’eccellenza nell’arte dell’imbalsamazione. Lo testimonia il corpo di
Giuseppe Mazzini, spirato il 10 marzo 1872, pietrificato, reso eterno
nella carne fatta marmo. La prima vera icona politica del nostro Paese,
protagonista di una storia rivoluzionaria anche da morto. Mazzini, che
aveva chiesto per sé onoranze funebri discrete («Tutte le
commemorazioni, trasporti di cenere, statue, m’intristiscono l’anima»),
trovava l’imbalsamazione una profanazione: «Non ho mai capito l’affetto
di quei che fanno imbalsamare un cadavere di persona amata». Invece,
cercando di trarre dalla morte di Mazzini un’occasione di propaganda, il
leader parlamentare dell’Estrema sinistra Agostino Bertani si fece
venire l’idea di imbalsamarlo, esponendone la mummia. Per attuare il
progetto si rivolse al fratello per affiliazione massonica Paolo Gorini,
che da trent’anni andava facendo esperimenti di imbalsamazione
nell’ospedale di Lodi. Anziché la tecnica tradizionale, Gorini proponeva
la pietrificazione, tecnica che garantiva una maggiore durata
(sostituendo i liquidi organici con sali minerali i tessuti
s’indurivano), ma richiedeva mesi di lavoro. Così solo il 10 marzo 1873
la salma di Mazzini fu pronta per l’ostensione. Ha scritto Sergio
Luzzatto nel saggio
1872. I funerali di Mazzini: «Molta gente
villereccia, dinanzi al cadavere, non sapendo come meglio esternare i
suoi sentimenti di rispetto e di venerazione, si faceva il segno della
croce e mormorava un requie».
Negli stessi anni iniziava a operare la principale dinastia di
imbalsamatori italiani, quella dei Signoracci, che si sono occupati di
papi, re, aristocratici, artisti e attori. «La nostra famiglia iniziò a
lavorare nella morgue dal 1870», ha raccontato Massimo, ultimo erede,
tecnico dell’Obitorio comunale del Verano di Roma. «Iniziò tutto con
Giovanni Signoracci. Lo chiamavano Er Vetrinone, perché faceva vedere i
morti ai parenti solo dietro una vetrina, un po’ quello che succede
ancora oggi con i riconoscimenti». La massima notorietà, la famiglia, la
conobbe negli anni Sessanta e Settanta con il padre di Massimo, Renato,
e con gli altri due zii, Arnaldo e Ernesto, divenuti celebri come
imbalsamatori di tre papi: Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo I.
Tra gli altri, i Signoracci mummificarono Antonio Segni («dovemmo
adattarci a lavorare su una porta messa in piano»), Pietro Nenni, Romolo
Valli, Paolo Stoppa e Martin Balsam, l’attore che in
Psycho
impersona l’investigatore privato ucciso da Norman Bates. Cesare, il più
esperto, capotecnico dell’obitorio: «L’imbalsamazione è opera di
altissimo artigianato, bisogna esserci portati. Ci vuole amore. A tutti
noi Signoracci piace tanto imbalsamare i morti. Servono grande
precisione, molta applicazione, profonda conoscenza del corpo umano,
rispetto per la salma, pazienza biblica». Massimo Signoracci: «Quasi
nessun italiano richiede l’imbalsamazione. Da noi non c’è il culto dei
morti».
Mao Zedong
Più che il culto dei morti è stato il culto della personalità a portare
alla mummificazione di Abraham Lincoln, il 16esimo presidente americano,
nel lontano 1865. Lincoln può essere considerato il primo di una
lunghissima schiera. Oggi il corpo di Mao Zedong è esposto nel mausoleo
in piazza Tienammen a Pechino. Tra gli ex dittatori comunisti
mummificati ci sono anche il bulgaro Georgi Dimitrov e il cecoslovacco
Klement Gottwald. Oscura, invece, l’imbalsamazione dell’ex dittatore
filippino Ferdinand Marcos: il corpo fu esposto dalla sua famiglia, ma
molti sostengono che si tratti solo di una statua di cera. Un capitolo a
parte meriterebbe la vicenda del corpo imbalsamato dell’argentina Evita
Perón: esposto per due anni, poi scomparso a seguito del colpo di stato
militare del 1955, infine ritrovato nel 1971, in una cripta a Milano.
La mancata imbalsamazione del corpo di Hugo Chávez, annunciata alla sua
morte ma poi risultata impossibile viste le condizioni del cadavere, è
apparsa come una beffa, l’ultimo segno degli ideali rivoluzionari
traditi. «Sarebbe stato necessario trasferire il corpo in Russia per 7/8
mesi», spiegò nel marzo 2013 il ministro della Comunicazione
venezuelano Ernesto Villegas. Così come la cremazione del corpo di Fidel
Castro, di cui il 25 novembre ricorre il primo anniversario della
morte, è apparsa come un segnale di cambiamento delle tradizioni, fa
pensare che non è più il tempo delle mummie rivoluzionarie.