Un frammento di antichità magno-greca nella Domenica
delle Palme
di Redazione FdS
Quella
che stiamo per raccontarvi è forse una delle testimonianze più palesi di quel
processo di sincretismo, ossia
di contaminazione, che ha caratterizzato il passaggio dal Paganesimo al
Cristianesimo, allorquando dottrine e culti di origine diversa, soprattutto
nella sfera delle credenze religiose, si sono fusi dando vita a degli ibridi in cui
non sempre sono distinguibili le matrici. Vi
sono però casi in cui la leggibilità dei caratteri originari è particolarmente
marcata, a dispetto del nuovo imprinting conferito
ad un’usanza dalla dottina o dal culto “vincitore” a scapito di quello
“soccombente”. Questo per dire che certe tradizioni sono frutto di un
compromesso che storicamente ha permesso il passaggio dal “vecchio” al “nuovo” senza
troppi traumi da parte del popolo. Un caso lampante è quello della processione
delle Persephoni (popolarmente dette pupazze) che si
tiene ogni anno a Bova, la
Domenica delle Palme, nel cuore di ciò che resta dell’antica
zona ellenofona in provincia di Reggio Calabria.
Rappresentazione di Demetra legata ai misteri eleusini, si noti l'accostamento spiga di grano frutto del papavero da oppio: mantenimento della vita e trascendenza.
Si
tratta di un rito antichissimo che non ha
corrispondenze attuali nel resto della Calabria e che consiste nel portare in
processione, fino alla Chiesa di San Leo, la principale di Bova, delle grandi sagome femminili
costruite con foglie di ulivo (della
varietà Chianota-Sinopolese),
intrecciate con sapienza dai contadini intorno ad un asse di canna per dar
forma a figure stilizzate dette appunto “pupazze”. Diverse per dimensioni, si distinguono in madri e figlie e
sono adornate con fiori freschi di
campo, frutta fresca e primizie. La processione si snoda per i
vicoli tortuosi del borgo in un giorno sacro per il Cristianesimo (evocante
l’entrata di Cristo in Gerusalemme), ma celebrando in realtà l’esplosione di
vita insita nel ritorno della Primavera. L’ingresso in chiesa per la benedizione
può forse considerarsi l’effettivo punto di passaggio fra un rito pagano
celebrante la ciclicità della vegetazione e la relativa legittimazione in
ambito cristiano attraverso il suo assorbimento all’interno delle festività
pasquali.
Nella
chiesa le pupazze sono disposte ai lati dell’altare
presenziando alla liturgia. Terminata la messa, le Persephoni vengono portate
fuori dalla chiesa, lasciando che la gente le smembri in varie parti dette “steddhi”,
distribuite fra i presenti. C’è chi colloca almeno una “steddha” benedetta su
un albero del proprio podere, dove rimarrà per tutto l’anno a simboleggiare il
rapporto sacro che unisce uomo e creato, e chi invece la appende sulla parete
della propria camera da letto o su un mobile accanto ad immagini sacre e foto
di propri familiari. C’è
poi un uso propiziatorio delle foglie d’ulivo benedette e che consiste nello “sfumicari”, ossia fare delle fumigazioni
per allontanare il malocchio dalla casa e dai suoi abitanti. Questo momento del rito si esegue
ponendo su un pezzo di brace ardente tre grani di sale più quattro foglioline
consacrate disposte a croce. Il fumo prodotto dalla combustione viene
utilizzato per “incensare” la casa accompagnandosi con la recita della seguente
preghiera, evidente versione cristiana di qualche più antica formula
apotropaica: “A
menza a quattru cantuneri nci fu l’Arcangelu Gabrieli, dui occhi ti docchiaru,
tri ti sanaru, lu Patri, lu Figghiu, lu Spiritu Santu. Tutti li mali mi vannu a
mari e lu beni mi veni ccani. Lu nomu di San Petru e lu nomu di San Pascali, lu
mali mi vai a mari lu beni mi veni ccani” (in
mezzo a quattro cantoni c’era l’Arcangelo Gabriele, due occhi ti osservarono,
tre ti sanarono, il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo. Che tutti i mali vadano
a mare e che il bene venga qui. Nel nome di S. Pietro e nel nome di S. Pasquale
che i mali vadano a mare e che il bene venga qui). Trascorso l’anno, i
ramoscelli benedetti, continuano ad essere sacri e l’unico modo per disfarsene
senza sacrilegio è incenerirli col fuoco.
Volendo
fare una riflessione sulle possibili origini di questo rito non si può
prescindere dal carattere di queste figure femminili, spesso imponenti, che ricordano il mito greco di
Persephone e di sua madre Demetra, dee che presiedevano alla
fertilità e all’agricoltura. Il mito, metafora del ciclo delle stagioni e della
fertilità della natura, racconta che Persefone, figlia di Demetra e Zeus, venne
rapita nel campo Niseo da Ade, dio dell’oltretomba, che la portò negli inferi
contro la sua volontà per sposarla ancora fanciulla. Nell’oltretomba le venne
offerta della frutta, ed ella mangiò senza appetito solo sei semi di melograno.
Persefone ignorava però che chi mangia i frutti degli Inferi è costretto a
rimanervi per l’eternità. La madre Demetra, dea della fertilità e
dell’agricoltura, che prima di questo episodio procurava agli uomini interi
anni di bel tempo e di raccolti, reagì disperata al rapimento, impedendo la
crescita delle messi, scatenando un inverno duro che sembrava non avere mai
fine. Con l’intervento di Zeus si giunse ad un accordo, per cui, visto che
Persefone non aveva mangiato un frutto intero, sarebbe rimasta nell’oltretomba
solo per un numero di mesi equivalente al numero di semi da lei mangiati, potendo
così trascorrere con la madre il resto dell’anno. Così Persefone avrebbe
trascorso sei mesi con il marito negli Inferi e sei mesi con la madre sulla
terra. Demetra allora accoglieva con gioia il periodico ritorno di Persefone
sulla Terra, facendo rifiorire la natura in primavera ed in estate.
Il
culto delle due dee fu molto praticato nell’antichità (in Grecia ad esse erano
dedicati i celebri Misteri Eleusini la cui prima parte, i cosiddetti piccoli misteri, si
svolgeva proprio in primavera nel mese di Antesterione) ed ebbe ampia
diffusione in Magna Grecia dove addirittura si ricollegava la vicenda mitica a
dei luoghi reali ben precisi. Non ci dimentichiamo che ci troviamo in un’area
esposta nell’antichità all’influsso di Locri
Epizephiri, una fra le località note per il culto di Persefone e
Demetra. E’ probabile che già in epoca greco-bizantina, periodo nel quale tutta
la Calabria era ancora ellenofona, la tradizione cultuale avesse subito
delle metamorfosi e che attraverso i secoli (per il passato, il rito di Bova è
ad esempio particolarmente attestato nel ‘600) sia poi giunta fino a noi nella
forma che conosciamo. Certo è che gli elementi per sospettare fortemente un
collegamento con l’antichità pagana sono diversi: dalla duplice figura
femminile della mamma e della figlia, all’utilizzo
di fiori di campo e frutta per adornarle, elementi che non sembrano potersi
inquadrare in ambito cristiano senza forzature.
Nettamente
orientata in questa direzione è Alfonsina Bellio, specialista
di Scienze Storico-antropologiche delle Religioni, che al misterioso rito
di Bova ha dedicato il saggio “All’ombra
delle pupazze in fiore. Antropologia di un rito nella Calabria grecanica”
Paese di Pentedattilo, legato alla Calabria grecanica
edito da Kurumuny con la prefazione di
Vito Teti. Nel libro l’autrice analizza l’organizzazione della festa, ne indaga
le origini ed il significato da essa acquisito per la comunità di Bova. In
particolare cerca di comprendere come l’uso di portare in procesisone tali
figure femminili abbia finito con l’incrociarsi col rito cristiano della Domenica
delle Palme. “Diversi
giorni prima, alcuni uomini –
racconta l’autrice – hanno
già portato grandi rami d’ulivo delle varietà locali, la chianota sinopolese, e
canne lunghe, che servono per allestire le strutture portanti delle pupazze.
Assemblate le varie parti la pupazza è pronta. La si decora con nastri
colorati, merletti, rami di mimosa e margherite bianche e gialle e altri fiori
spontanei e poi frutta in abbondanza. Alcune figure sono abbellite da orecchini
a forma di minuscolo paniere o altri monili. Ci sono figure molto grandi e
altre più piccole, che vengono definite “madri” e “figlie”, nel segno dell’evocazione del mito greco
(Demetra e Kore-Persefone).
Un
passaggio particolarmente significativo nella ricostruzione della Bellio è nel
punto in cui sottolinea come lo stesso sacerdote nell’introdurre il rito metta
in evidenza che queste “palme” evocano
in realtà antiche figure mitologiche che segnano il passaggio dall’inverno alla
primavera, dalla morte alla vita. In questo modo – sottolinea l’autrice – “i temi della Pasqua cristiana
nell’omelia vengono ricondotti alla festa primaverile di morte e rinascita e
quindi ad antichi culti agrari.” Soprattutto
nel succitato momento conclusivo del rito, ossia quello dello smembramento
delle figure, la studiosa ritrova un rimando indiretto all’Eucarestia, sebbene
in questo caso ad essere simbolicamente “ricordato”, distribuito e “mangiato”,
è il corpo e il sangue divino della madre (Demetra) e della figlia (Persefone).
Inoltre, chiamando in causa Luce Irigaray, massima teorica della differenza
sessuale e sostenitrice della tesi che gli uomini hanno instaurato il
patriarcato distruggendo le genealogie femminili, la Bellio analizza un altro
aspetto del rito di Bova e cioè il fatto che “le
pupazze, figure femminili in fiore, sono preparate e portate solo da
giovanotti, in un periodo festivo in cui avviene uno scambio di doni tra
fidanzati”. Una separazione di ruoli che vede gli
uomini alle prese col compito di preparare e portare in corteo le pupazze, mentre le
promesse spose svolgono quello di impastare i dolci pasquali per il proprio
futuro marito.
Tutto
questo ci fa rendere conto di quanto molteplici possano essere le implicazioni
culturali di quella che ad occhi meno smaliziati può sembrare una semplice
usanza del periodo pasquale. Un motivo in più per salvaguardarla e per
tramandarne la pratica in un prezioso processo di conservazione delle nostre
radici più autentiche.
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