lunedì 5 ottobre 2020

MUNDUS PATET


La morte non precludeva alle anime dei trapassati ogni relazione col mondo dei viventi: esse potevano, anche quelle che avevano trovato pace nella tomba, ritornare in epoche determinate sulla terra. A questi ritorni servivano non solo quelle aperture o caverne che si additavano, in certe regioni, come ingressi naturali dell'Orco (e una di queste era appunto quella dell'Averno), ma anche quelle fosse artificiali che si scavavano in ogni città, costruita secondo le regole della limitazione, nel punto d'incontro del cardo col decumano. Questa fossa si diceva mundus e rappresentava il legame fra il mondo di sopra e quello di sottoterra. A Roma il mundus del Palatino si apriva, sollevando la pietra che lo teneva chiuso, tre giorni all'anno: il 24 agosto, il 5 ottobre, l'8 novembre; questi giorni, del pari che quelli del febbraio destinati alla commemorazione dei defunti, erano riguardati come religiosi, cioè preclusi alla trattazione di qualsiasi affare importante pubblico o privato (contrassegnati negli antichi feriali con l'indicazione: mundus patet; cfr. Fest., pp. 142, 154; Macrob., Saturn., I, 16, 17 segg.).

Ma non soltanto nei giorni in cui il mundus patet e in quelli delle feste a loro dedicate (Parentalia e Feralia, Lemuria) le anime dei morti risalivano sulla terra; si credeva che potessero anche esservi evocate volontariamente con i ben noti antichissimi riti della necromanzia (v.) (cfr. Plin., Nat. Hist., XXVIII, 2, 17); ai quali erano simili quelli della devotio (v.) e della consecratio (v. consacrazione), con cui si mirava, mediante la recitazione di determinate formule (carmina, verba concepta, precationes solemnes, ecc.), a dare l'oggetto del rito in potere degl'Inferi.
Già nell'ultimo secolo della repubblica l'antica credenza nella dimora dei trapassati nell'Orco s'era affievolita in gran parte del popolo, e si pensavano le anime come dimoranti in cielo o nelle stelle, in comunanza con gli dei (Cic., Somnium Scip., III, 5, 8; VII, 17; Tuscul., I, 31, 76; Verg., Aen., V, 722): oppure, mescolando le due concezioni, si ammetteva che scendessero all'Averno le anime degli uomini volgari, e salissero invece al cielo quelle di coloro che s'erano distinti, in vita, per grandi e nobili azioni (Cic., Somnium Scip., III, 5; V, 10; IX, 21; Tuscul., I, 12, 27). Al che si riconnette la distinzione (assai frequente dall'ultimo secolo della repubblica in poi) fra sedes piorum, in cielo, e sedes impiorum, sottoterra. E, mentre nelle opere dei poeti le idee greche relative all'oltretomba (v. ade) si andavano sostituendo in misura sempre più larga a quelle indigene o mescolando con esse, già al tempo di Cicerone era assai diffusa la credenza che l'anima non sopravviva al corpo (Lucr., II, 417-827).

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