sabato 10 gennaio 2015

La brutta figura di D'Annunzio nel processo intentato a Scarpetta


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Scarpetta, D'Annunzio ed il processo per plagio!
10.1.2015«Che cacchio m'accòcchia stu cacchio de Còcchia!» 

Sempre irridente, Eduardo Scarpetta, ed anche in Tribunale, ove fu trascinato da Gabriele D'Annunzio per presunto plagio, non fu da meno. La frase divenuta famosa, il grande commediografo, la rivolse sbottando tra il serio ed il faceto come era suo costume, all'indirizzo del latinista e filologo Enrico Còcchia, che come perito sostenne le ragioni di Gabriele D'Annunzio, nel processo per presunto plagio alla sua tragedia “La figlia di Iorio”, passato poi alla storia come una pietra miliare della giurisprudenza in merito al diritto d'autore. 
Ma andiamo per ordine. Negli ultimi anni della sua carriera Scarpetta, rivolse la sua vena creativa alla satira ed alla parodia. Il 6 febbraio del 1904, a Roma, nel Teatro Valle, rappresentò per la prima volta con un buon successo, La geisha, una parodia di un'opera di Sidney Jones, dove si ironizzava spassosamente sull'attrazione che la borghesia provava in quegli anni per tutto ciò che fosse orientale. Il figlio Vincenzo, grande attore, fu determinante per la riuscita della parodia interpretando in modo davvero egregio la geisha Mimosa-San, mentre nel coro finale, un bambinetto di quattro anni appena, anch'egli figlio di Scarpetta, vestito da giapponesino fece la sua prima apparizione sulle scene. Era Eduardo De Filippo che racconta così l'esperienza: «[...] indossavo un minuscolo kimono a fiori dai colori vivaci che avevo visto cucire da mia madre qualche giorno prima. Improvvisamente mi sentii afferrare e sollevare in alto, di faccia al pubblico, con la luce dei riflettori che mi abbagliava e mi isolava dalla folla. Chissà perché mi misi a battere le mani e il pubblico mi rispose con un applauso fragoroso. […] Quella emozione, quell'eccitamento, quella paura mista a gioia esultante... io le provo ancora oggi, identiche, ad una prima rappresentazione, quando entro in scena.» 
La sera del 2 marzo 1904 viene, invece, rappresentata per la prima volta al Teatro Lirico di Milano la tragedia in tre atti La figlia di Iorio di Gabriele D'Annunzio. Si narra che l'opera ebbe più successo per una questione di “gossip” che per la sua sostanza, infatti, il pubblico accorse in massa per vedere sulle scene l' attrice Irma Gramatica, a quel tempo molto giovane, che veniva indicata come l'ultima amante di D'Annunzio. 
Eduardo Scarpetta decise di proporre una nuova opera satirica, questa volta adattando il copione di D'annunzio. Nacque, così, “Il figlio di Iorio”. Lo spettacolo venne interamente allestito ma Scarpetta, decise di parlarne prima con D'Annunzio e si recò a Marina Di Pisa per incontrare il poeta. Il colloquio con D'Annunzio fu molto piacevole e le cronache raccontano che D'Annunzio si divertì molto alla lettura del copione, tuttavia preferì non dare il proprio consenso scritto nel timore che la rappresentazione satirica potesse nuocere alla propria opera. Successivamente, quando l'opera era già in scena, inviò a Scarpetta un telegramma in cui gli negava il consenso alla rappresentazione. 
“Il figlio di Iorio” andò in scena il 3 dicembre del 1904 al Teatro Mercadante di Napoli. Sulle prime, la commedia ebbe un discreto successo, poi, fioccarono le proteste da parte del pubblico nel quale erano seduti molti fan di D'Annunzio. Lo spettacolo fu interrotto dagli schiamazzi e non fu più ripreso; dalla stampa, poi, Eduardo Scarpetta apprese che D'Annunzio gli aveva sporto querela per plagio e contraffazione, sostenuto da Marco Praga, fondatore della Società degli autori di cui lo stesso D'Annunzio era socio. 
La notizia dell'imminente processo suscitò grande clamore anche a livello internazionale. Si crearono delle vere e proprie fazioni; Salvatore di Giacomo sosteneva D'Annunzio, Benedetto Croce era a favore di Scarpetta. 
Il tribunale diventò un teatro nel quale Eduardo Scarpetta entrò in scena, demolendo le “ragioni” di D'Annunzio. 
Il botta e risposta con il presidente del tribunale è spassosissimo: 
«Scarpetta: Ecco, Signor Presidente , io non sono un oratore, farò del mio meglio...(ricominciando , con tono solenne) Signor Presidente, signori della Corte (scoppio di risa) 
Presidente: Scarpetta, questa non è Corte, è Tribunale. 
Scarpetta: me credevo che stevo facenno o' terz'atto d' O Scarfalietto...» 
Racconta così dell'incontro con D'Annunzio: 
«Presidente: È vero che D'Annunzio vi promise una sua fotografia? 
Scarpetta: Si, volle anche la mia, ma non mi mandò più la sua.» 
Grazia alla perizia svolta a suo favore da Benedetto Croce per la difesa, e nonostante quella a suo sfavore scritta da Salvatore Di Giacomo per la parte civile, Eduardo ebbe la meglio. Il Tribunale dichiarò l'inesistenza del reato, poichè non di plagio si era trattato ma di satira, di parodia, assolutamente legittima. Nella storia della giurisprudenza italiana fu la prima sentenza che si pronuncia in tema di diritto d'autore, di parodia e satira. Da quel momento in poi, fu data un'impronta di legittimità a tutte le successive parodie che avrebbero dato vita ad un'importante categoria dello spettacolo. 
Tuttavia, la vittoria fu per Eduardo molto amara. Il processo durato quattro anni e, soprattutto, l'accoglienza che l'opera aveva avuto in teatro, lo avevano prostrato. Non si sentiva più in grado di cogliere i gusti del pubblico e di fatto tornò a scrivere solo per consegnare ai posteri un suo ultimo capolavoro "'O miedeco de' pazzi", ritirandosi di fatto dalle scene. 
Nel processo, si distinse l'avvocato difensore di Scarpetta Carlo Fioravante del Foro di Napoli, che nella sua arringa diede prova di grandi doti non solo giuridiche ma anche di critica letteraria: « [...] che cosa rappresenta la parodia, onorevoli signori? Rappresenta il bisogno imprescrittibile di ridere, il bisogno di chiedere un'ora di conforto e di tregua lungi dalle miserie e dalle amarezze ond'è stata, e sarà sempre, travagliata la vita. 
La parodia volta il cannocchiale. Essa, contrariamente all'ironia che dà carattere permanente a ciò che è contingente, di solenne a quello che è piccino, di grandioso a quel che è comune e volgare, volta il cannocchiale, capovolge gli uomini e le situazioni. 
Intorno a un luminoso artista come Gabriele D'Annunzio è giusto si raccolgano gli ammiratori. Di questi ammiratori potrei indicare tre categorie: gli ammiratori coscienti, consapevoli, che credono di trovarsi al cospetto della più alta manifestazione della forza dello spirito: costoro sono in buona fede e sono rispettabili. Ve n'è una seconda che io non posso determinare in lingua italiana poiché non trovo una parola così energica e precisa che renda il mio concetto e chiedo permesso di attingere al dialetto: vi sono i patuti. I patuti che effondono i tesori della loro ammirazione inconsapevole su coloro che meno intendono. Ve n'è, infine, una terza più pericolosa delle altre: quella dei servitori ai quali è concessa una sola libertà: esagerare gli ordini del loro padrone!» 

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