E l'«Arpa di Fellini»
suonò la «Dolce vita»
Filippo
Rizzi
26
marzo 2013
Il
«gesuita della Dolce vita», il prete che sdoganò Fellini; ma anche il pupillo e
confidente del cardinale di Genova, il severo Giuseppe Siri... Sono i tratti
che hanno contraddistinto la complessa personalità del «gesuita del cinema» –
secondo una felice definizione di Gian Luigi Rondi –, padre Angelo Arpa
(1909-2003) di cui proprio domani 27 marzo ricorrono i dieci anni della morte.
Un personaggio insolito e controcorrente, noto negli anni Cinquanta e Sessanta
assieme al domenicano belga Felix Morlion per aver promosso in Italia la
cultura del cineforum, prima nella «sua» Genova e poi in tutt’Italia attraverso
la Fondazione Columbianum. Dalle mura di questa struttura, in piazza San
Matteo, padre Arpa fece conoscere agli italiani le istanze sociali che
provenivano dal cinema latino-americano ma anche i dibattiti e il fermento
attorno al Vaticano II; proprio al Columbianum (grazie anche al placet di Siri) nel
1961 venne presentato un testo sul Concilio firmato dall’allora cardinale di
Colonia Joseph Frings (ma preparato dal promettente teologo bavarese Joseph
Ratzinger). L’anno successivo nello stesso edificio toccherà al cardinale
Agostino Bea spiegare il senso delle assise ecumeniche. A dieci anni dalla
scomparsa di questo sacerdote non convenzionale rimangono vive le grandi
intuizioni sul neorealismo italiano e i suoi giudizi molto lusinghieri e non
affrettati su registi del calibro di Vittorio De Sica, Roberto Rossellini,
Luchino Visconti e Pier Paolo Pasolini (di cui padre Arpa ammirava «il realismo
spirituale» di un film cult come Uccellacci
e uccellini). Proprio al grande scrittore e regista friulano il
gesuita garantirà la sua consulenza per il Vangelo secondo Matteo, mentre con Rossellini
si adopererà per la realizzazione di Era
notte a Roma del 1959.
Lo
stesso produttore Angelo Rizzoli riconoscerà ad Arpa il «fiuto
dell’imprenditore» per aver intuito prima di tutti che «La dolce vita non
solo era un capolavoro ma avrebbe sbancato al botteghino». Gesuita sognatore e
in un certo senso «irregolare», ma anche attento uomo di cultura, padre Arpa fu
un profondo cultore del pensiero di Carl Gustav Jung, di Martin Heidegger e
dell’amatissimo teologo Henri de Lubac, che rappresenterà la sua stella polare
soprattutto per Paradoxe
et mystère de l’Église; forte anche la sua venerazione per la
Sindone di Torino, su cui accarezzerà l’idea di una sceneggiatura dedicata al
volto di Gesù. Ma il capitolo centrale della vita di Arpa ha soprattutto un
nome: Federico Fellini. Al gesuita originario di Castelfranco Veneto, che lui
chiamava semplicemente «Angelo», l’artista di Rimini confidava i dubbi sulla
fede, il senso del peccato e della grazia; a lui ricorreva per consigli sul
tema del sacro – presente in tanti spezzoni di pellicole come Amarcord, La dolce vita e Otto e mezzo – o sui
personaggi religiosi presenti nei suoi film: dai sacerdoti (come gli
indimenticabili «pretini vestiti di rosso») ai cardinali (si veda la sfilata
ecclesiastica di Roma).
La stima di Arpa verso il cineasta romagnolo era antica e viene testimoniata da
una dedica tracciata nel 1954 dal gesuita su una Bibbia: «A Federico Fellini
questo "libro di Dio" perché, conoscendo e contemplando le cose che
non passano, possa dare verità alle cose che passano». E l’ammirazione verso
«l’amico Federico» non verrà mai meno da parte di Arpa, fino alla difesa quasi
«in solitaria» (escluso il lungimirante giudizio di un altro gesuita, padre
Nazareno Taddei, su Letture)
di film come Le notti
di Cabiria e ancora di più La dolce vita di fronte a una
«sbigottita opinione pubblica cattolica». Da quell’anno, il 1960, il gesuita
diventerà «l’Arpa di Fellini», il «padre de La dolce vita», il gesuita stregato da quel
«Cagliostro di Fellini» – così secondo l’Osservatore
Romano>. La pellicola venne infatti vietata dal Centro
Cinematografico Cattolico e durissimo fu il giudizio de La Civiltà Cattolica, una
vera condanna.
In
soccorso di padre Arpa arriverà inaspettatamente il cardinale di Genova,
Giuseppe Siri: «Questa Dolce
vita bisognerebbe farla vedere ai miei seminaristi del quarto
anno di teologia, perché si rendessero conto di quanto è brutto il mondo». Solo
a distanza di tanti anni, nel 2003, il cardinale Carlo Maria Martini ha
raccontato «le sue personali impressioni» su quel film che fece scalpore,
dandone una «lettura positiva» e non di censura: «Ricordo che confidai a padre
Angelo nella mia veste certo di critico incompetente che era necessaria una
lettura maggiormente valutativa dell’opera. Egli accolse con gratitudine le mie
riflessioni e mi disse che le avrebbe comunicate a Fellini stesso». Ma è
proprio sul tema della fede che il regista, in tante chiacchierate a Roma e sul
litorale di Ostia, confidò all’amico gesuita di credere nell’aldilà, nonché
l’ammirazione per Papa Giovanni XXIII (su cui aveva ipotizzato di fare un
film): «Vedi, Angelo, questa Chiesa la possiamo e la dobbiamo criticare ma
credo che dobbiamo essere onesti. L’uomo ha bisogno di una mediazione tra lui e
il Maestro. In quest’ottica la Chiesa costituisce una grande e fortunata
presenza». Padre Arpa sarà accanto all’amico Federico nelle ultime ore di vita
e assieme al cardinale Achille Silvestrini il 31 ottobre 1993 ne celebrerà i
funerali nella basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma. Ma anche in seguito
continuerà a difenderlo e a ribadire – come già aveva fatto padre Taddei –
«quel rigurgito di grazia e di redenzione» presente nel finale de La dolce vita.
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