sabato 27 aprile 2013

Le utopie possibili, impedite sul nascere

di Giovanni Tarantino - 26/04/2013 C’erano una volta le utopie, o forse, dopo tutto, ci sono ancora oggi. «C’è un mondo reale che diventa favola», diceva Nietzsche. Spesso l’utopia coincide con un’idea di polis, di città. Utopia, per Tommaso Moro, era d’altronde una città. Tommaso Campanella, nel 1602, immaginò La città del Sole: «Sorge nell’alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del monte dentro vi sono tutte l’arti, e l’inventori loro, e li diversi modi, come s’usano in diverse regioni del mondo». La “città del sole” ha stimolato anche l’interesse di Ernst Jünger, nato a Heidelberg nel 1895, morto nel 1998, che ha attraversato un secolo, il Novecento, tempo di ideologie e di utopie. Jünger è stato nichilista, poi spiritualista libertario (dirigendo per anni con Mircea Eliade la rivista Antaios) ma è morto cattolico, a seguito di una conversione profond maturata nel 1996, a 101 anni. Il progressivo ripudio della tecnica e della globalizzazione, predominanti nella società occidentale, porta Jünger ad assumere la posizione dell’“anarca, e del Waldganger, che alla lettera sta per l’“uomo che si dà alla macchia”, impropriamente presentato nelle traduzioni italiane come il “ribelle” («è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il ribelle attinge alle fonti della moralità non ancora disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice». In Jünger il singolo libero è colui che passa al bosco, che migra e che almeno metaforicamente si allontana consapevolmente e spiritualmente dalla tecnica e dal potere. Eppure lungo tutto il suo corso e la sua vasta produzione bibliografica, Jünger ha inventato città, in una trilogia inauguratasi nel 1939 da Sulle scogliere di marmo, proseguita dieci anni dopo con Heliopolis, conclusasi nel 1977 con Eumeswil. Se perfino questo grande intellettuale e testimone del Novecento ha reso la città un luogo immaginario, immateriale, dove la “città del sole” corrisponde a una dimensione dell’anima, è stato invece l’italiano Adriano Olivetti che, partendo da presupposti ontologicamente diversi, ha provato a dare struttura concreta e reale a quella che ha definito “città dell’uomo”. Unico caso, tra quelli menzionati, di utopia realizzabile. Michele Mornese, nel suo L’eresia politica di Adriano Olivetti, ha spiegato: «A differenza della Repubblica di Platone, dell’Utopia di Moro e della Città del Sole di Campanella, l’utopia di Adriano Olivetti si è dimostrata, almeno parzialmente, possibile. L’azienda Olivetti apportò contributi di modernità nel territorio, nei limiti della propria potenza economica, dando vita ad un capitalismo sociale, dal volto umano. Il concetto di utopia assume, alla luce di queste realizzazioni, segno positivo di intervento concreto che può aiutare a collocare nel giusto orizzonte culturale la sintesi di mondo materiale e mondo spirituale tentata da Olivetti. Ovvero la convinzione che il primo celi in sé forze latenti di autosuperamento, le quali ispirano un pensiero e un’etica dell’azione definibili come “forza vitale”». Ivrea, la fabbrica a dimensione di operaio, con biblioteche, con vetri a giorno, luogo ideale per lavorare e vivere. Esempio tangibile di come dovrebbe agire un imprenditore illuminato, quale Olivetti è stato. Scrive Laura Olivetti, figlia di Adriano, nella presentazione al volume Costruire la città dell’uomo. Adriano Olivetti e l’urbanistica: «Sembrerebbe quasi che la parola utopista venga adoperata per storicizzare la sua figura con una modalità che tende a rimuovere e cancellare molto di quello che è stato fatto. È strano perché, tranne rarissimi casi, quando viene spiegato perché fosse un utopista si elencano automaticamente molte cose invece portate a termine e la parola utopia si dissolve». Scomparso nel 1960, quando ne vengono rievocate le gesta in dibattiti, tavole rotonde, c’è sempre un pizzico di rimpianto. Olivetti è stato magistralmente raccontato in una storia a fumetti (edita da Becco Giallo) scritta da Marco Peroni (che è originario di Ivrea proprio come Olivetti) e disegnata da Riccardo Cecchetti. Un secolo troppo presto è il sottotitolo non casuale del libro: «Adriano credeva in una società di tipo nuovo, al di là del capitalismo e del socialismo. Attorno alla sua Ivrea, “l’Atene degli anni Cinquanta”, costruì il prototipo di un nuovo ordine, una comunità concreta in cui industria e cultura, profitto e solidarietà, produzione e bellezza si tenevano per mano». Basta poco per capire che fu un vero precursore, uno che aveva anticipato di gran lunga i tempi. Che, forse, per i suoi di tempi era troppo avanti: ai giovani del Movimento Comunità, da lui fondato nel 1948, che gli rimasero attorno dopo le lacerazioni provocate dall’esito infruttuoso delle elezioni politiche del 1958, egli diceva, senza rimpianti e senza crucci per le sconfitte subite, che occorrevano ancora dieci anni di lavoro in “solitudine”. Poi la Comunità avrebbe proseguito il lavoro con le proprie forze. Questa utopia andata comunque al potere è oggi raccontata, nuovamente, con grande merito dalle Edizioni di Comunità: il marchio della casa editrice, fondata dall’imprenditore nel ’46, è tornato a vivere. Grazie alla cura del direttore editoriale Beniamino de’ Liguori Carino, tornano in libreria le più importanti opere di Olivetti, non più disponibili da anni. Un modo concreto per riscontrare l’attualità del pensiero olivettiano, a partire da Ai lavoratori, primo di cinque scritti della collana Humana Civitas.

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