Andreotti e quella Curia romana che scompare con lui
La vita del “Divo Giulio” è legata a doppio filo con quella del Vaticano
Francesco Peloso
7
Maggio
2013
-
07:04
Così l’Osservatore romano ha ricordato Giulio Andreotti a poche ore dalla diffusione della notizia della scomparsa. Un servizio non troppo lungo, senza molta enfasi, con un titolo che più distaccato non si può: «È morto Giulio Andreotti». Il giornale della Santa Sede proseguiva mettendo in luce la «riconosciuta capacità di mediazione nei confronti di ogni tipo di interlocutore» quindi la «grande considerazione per il rispetto delle istituzioni» del senatore a vita, «come dimostrò quando, fatto oggetto di inchieste giudiziarie, espresse piena fiducia nella magistratura, che pure lo aveva condotto a processo con le gravi accuse di collusione con la mafia». Insomma una storia finisce e oggi Oltretevere si sceglie di dare una valutazione storica del personaggio più che sottolineare gli antichi e forti legami. Sulla stessa linea si muoveva del resto il telegramma del Segretario di Stato Tarcisio Bertone indirizzato alla moglie Livia nel quale si leggeva:
Di certo la storia di Andreotti, e il suo destino politico in modo specifico, sono legati alle indicazioni provenienti dal Vaticano. Agli inizi degli anni ’40, infatti, Andreotti conosce Alcide de Gasperi nella biblioteca vaticana, dove quest’ultimo lavorava per evitare le persecuzioni fasciste, e fu Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, a suggerire a De Gasperi di dare spazio al giovane Andreotti. Questi per un periodo sostituirà Moro alla guida della Fuci, l’associazione dei giovani universitari cattolici, poi iniziò l’impegno nei governi guidati da De Gasperi. È l’avvio di una carriera folgorante che farà di Giulio Andreotti un personaggio chiave, riferimento del potere in Italia in tutte le sue variabili e versioni.
Andreotti è dunque uomo legato a doppio filo con la Roma papale e curiale, conosce le alte gerarchie formatesi nel dopoguerra, quelle che vissero il Concilio, poi il pontificato difficile di Paolo VI e quello di Giovanni Paolo II. Quando nella prima metà degli anni ’90, Andreotti si trovava sotto inchiesta a Perugia per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli e a Palermo per aver avuto rapporti con Cosa Nostra, dal Vaticano gli arrivò un segno tangibile di solidarietà. Invitato a un convegno organizzato dal cardinale Angelini al quale prendeva parte il Papa nel novembre del 1995 nell’Aula Paolo VI, il già anziano leader democristiano fu accolto dagli applausi di una platea mista di laici, sacerdoti, vescovi e cardinali. Un applauso che fece scalpore e scandalo.
La Chiesa, la Curia, quella che va da Pio XII a Wojtyla e poi anche a Benedetto XVI, lo amava. Ratzinger, del resto, a lungo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ebbe modo di seguire le vicissitudini italiane negli anni ’80 e ’90 e di conoscere Andreotti già da cardinale. In un intervento su Repubblica risalente al 1993 don Gianni Baget Bozzo, il sacerdote genovese oggi scomparso, vicino a Craxi e sospeso a divinis dal Vaticano, chiedeva che il Senato si i pronunciasse contro l’immunità parlamentare per Andreotti permettendo così ai giudici di Palermo di indagare sui suoi rapporti con la mafia. In quel frangente Baget Bozzo descriveva, con una certa acutezza, i rapporti del leader democristiano con i sacri palazzi:
«Giulio Andreotti è stato per molti il simbolo stesso della cosiddetta prima Repubblica, quale si formò e andò sviluppandosi a partire dalla ricostruzione postbellica. Uomo eminentemente pragmatico, con una intelligenza e un’ironia riconosciute dai suoi sostenitori così come dagli avversari, Andreotti seppe attraversare con apparente leggerezza i grandi eventi della politica e della storia, le drammatiche stagioni del Paese e le sue personali vicende, le seconde spesso collegate alle prime da complesse relazioni».
Così l’Osservatore romano ha ricordato Giulio Andreotti a poche ore dalla diffusione della notizia della scomparsa. Un servizio non troppo lungo, senza molta enfasi, con un titolo che più distaccato non si può: «È morto Giulio Andreotti». Il giornale della Santa Sede proseguiva mettendo in luce la «riconosciuta capacità di mediazione nei confronti di ogni tipo di interlocutore» quindi la «grande considerazione per il rispetto delle istituzioni» del senatore a vita, «come dimostrò quando, fatto oggetto di inchieste giudiziarie, espresse piena fiducia nella magistratura, che pure lo aveva condotto a processo con le gravi accuse di collusione con la mafia». Insomma una storia finisce e oggi Oltretevere si sceglie di dare una valutazione storica del personaggio più che sottolineare gli antichi e forti legami. Sulla stessa linea si muoveva del resto il telegramma del Segretario di Stato Tarcisio Bertone indirizzato alla moglie Livia nel quale si leggeva:
«Esprimo a lei ed ai familiari sentita partecipazione al grave lutto per la perdita di così autorevole protagonista della vita politica italiana, valido servitore delle istituzioni, uomo di fede e figlio devoto della Chiesa».Del resto se la vicenda personale Andreotti è legata a doppio filo con quella del Vaticano, è anche vero che molti dei protagonisti ecclesiali cui il leader democristiano era particolarmente legato, sono oggi sul viale del tramonto. Come il cardinale Fiorenzo Angelini, legato al mondo della sanità; fu presidente del Pontificio consiglio per la pastorale degli operatori sanitari e restò in carica 11 anni, dal 1985 al 1996; sodale di Andreotti, il cardinale è nato nel 1916. Un altro porporato che intrattenne una forte relazione con l’ex senatore a vita è Achille Silvestrini, classe 1926; Silvestrini lavorò a lungo in Segreteria di Stato e fu capo delegazione della commissione vaticana che negoziò con il governo italiano la revisione dei patti lateranensi per approdare al concordato del 1984. Andreotti svolse in quel frangente un ruolo decisivo affinché le due sponde del Tevere trovassero un nuovo accordo aggiornato ai tempi e quindi alle mutate condizioni del Paese.
Di certo la storia di Andreotti, e il suo destino politico in modo specifico, sono legati alle indicazioni provenienti dal Vaticano. Agli inizi degli anni ’40, infatti, Andreotti conosce Alcide de Gasperi nella biblioteca vaticana, dove quest’ultimo lavorava per evitare le persecuzioni fasciste, e fu Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, a suggerire a De Gasperi di dare spazio al giovane Andreotti. Questi per un periodo sostituirà Moro alla guida della Fuci, l’associazione dei giovani universitari cattolici, poi iniziò l’impegno nei governi guidati da De Gasperi. È l’avvio di una carriera folgorante che farà di Giulio Andreotti un personaggio chiave, riferimento del potere in Italia in tutte le sue variabili e versioni.
Andreotti è dunque uomo legato a doppio filo con la Roma papale e curiale, conosce le alte gerarchie formatesi nel dopoguerra, quelle che vissero il Concilio, poi il pontificato difficile di Paolo VI e quello di Giovanni Paolo II. Quando nella prima metà degli anni ’90, Andreotti si trovava sotto inchiesta a Perugia per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli e a Palermo per aver avuto rapporti con Cosa Nostra, dal Vaticano gli arrivò un segno tangibile di solidarietà. Invitato a un convegno organizzato dal cardinale Angelini al quale prendeva parte il Papa nel novembre del 1995 nell’Aula Paolo VI, il già anziano leader democristiano fu accolto dagli applausi di una platea mista di laici, sacerdoti, vescovi e cardinali. Un applauso che fece scalpore e scandalo.
La Chiesa, la Curia, quella che va da Pio XII a Wojtyla e poi anche a Benedetto XVI, lo amava. Ratzinger, del resto, a lungo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ebbe modo di seguire le vicissitudini italiane negli anni ’80 e ’90 e di conoscere Andreotti già da cardinale. In un intervento su Repubblica risalente al 1993 don Gianni Baget Bozzo, il sacerdote genovese oggi scomparso, vicino a Craxi e sospeso a divinis dal Vaticano, chiedeva che il Senato si i pronunciasse contro l’immunità parlamentare per Andreotti permettendo così ai giudici di Palermo di indagare sui suoi rapporti con la mafia. In quel frangente Baget Bozzo descriveva, con una certa acutezza, i rapporti del leader democristiano con i sacri palazzi:
«Andreotti ha visto tutti i papi da vicino, ma è stato ben lontano dall’associarsi al loro personale modo di gestire il papato. Andreotti non è stato più amico di Pio XII che di Giovanni XXIII e di Paolo VI o di Giovanni Paolo II. Il suo punto di riferimento è il Vaticano che non passa, la Curia romana. Debolissima con Pio XII, papa romano incerta con un papa conciliare, Paolo VI, essa è fortissima con un papa polacco. Il potere temporale serve per spiegare le radici del potere di Andreotti, ma non la sua forma attuale. Alla burocrazia vaticana, egli ha assommato altre burocrazie, interne alla Repubblica: magistrati, diplomatici, militari, uomini dell’industria pubblica. Il potere temporale ha impresso mediante lui la sua forma allo Stato italiano».A sua volta Francesco Cossiga in un’intervista al Corsera di qualche anno fa, spiegava così la predilezione di Montini per Andreotti:
«Montini, di famiglia alto-borghese e cattolico liberale, era molto diverso da Andreotti, romano de Roma di origine frosinate e cattolico papalino. Proprio per questo, Montini ritenne di contemperare lo spirito mitteleuropeo di De Gasperi con quello pratico di Andreotti. E fece bene: mai visto un uomo con tali capacità di governo. Crocianamente, per lui come per la Chiesa l’unica moralità della politica consiste nel saperla fare».Molti giudizi, molte voci. Come quella oggi un po’ più distaccata e algida di padre Michele Simone, gesuita, vicedirettore e notista politico della Civiltà cattolica, che alla Radio Vaticana ha osservato:
«Andreotti indubbiamente fa parte della storia della Repubblica. Ritengo che, nonostante tutte le cose negative che gli sono state attribuite, non tutte poi provenissero da lui. Penso che la storia darà un giudizio tutto sommato positivo».In merito poi al ruolo di Andreotti come personalità chiave della Dc e dell’Italia del dopoguerra, il religioso spiegava:
«Andreotti fa parte della storia della Repubblica e della storia della Democrazia Cristiana. Era un personaggio capace di conoscere veramente che cosa avveniva nel Paese, e quindi di addirizzare il timone della Democrazia Cristiana per darne un’interpretazione positiva. Non ha partecipato a particolari trame negative all’interno della Dc. Non si può dimenticare poi il suo apporto al compromesso storico e ciò che è accaduto in quell’epoca».Se dunque oggi Andreotti è ricordato quasi sotto traccia dal Vaticano, non è forse per scarsa riconoscenza ma perché con il “divo Giulio” sta scomparendo anche un modello di Chiesa, un mondo papalino, oggi in crisi e trasformazione.
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