Stenio Solinas
ARCIMBOLDO IL LEONARDO DEGLI ASBURGO
Arcimboldo, Autoritratto, 1587 - Palazzo Rosso, Genova
L'uomo di carta. Quando Giuseppe Arcimboldo dipinse nel 1587 il proprio ritratto, al tramonto della sua vita e al culmine della sua fama, è così che volle raffigurarsi, i capelli e la barba, il naso, le labbra e gli occhi a comporre una maschera puramente cartacea, tanti fogli ben tracciati e sistemati. Un umanista, insomma, e non un artista, «l'egiziano erudito» come era stato ribattezzato nella sua cerchia di amicizie, l'uomo che aveva inventato e/o immaginato un linguaggio cifrato, delle macchine per camminare sull'acqua, il «liuto prospettico», il «clavicembalo a colori» e altre mille diavolerie che non gli sopravvissero. Scomparve tutto con lui, compresa la sua fama: quello che era stato per un quarto di secolo il pittore di corte di Vienna e di Praga, elevato per questo al rango di conte palatino, il maestro di giochi e di cerimonie e insomma il Leonardo degli Absburgo, si inabissò con il secolo che l'aveva visto nascere. Perché riemerga bisognerà aspettare il Novecento della scienza ma anche del dubbio, del fantastico applicato all'inconscio, della crisi dei valori e del clangore delle ideologie. Un precursore della modernità troppo in anticipo sul proprio tempo, insomma. Ma è davvero così?
Proviamo a ricondurre Arcimboldo all'interno del proprio tempo, un tardo Cinquecento rinascimentale che si avvia a diventare maniera, bizzarria, eccentricità. È un mondo, un'epoca, una corte in cui i maghi si mischiano ai cabalisti, agli astrologhi, agli alchimisti, agli studiosi di scienza naturale, ai fisici e ai matematici, le scienze alla moda sono la chiromanzia, la fisiognomica, la geomanzia e insomma il carattere degli individui si nasconde nelle linee di una mano, nelle rughe di un volto, nei tratti di un paesaggio...
Per dipingere una testa composta come La Primavera, Arcimboldo mette su tela 80 varietà botaniche; per quella che fa riferimento all'Acqua sono 62 i pesci, i crostacei, le conchiglie marine riprodotte con virtuosismo incredibile. Per quanto esse possano affondare in una tradizione popolare, è l'elemento spirituale, intellettuale, letterario e politico che fa la loro originalità e la loro grandezza, e che però in qualche modo le segna e le condanna nel momento in cui il complesso e raffinato simbolismo che ne è alla base, le allegorie imperiali e principesche che la sostengono si riveleranno estranee ovvero incomprensibili al nuovo secolo che viene alla ribalta.
Milanese, figlio d'arte, ma semplice omonimo di quella aristocratica famiglia che alla città aveva dato tre arcivescovi e la cui pietra tombale è ancora visibile all'interno del Duomo, Giuseppe Arcimboldo si creò un passato che fosse all'altezza di quel nobile presente che a prezzo di fatiche e di sacrifici aveva alla fine raggiunto, una sorta di principe fra i pittori e dei pittori. Proprio la consapevolezza di una diversità lo spinse del resto a una frequentazione intellettuale, quella dei Lomazzo, dei Comenini, dei Morigia, alla quale affidare il racconto e il ricordo di un magistero stilistico, come se avvertisse il pericolo di un oblio e di una dimenticanza, come se solo la parola scritta potesse in qualche modo riscattare e difendere l'immagine dipinta.
In una sala del museo fanno bella mostra di sé quelle «nature morte antropomorfe», secondo la celebre definizione di André Pieyre de Mandiargues, che come in un gioco di specchi rovesciati contengono due differenti soggetti a seconda se le si guardino dall'alto o dal basso. Il cuoco è anche un piatto d'arrosti, L'uomo-vegetale è anche un cesto d'ortaggi... È un linguaggio metaforico usato quando ancora la metafora rimanda ad altro, non si è cristallizzata in maniera, non vive di vita propria. Dadaisti e surrealisti, secoli dopo, vi si specchieranno come ci si specchia nell'opera di un precursore o di un profeta...
Ma se ne colgono la sconvolgente meraviglia, ciò che è andato perduto è lo struggente sentimento del tempo che la rendeva possibile e comprensibile, non gioco, ma rivelazione, non puro artificio ma corrispondenza fra segni e concetti. L'universo di un umanista, appunto, e non il palcoscenico di un prestigiatore.
giovedì 22 febbraio 2018
La bufala del ritrovamento del sarcofago Arnau de Torroja
La
grande bufala! La tomba di un gran maestro templlare? Un controsenso
dato che il sarcofago è stato trovato nella sede storica
dell'inquisizione: il complesso di San Fermo a Verona. Aspetto le prove,
i poveri resti sono inutilizzabili, ci vogliono le prove e le
aspettiamo........ma credo non arriveranno mai!
Dovrebbe
trattarsi di Arnoldo di Torroja, catalano, a capo dei Templari dal 1181
al 1184. La sua tomba potrebbe essere stata trovata nell'area della
chiesa di San…
veronasera.it
L'occhio di Horus
Occhio di Horus
È un simbolo dal profondo significato esoterico.
L’occhio è sempre stato uno dei simboli protettivi più potenti dell’antico Egitto.
Gli occhi della divinità dei falchi Horus sono il sole e la luna. L’occhio destro è rappresentato dal sole, e simboleggia il futuro e l’attività, l’occhio sinistro è rappresentato dalla luna e simboleggia il passato e la passività.
È un simbolo dal profondo significato esoterico.
L’occhio è sempre stato uno dei simboli protettivi più potenti dell’antico Egitto.
Gli occhi della divinità dei falchi Horus sono il sole e la luna. L’occhio destro è rappresentato dal sole, e simboleggia il futuro e l’attività, l’occhio sinistro è rappresentato dalla luna e simboleggia il passato e la passività.
lunedì 12 febbraio 2018
La visita alle "vestigia" del comune di Veronella
Ieri visita a Veronella, luogo magico e carico di storia con una serie infinita di testimonianze architettonico paesaggistiche. A tal riguardo informo che la prossima "promenade" sara a Pressana paese posto sempre sulla Via Porcilana, antica via protetta anche dai templari e percorsa dai pellegrini che si recavano a Gerusalemme.
A tal riguardo posto un articoletto che accenna al grande studio svolto da un professore che insegna a Ca Foscari dove riporta nei dettagli le grandi vicende storiche legate a Veronella e ai suoi signori: i Sarego dalla Cucca.
A tal riguardo posto un articoletto che accenna al grande studio svolto da un professore che insegna a Ca Foscari dove riporta nei dettagli le grandi vicende storiche legate a Veronella e ai suoi signori: i Sarego dalla Cucca.
Dalla Cucca a Veronella invisibile
I componenti e i visitatori della famiglia Serego, che hanno fatto grande la Cucca e poi scomparire la Veronella…
Un nuovo libro del ricercatore di Cà Foscari, Giulio Zavatta, ha riportato l’attenzione sull’antico abitato di Cucca e gli illustri personaggi che vi sono transitati nei secoli, strettamente legati alle vicissitudini della famiglia Serego, nobili feudatari del luogo.
Perché “Veronella invisibile”? perché fino a inizio XX secolo quel Comune si chiamava Cucca: fu il sindaco Alberto di Serego, insieme alla Giunta e al Consiglio Comunale a chiedere il cambiamento del nome. Che venne autorizzato con Regio decreto il 23 gennaio 1902.
In teoria, da allora dovrebbe essere diventata invisibile la Cucca… e invece no.
Perché alla Cucca vi avevano vissuto o soggiornato nei secoli illustri o bizzarri personaggi, di cui l’autore Zavatta presenta una nuove informazioni.................https://www.agoravox.it/Dalla-Cucca-a-Veronella-invisibile.html
Un nuovo libro del ricercatore di Cà Foscari, Giulio Zavatta, ha riportato l’attenzione sull’antico abitato di Cucca e gli illustri personaggi che vi sono transitati nei secoli, strettamente legati alle vicissitudini della famiglia Serego, nobili feudatari del luogo.
Perché “Veronella invisibile”? perché fino a inizio XX secolo quel Comune si chiamava Cucca: fu il sindaco Alberto di Serego, insieme alla Giunta e al Consiglio Comunale a chiedere il cambiamento del nome. Che venne autorizzato con Regio decreto il 23 gennaio 1902.
In teoria, da allora dovrebbe essere diventata invisibile la Cucca… e invece no.
Perché alla Cucca vi avevano vissuto o soggiornato nei secoli illustri o bizzarri personaggi, di cui l’autore Zavatta presenta una nuove informazioni.................https://www.agoravox.it/Dalla-Cucca-a-Veronella-invisibile.html
domenica 11 febbraio 2018
Le radici arcaiche del carnevale fra rito, liturgia e religiosità delle origini umane
CARNEVALE,
dall'accadico "qarnu(m)", «potenza, potere» degli umani + "(w)âru(m)",
«andare contro, scontrarsi con», col significato complessivo di «andare
contro il Potere».
In sardo abbiamo:
CARRASEGÀRE/CARRASECÀRE, sempre dall'accadico "qarnu(m)", «potenza, potere» degli umani + "seḫu", «rivoltarsi, distruggere, dissacrare», col significato complessivo di «dissacrare il Potere, i potenti».
C'è qualcosa che le nostre origini, da tempo, cercano di comunicarci, ma nessuno pare sappia coglierne il significato.
(Di Antonio Pitzalis)
=================
Carnevale: stelle filanti, mascherine, carri allegorici e divertimento spensierato??
Non in Sardegna!
Su Carrasegare (in sardo "carne viva da smembrare") rende bene l’idea di base del carnevale isolano, popolato di streghe e pazzi, figure spaventose, uomini vestiti da donne, cavalieri senza paura.
Qui il Carnevale, Su Carresecare, è qualcosa di antico, radicato in tradizioni ancestrali
Un rito suggestivo, diverso da zona a zona, ricco di rimandi al mito e alla tradizione del culto di Dionisio.
Eccone alcuni esempi:
Foto 1) LULA,
qui c’è '' Su Battileddu'', lo scemo del villaggio che si trascina per le vie del paese : viso sporco di sangue e annerito dalla fuliggine e il corpo ricoperto di pelli di pecora e montone.
Sul capo porta due corna fra le quali viene fissato uno stomaco di capra, mentre sulla pancia, sotto i campanacci, uno stomaco di bue riempito di sangue, che viene bucato di tanto in tanto. Su Battileddu è la vittima sacrificale del carnevale. Intorno a lui si muovono maschere dal volto nero che lo aggrediscono più volte fino a ucciderlo. Su Battileddu viene quindi fatto sfilare su un carro, ma alla fine risorgerà, caratteristica che, come la maggior parte delle maschere sarde, trae origine dai riti dionisiaci.
Foto 2) OVODDA
La festa, che si tiene su Me’uris de lessia (Mercoledì delle Ceneri), dura solo mezza giornata e non è organizzata: tutti sono attori e spettatori. Le maschere, in groppa ad asini o tenendo al guinzaglio animali di ogni specie, ballano e cantano dileggiando Don Conte, il fantoccio su un carretto trainato da un asino, accompagnandolo verso la sua tragica fine. La festa giunge al culmine quando, al calar del sole, Don Conte è bruciato.
A volte subisce un processo, ma è inevitabilmente condannato come il capro espiatorio dei mali della comunità. Il fantoccio in fiamme è condotto al ponte più alto del paese e gettato giù, fra urla di disperazione e canti osceni.
Fino agli anni ’70 del secolo scorso le donne erano escluse dai bagordi. Ma svolgendosi in giorno proibito dalla chiesa, è tuttora un carnevale dissacratorio nei confronti del potere politico e religioso.
Foto 3) BOSA
Qui il carnevale torna a essere una tragedia. Il culmine è martedì grasso con il lamento funebre di S’Attittidu.
Le maschere indossano il costume tradizionale per il lutto: gonna lunga, corsetto e ampio scialle nero; ogni maschera porta in braccio una bambola di stracci e gira per il paese emettendo, con voce in falsetto, un continuo lamento funebre, S’Attittidu appunto.
Foto 4) SAMUGHEO
Anche questo rito conserva elementi che conducono alle celebrazioni dionisiache.
Dioniso è rappresentato da s’Urtzu, che ne inscena la passione e la morte. Sos Mamutzones, che circondano s’Utzu (Dioniso) danzandogli intorno, sarebbero i folli e invasati seguaci del dio che cercano l’estasi per divenire simili a lui.
Testimonianza del fatto che s’Urtzu aveva un tempo un carattere sacro si può rintracciare nel fatto che i bambini del paese erano soliti inseguirlo urlando:“S’Ocrumannupiludu notimet a nisciùnu, solu su Deus Mannu,s’Ocrumannucorrudu” (Il grande occhio peloso non teme nessuno, solo il grande Dio il grande occhio cornuto).
In alcuni gòcius (canti sacri tradizionali), s’Urtzu era chiamato “Santu Minchilleu”, nome che indica la sua sacralità ma soprattutto la sua inguaribile stupidità.
In sardo abbiamo:
CARRASEGÀRE/CARRASECÀRE, sempre dall'accadico "qarnu(m)", «potenza, potere» degli umani + "seḫu", «rivoltarsi, distruggere, dissacrare», col significato complessivo di «dissacrare il Potere, i potenti».
C'è qualcosa che le nostre origini, da tempo, cercano di comunicarci, ma nessuno pare sappia coglierne il significato.
(Di Antonio Pitzalis)
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Carnevale: stelle filanti, mascherine, carri allegorici e divertimento spensierato??
Non in Sardegna!
Su Carrasegare (in sardo "carne viva da smembrare") rende bene l’idea di base del carnevale isolano, popolato di streghe e pazzi, figure spaventose, uomini vestiti da donne, cavalieri senza paura.
Qui il Carnevale, Su Carresecare, è qualcosa di antico, radicato in tradizioni ancestrali
Un rito suggestivo, diverso da zona a zona, ricco di rimandi al mito e alla tradizione del culto di Dionisio.
Eccone alcuni esempi:
Foto 1) LULA,
qui c’è '' Su Battileddu'', lo scemo del villaggio che si trascina per le vie del paese : viso sporco di sangue e annerito dalla fuliggine e il corpo ricoperto di pelli di pecora e montone.
Sul capo porta due corna fra le quali viene fissato uno stomaco di capra, mentre sulla pancia, sotto i campanacci, uno stomaco di bue riempito di sangue, che viene bucato di tanto in tanto. Su Battileddu è la vittima sacrificale del carnevale. Intorno a lui si muovono maschere dal volto nero che lo aggrediscono più volte fino a ucciderlo. Su Battileddu viene quindi fatto sfilare su un carro, ma alla fine risorgerà, caratteristica che, come la maggior parte delle maschere sarde, trae origine dai riti dionisiaci.
Foto 2) OVODDA
La festa, che si tiene su Me’uris de lessia (Mercoledì delle Ceneri), dura solo mezza giornata e non è organizzata: tutti sono attori e spettatori. Le maschere, in groppa ad asini o tenendo al guinzaglio animali di ogni specie, ballano e cantano dileggiando Don Conte, il fantoccio su un carretto trainato da un asino, accompagnandolo verso la sua tragica fine. La festa giunge al culmine quando, al calar del sole, Don Conte è bruciato.
A volte subisce un processo, ma è inevitabilmente condannato come il capro espiatorio dei mali della comunità. Il fantoccio in fiamme è condotto al ponte più alto del paese e gettato giù, fra urla di disperazione e canti osceni.
Fino agli anni ’70 del secolo scorso le donne erano escluse dai bagordi. Ma svolgendosi in giorno proibito dalla chiesa, è tuttora un carnevale dissacratorio nei confronti del potere politico e religioso.
Foto 3) BOSA
Qui il carnevale torna a essere una tragedia. Il culmine è martedì grasso con il lamento funebre di S’Attittidu.
Le maschere indossano il costume tradizionale per il lutto: gonna lunga, corsetto e ampio scialle nero; ogni maschera porta in braccio una bambola di stracci e gira per il paese emettendo, con voce in falsetto, un continuo lamento funebre, S’Attittidu appunto.
Foto 4) SAMUGHEO
Anche questo rito conserva elementi che conducono alle celebrazioni dionisiache.
Dioniso è rappresentato da s’Urtzu, che ne inscena la passione e la morte. Sos Mamutzones, che circondano s’Utzu (Dioniso) danzandogli intorno, sarebbero i folli e invasati seguaci del dio che cercano l’estasi per divenire simili a lui.
Testimonianza del fatto che s’Urtzu aveva un tempo un carattere sacro si può rintracciare nel fatto che i bambini del paese erano soliti inseguirlo urlando:“S’Ocrumannupiludu notimet a nisciùnu, solu su Deus Mannu,s’Ocrumannucorrudu” (Il grande occhio peloso non teme nessuno, solo il grande Dio il grande occhio cornuto).
In alcuni gòcius (canti sacri tradizionali), s’Urtzu era chiamato “Santu Minchilleu”, nome che indica la sua sacralità ma soprattutto la sua inguaribile stupidità.
Il cristianesimo raccoglie le tradizioni pagane e le elabora.......creamdo una nuova divinità!
Nel 1896, veniva pubblicato un pendente in ematite dei musei di Berlino, proveniente dalla collezione di E.Gerhard.
Esso raffigura un personaggio crocefisso sormontato da una luna e da sette stelle: la crocifissione di Bacco.
Stele risalente a tre secoli prima di Cristo.
Ma quando è nato Dionisio/Bacco?
Dioniso/Bacco è nato il 25 dicembre da una vergine, compiva miracoli come trasformare l’acqua in vino, veniva chiamato “Re dei Re”, “L’Unigenito di dio”, “L’Alfa e l’Omega” ed in molti altri modi, fu crocifisso dopodiché è risorto.
Tutte caratteristiche peculiari di Gesù Cristo:
- Nato il 25 Dicembre
- Trasformava l’acqua in vino (era il Dio del vino!)
- Dopo la sua morte il suo corpo veniva virtualmente mangiato(Teofagia) durante un rituale eucaristico di fecondità e di purificazione.
- E’ stato crocifisso
- Dopo la sua morte è disceso nell’Ade
- Dioniso è tornato in vita il 25 Marzo (solstizio di primavera), resuscitato da Zeus
Le lettere simboliche di Dioniso erano IHS o anche IES,
ancora oggi presenti nella liturgia e nella iconografia cattolica; successivamente vennero trasformate in IESUS o JESUS.
All’inizio IES era il nome fenicio del Bacco o del Sole personificato e la sua etimologia dice che “I” va intesa come l’UNO ed “ES” come FUOCO o LUCE ed in definitiva il significato è: l’Unica Luce; qualcosa che si ritrova poi nel Vangelo di Giovanni.
A Creta Dioniso era chiamato Iasius, un altro nome equivalente a Iesus.
Durante le sacre funzioni dionisiache il sangue di Bacco era rappresentato dal vino ed il suo corpo dal pane.
Iconografia che, proveniente dal paganesimo è stata, in seguito adottata dal cristianesimo col nome di EUCARISTIA.
Esso raffigura un personaggio crocefisso sormontato da una luna e da sette stelle: la crocifissione di Bacco.
Stele risalente a tre secoli prima di Cristo.
Ma quando è nato Dionisio/Bacco?
Dioniso/Bacco è nato il 25 dicembre da una vergine, compiva miracoli come trasformare l’acqua in vino, veniva chiamato “Re dei Re”, “L’Unigenito di dio”, “L’Alfa e l’Omega” ed in molti altri modi, fu crocifisso dopodiché è risorto.
Tutte caratteristiche peculiari di Gesù Cristo:
- Nato il 25 Dicembre
- Trasformava l’acqua in vino (era il Dio del vino!)
- Dopo la sua morte il suo corpo veniva virtualmente mangiato(Teofagia) durante un rituale eucaristico di fecondità e di purificazione.
- E’ stato crocifisso
- Dopo la sua morte è disceso nell’Ade
- Dioniso è tornato in vita il 25 Marzo (solstizio di primavera), resuscitato da Zeus
Le lettere simboliche di Dioniso erano IHS o anche IES,
ancora oggi presenti nella liturgia e nella iconografia cattolica; successivamente vennero trasformate in IESUS o JESUS.
All’inizio IES era il nome fenicio del Bacco o del Sole personificato e la sua etimologia dice che “I” va intesa come l’UNO ed “ES” come FUOCO o LUCE ed in definitiva il significato è: l’Unica Luce; qualcosa che si ritrova poi nel Vangelo di Giovanni.
A Creta Dioniso era chiamato Iasius, un altro nome equivalente a Iesus.
Durante le sacre funzioni dionisiache il sangue di Bacco era rappresentato dal vino ed il suo corpo dal pane.
Iconografia che, proveniente dal paganesimo è stata, in seguito adottata dal cristianesimo col nome di EUCARISTIA.
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Commentagiovedì 8 febbraio 2018
Questo è anche un principio esoterico
"Esiste una differenza tra la religione e lo yoga
La religione ti dà una speranza: appoggiati a Dio e vai avanti
Lo yoga dice: Dio è dentro di te;appoggiati a te stesso e prosegui.
Questa è la differenza tra le due filosofie."
Yogi Bhajan.
Scoperto a Nazca un altra parte del santuario, enegma si somma ad enigma
La scoperta a Nazca da parte di Giuseppe Orefici, vicino al monumentale santuario Tempio Grande a Cahuachi: il Tempio Sud
Roma - Dopo 35 anni di scavi e misteri solo in parte svelati, l'ultima scoperta dell'archeologo bresciano Giuseppe Orefici aggiunge altro enigma al gia' enigmatico santuario monumentale di Cahuachi, nella valle del Nazca (Peru' meridionale), dove fiori' la cultura che ci ha lasciato le celebri piste disegnate nel deserto: si tratta di un grande edificio cultuale, che gli archeologi hanno denominato "Tempio Sud", contiguo al "Grande Tempio" del santuario dal quale e' diviso da un enorme muro senza aperture, di 13 metri di spessore e alto, oggi, cinque metri. "Questa e' l'altezza del muro come l'abbiamo trovato oggi, ma non possiamo sapere quanto fosse alto in antico", spiega Orefici in un'intervista rilasciata in occasione della 27° Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto, dove ha illustrato lo stato attuale delle sue ricerche sul sito dove, fra il 400 a.C ed il 450 d.C, il popolo di Nazca costrui' il santuario monumentale e poi, per ragioni ancora da decifrare appieno, lo abbandono' con sacrifici rituali e doni di addio. "Quel poderoso muro non ha attualmente una spiegazione plausibile", aggiunge Orefici; "Non poteva certo avere uno scopo difensivo, all'interno del santuario e contiguo ad un altro edificio templare. Roma - Dopo 35 anni di scavi e misteri solo in parte svelati, l'ultima scoperta dell'archeologo bresciano Giuseppe Orefici aggiunge altro enigma al gia' enigmatico santuario monumentale di Cahuachi, nella valle del Nazca (Peru' meridionale), dove fiori' la cultura che ci ha lasciato le celebri piste disegnate nel deserto: si tratta di un grande edificio cultuale, che gli archeologi hanno denominato "Tempio Sud", contiguo al "Grande Tempio" del santuario dal quale e' diviso da un enorme muro senza aperture, di 13 metri di spessore e alto, oggi, cinque metri. "Questa e' l'altezza del muro come l'abbiamo trovato oggi, ma non possiamo sapere quanto fosse alto in antico", spiega Orefici in un'intervista rilasciata in occasione della 27? Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto, dove ha illustrato lo stato attuale delle sue ricerche sul sito dove, fra il 400 a.C ed il 450 d.C, il popolo di Nazca costrui' il santuario monumentale e poi, per ragioni ancora da decifrare appieno, lo abbandono' con sacrifici rituali e doni di addio. "Quel poderoso muro non ha attualmente una spiegazione plausibile", aggiunge Orefici; "Non poteva certo avere uno scopo difensivo, all'interno del santuario e contiguo ad un altro edificio templare. E comunque il sito continuo' ad essere usato come necropoli, anche nei secoli successivi". Sempre sulla superficie delle piattaforme del Temio Sud, sono stati trovati numerosi forni trilobati, con funzione cerimoniale e sporadica, ancora da interpretare. E le piste nel deserto? "Le piste dei Nazca continuarono a svilupparsi anche dopo la chiusura del santuario di Cahuachi. Quelle piste - spiega l'archeologo italiano - erano frequentate dalle masse popolari dei fedeli, non solo dalle classi dirigenti come avveniva nel santuario. Le nostre datazioni, che possiamo fissare con precisione grazie ai licheni che vi crescevano sopra, indicano una continuita' di crescita fino all'invasione dei guerrieri Huari, un popolo che scese dalla montagna e anniento' per sempre la civilta' fiorita nella valle del Nazca, e che peraltro continuo' a tracciare altre piste, anche successivamente, con nuove forme, fino a mille anni dopo i Nazca". (AGI)
http://www.agi.it/innovazione/2016/1...nazca-1145344/
ARCIMBOLDO IL LEONARDO DEGLI ASBURGO
mercoledì 7 febbraio 2018
Sostanzialmente il Varticano non cambia mai!
Andreotti e quella Curia romana che scompare con lui
La vita del “Divo Giulio” è legata a doppio filo con quella del Vaticano
Francesco Peloso
7
Maggio
2013
-
07:04
Così l’Osservatore romano ha ricordato Giulio Andreotti a poche ore dalla diffusione della notizia della scomparsa. Un servizio non troppo lungo, senza molta enfasi, con un titolo che più distaccato non si può: «È morto Giulio Andreotti». Il giornale della Santa Sede proseguiva mettendo in luce la «riconosciuta capacità di mediazione nei confronti di ogni tipo di interlocutore» quindi la «grande considerazione per il rispetto delle istituzioni» del senatore a vita, «come dimostrò quando, fatto oggetto di inchieste giudiziarie, espresse piena fiducia nella magistratura, che pure lo aveva condotto a processo con le gravi accuse di collusione con la mafia». Insomma una storia finisce e oggi Oltretevere si sceglie di dare una valutazione storica del personaggio più che sottolineare gli antichi e forti legami. Sulla stessa linea si muoveva del resto il telegramma del Segretario di Stato Tarcisio Bertone indirizzato alla moglie Livia nel quale si leggeva:
Di certo la storia di Andreotti, e il suo destino politico in modo specifico, sono legati alle indicazioni provenienti dal Vaticano. Agli inizi degli anni ’40, infatti, Andreotti conosce Alcide de Gasperi nella biblioteca vaticana, dove quest’ultimo lavorava per evitare le persecuzioni fasciste, e fu Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, a suggerire a De Gasperi di dare spazio al giovane Andreotti. Questi per un periodo sostituirà Moro alla guida della Fuci, l’associazione dei giovani universitari cattolici, poi iniziò l’impegno nei governi guidati da De Gasperi. È l’avvio di una carriera folgorante che farà di Giulio Andreotti un personaggio chiave, riferimento del potere in Italia in tutte le sue variabili e versioni.
Andreotti è dunque uomo legato a doppio filo con la Roma papale e curiale, conosce le alte gerarchie formatesi nel dopoguerra, quelle che vissero il Concilio, poi il pontificato difficile di Paolo VI e quello di Giovanni Paolo II. Quando nella prima metà degli anni ’90, Andreotti si trovava sotto inchiesta a Perugia per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli e a Palermo per aver avuto rapporti con Cosa Nostra, dal Vaticano gli arrivò un segno tangibile di solidarietà. Invitato a un convegno organizzato dal cardinale Angelini al quale prendeva parte il Papa nel novembre del 1995 nell’Aula Paolo VI, il già anziano leader democristiano fu accolto dagli applausi di una platea mista di laici, sacerdoti, vescovi e cardinali. Un applauso che fece scalpore e scandalo.
La Chiesa, la Curia, quella che va da Pio XII a Wojtyla e poi anche a Benedetto XVI, lo amava. Ratzinger, del resto, a lungo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ebbe modo di seguire le vicissitudini italiane negli anni ’80 e ’90 e di conoscere Andreotti già da cardinale. In un intervento su Repubblica risalente al 1993 don Gianni Baget Bozzo, il sacerdote genovese oggi scomparso, vicino a Craxi e sospeso a divinis dal Vaticano, chiedeva che il Senato si i pronunciasse contro l’immunità parlamentare per Andreotti permettendo così ai giudici di Palermo di indagare sui suoi rapporti con la mafia. In quel frangente Baget Bozzo descriveva, con una certa acutezza, i rapporti del leader democristiano con i sacri palazzi:
«Giulio Andreotti è stato per molti il simbolo stesso della cosiddetta prima Repubblica, quale si formò e andò sviluppandosi a partire dalla ricostruzione postbellica. Uomo eminentemente pragmatico, con una intelligenza e un’ironia riconosciute dai suoi sostenitori così come dagli avversari, Andreotti seppe attraversare con apparente leggerezza i grandi eventi della politica e della storia, le drammatiche stagioni del Paese e le sue personali vicende, le seconde spesso collegate alle prime da complesse relazioni».
Così l’Osservatore romano ha ricordato Giulio Andreotti a poche ore dalla diffusione della notizia della scomparsa. Un servizio non troppo lungo, senza molta enfasi, con un titolo che più distaccato non si può: «È morto Giulio Andreotti». Il giornale della Santa Sede proseguiva mettendo in luce la «riconosciuta capacità di mediazione nei confronti di ogni tipo di interlocutore» quindi la «grande considerazione per il rispetto delle istituzioni» del senatore a vita, «come dimostrò quando, fatto oggetto di inchieste giudiziarie, espresse piena fiducia nella magistratura, che pure lo aveva condotto a processo con le gravi accuse di collusione con la mafia». Insomma una storia finisce e oggi Oltretevere si sceglie di dare una valutazione storica del personaggio più che sottolineare gli antichi e forti legami. Sulla stessa linea si muoveva del resto il telegramma del Segretario di Stato Tarcisio Bertone indirizzato alla moglie Livia nel quale si leggeva:
«Esprimo a lei ed ai familiari sentita partecipazione al grave lutto per la perdita di così autorevole protagonista della vita politica italiana, valido servitore delle istituzioni, uomo di fede e figlio devoto della Chiesa».Del resto se la vicenda personale Andreotti è legata a doppio filo con quella del Vaticano, è anche vero che molti dei protagonisti ecclesiali cui il leader democristiano era particolarmente legato, sono oggi sul viale del tramonto. Come il cardinale Fiorenzo Angelini, legato al mondo della sanità; fu presidente del Pontificio consiglio per la pastorale degli operatori sanitari e restò in carica 11 anni, dal 1985 al 1996; sodale di Andreotti, il cardinale è nato nel 1916. Un altro porporato che intrattenne una forte relazione con l’ex senatore a vita è Achille Silvestrini, classe 1926; Silvestrini lavorò a lungo in Segreteria di Stato e fu capo delegazione della commissione vaticana che negoziò con il governo italiano la revisione dei patti lateranensi per approdare al concordato del 1984. Andreotti svolse in quel frangente un ruolo decisivo affinché le due sponde del Tevere trovassero un nuovo accordo aggiornato ai tempi e quindi alle mutate condizioni del Paese.
Di certo la storia di Andreotti, e il suo destino politico in modo specifico, sono legati alle indicazioni provenienti dal Vaticano. Agli inizi degli anni ’40, infatti, Andreotti conosce Alcide de Gasperi nella biblioteca vaticana, dove quest’ultimo lavorava per evitare le persecuzioni fasciste, e fu Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, a suggerire a De Gasperi di dare spazio al giovane Andreotti. Questi per un periodo sostituirà Moro alla guida della Fuci, l’associazione dei giovani universitari cattolici, poi iniziò l’impegno nei governi guidati da De Gasperi. È l’avvio di una carriera folgorante che farà di Giulio Andreotti un personaggio chiave, riferimento del potere in Italia in tutte le sue variabili e versioni.
Andreotti è dunque uomo legato a doppio filo con la Roma papale e curiale, conosce le alte gerarchie formatesi nel dopoguerra, quelle che vissero il Concilio, poi il pontificato difficile di Paolo VI e quello di Giovanni Paolo II. Quando nella prima metà degli anni ’90, Andreotti si trovava sotto inchiesta a Perugia per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli e a Palermo per aver avuto rapporti con Cosa Nostra, dal Vaticano gli arrivò un segno tangibile di solidarietà. Invitato a un convegno organizzato dal cardinale Angelini al quale prendeva parte il Papa nel novembre del 1995 nell’Aula Paolo VI, il già anziano leader democristiano fu accolto dagli applausi di una platea mista di laici, sacerdoti, vescovi e cardinali. Un applauso che fece scalpore e scandalo.
La Chiesa, la Curia, quella che va da Pio XII a Wojtyla e poi anche a Benedetto XVI, lo amava. Ratzinger, del resto, a lungo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ebbe modo di seguire le vicissitudini italiane negli anni ’80 e ’90 e di conoscere Andreotti già da cardinale. In un intervento su Repubblica risalente al 1993 don Gianni Baget Bozzo, il sacerdote genovese oggi scomparso, vicino a Craxi e sospeso a divinis dal Vaticano, chiedeva che il Senato si i pronunciasse contro l’immunità parlamentare per Andreotti permettendo così ai giudici di Palermo di indagare sui suoi rapporti con la mafia. In quel frangente Baget Bozzo descriveva, con una certa acutezza, i rapporti del leader democristiano con i sacri palazzi:
«Andreotti ha visto tutti i papi da vicino, ma è stato ben lontano dall’associarsi al loro personale modo di gestire il papato. Andreotti non è stato più amico di Pio XII che di Giovanni XXIII e di Paolo VI o di Giovanni Paolo II. Il suo punto di riferimento è il Vaticano che non passa, la Curia romana. Debolissima con Pio XII, papa romano incerta con un papa conciliare, Paolo VI, essa è fortissima con un papa polacco. Il potere temporale serve per spiegare le radici del potere di Andreotti, ma non la sua forma attuale. Alla burocrazia vaticana, egli ha assommato altre burocrazie, interne alla Repubblica: magistrati, diplomatici, militari, uomini dell’industria pubblica. Il potere temporale ha impresso mediante lui la sua forma allo Stato italiano».A sua volta Francesco Cossiga in un’intervista al Corsera di qualche anno fa, spiegava così la predilezione di Montini per Andreotti:
«Montini, di famiglia alto-borghese e cattolico liberale, era molto diverso da Andreotti, romano de Roma di origine frosinate e cattolico papalino. Proprio per questo, Montini ritenne di contemperare lo spirito mitteleuropeo di De Gasperi con quello pratico di Andreotti. E fece bene: mai visto un uomo con tali capacità di governo. Crocianamente, per lui come per la Chiesa l’unica moralità della politica consiste nel saperla fare».Molti giudizi, molte voci. Come quella oggi un po’ più distaccata e algida di padre Michele Simone, gesuita, vicedirettore e notista politico della Civiltà cattolica, che alla Radio Vaticana ha osservato:
«Andreotti indubbiamente fa parte della storia della Repubblica. Ritengo che, nonostante tutte le cose negative che gli sono state attribuite, non tutte poi provenissero da lui. Penso che la storia darà un giudizio tutto sommato positivo».In merito poi al ruolo di Andreotti come personalità chiave della Dc e dell’Italia del dopoguerra, il religioso spiegava:
«Andreotti fa parte della storia della Repubblica e della storia della Democrazia Cristiana. Era un personaggio capace di conoscere veramente che cosa avveniva nel Paese, e quindi di addirizzare il timone della Democrazia Cristiana per darne un’interpretazione positiva. Non ha partecipato a particolari trame negative all’interno della Dc. Non si può dimenticare poi il suo apporto al compromesso storico e ciò che è accaduto in quell’epoca».Se dunque oggi Andreotti è ricordato quasi sotto traccia dal Vaticano, non è forse per scarsa riconoscenza ma perché con il “divo Giulio” sta scomparendo anche un modello di Chiesa, un mondo papalino, oggi in crisi e trasformazione.
Quando De Gasperi disse: “Bombardate Roma”
Giovanni Di Silvestre
Il 24 gennaio 1954 il giornalista e scrittore Giovanni Guareschi pubblicò su Candido una lettera scritta a macchina datata 19 gennaio 1944 su carta intestata della Segreteria di Stato di Sua Santità Pio XII firmata da Alcide De Gasperi e destinata al tenente colonnello A.D. Bonham Carter che si trovava a Salerno. Nella missiva De Gasperi chiedeva agli Alleati il bombardamento della periferia di Roma, dell’acquedotto e di altri obiettivi strategici. La decisione fu giustificata da De Gasperi con queste parole: «Ci è purtroppo doloroso, ma necessario insistere nuovamente, affinchè la popolazione romana si decida ad insorgere al nostro fianco, che non devono essere risparmiate azioni di bombardamento nella zona periferica della città nonchè sugli obiettivi militari segnalati. Questa azione, che a cuore stretto invochiamo, è la sola che potrà infrangere l’ultima resistenza morale del popolo romano, se particolarmente verrà preso, quale obiettivo, l’acquedotto, punto nevralgico vitale. Ci urge inoltre, e nel più breve tempo possibile il già sollecitato rifornimento essendo giunti allo stremo».Il documento venne pubblicato sempre da Guareschi sulla rivista settimanale “Ta – pum del cecchino” e le conseguenze si sentirono presto perché non ci fu solo una levata di scudi in favore di De Gasperi che era capo del governo ma il povero Guareschi venne querelato e condannato per diffamazione, processato scontò 409 giorni di carcere e sei mesi di libertà vigilata. Occorre chiarire che su Candido comparve una lettera firmata sempre da De Gasperi del 26 gennaio 1944 indirizzata ad un esponente del CLN che riportava: «Carissimo, spero di ottenere da Salerno il colpo di grazia. Avrete presto gli aiuti chiesti. Coraggio avanti sempre, per la Santa Battaglia, auguri di buon lavoro e fede». L’interrogativo è la critica che la stampa fece al contenuto della prima lettera dichiarando che mancava di acume politico; cioè ci si chiede se De Gasperi era a conoscenza che Roma era stata dichiarata “città aperta” mentre scriveva queste cose.
L’istituto della “Città Aperta” non è regolato dal Diritto Internazionale: significa che la città non dispone di mezzi difensivi o offensivi e quindi deve essere risparmiata sia dai bombardamenti aerei che da attacchi terrestri. Negli archvi militari americani vi sono dei documenti che gettano una luce diversa sul contenuto della prima lettera di Guareschi e pubblicata con la convinzione che fosse autentica. La questione è legata al fatto che Roma era “Città Aperta”; una dichiarazione che gli Alleati non riconobbero mai visto che il 19 luglio 1943 Roma venne bombardata. In una lettera che Pio XII mandò al presidente americano Franklin Delano Roosvelt il 19 maggio 1943 si chiede di risparmiare Roma dai bombardamenti aerei, l’ambasciatore americano presso la Santa Sede Myron Taylor in precedenza dichiarò che «l’America non porta rancore verso il popolo italiano (…) i grandi tesori e monumenti di Religione ed Arte, patrimonio prezioso non di una Nazione, ma di tutta la civiltà umana e cristiana sarebbero stati preservati da una irreparabile rovina». Il 16 giungo giunse una lettera a Pio XII da parte del Presidente Roosvelt che rassicurò il Papa che «gli attacchi contro l’Italia saranno limitati ad obiettivi militari nei limiti del possibile – ma anche che – nell’eventualità che si ritenga militarmente necessario per gli aerei alleati operare su Roma, i nostri aviatori sono esattamente informati sulla localizzazione del Vaticano e hanno ricevuto istruzioni specifiche per evitare la caduta di bombe sulla Città del Vaticano». Vi è anche una nota di pugno del Presidente Roosvelt sulla lettera al Papa in cui dichiara: «La sua lettera a me non era una richiesta di non bombardare Roma ma Egli ha parlato dei luoghi storici ed ha anche parlato della Santa Sede che io suppongo includa le chiese fuori dal Vaticano». E, Infatti:
- 25 giugno 1943 il Nunzio Apostolico chiede che Roma venga risparmiata dagli attacchi aerei.
- 28 giugno 1943 il Nunzio Apstolico comunica a Myron Taylor che il Governo Italiano si impegna a togliere da Roma gli obiettivi militari, quello stesso giorno Roosvelt scrive al Segretario di Stato Vaticano «Occorre parlare chiaro… la guerra è guerra e, siccome la sede del Governo è a Roma e da qui muove guerra contro di noi… l’unica via è chiedere che Roma si dichiarata città aperta. Occorrerà la rimozione di tutte le installazioni militari, del personale e delle attività italiane dalla città. Tutto ciò, poi, comporterà l’approvazione da parte degli inglesi, ma di questo sono certo si potrà discutere».
- 19 luglio 1943 bombardamento dello Scalo Ferroviario e del quartiere di San Lorenzo che provoca migliaia di morti e feriti. L’azione militare portò alla distruzione dell’intero quartiere con più di 3000 morti e ben 12.000 feriti.
- Il 31 luglio 1943 il ministro degli Esteri Guariglia comunica al
Vaticano che Roma è dichiarata Città Aperta, la Santa Sede attraverso la
Svizzera e il Portogallo comunica il 13 agosto ai governi di Londra e
Washington la nota
contenente la dichiarazione. - Il 4 agosto Churchill interpellato da Roosvelt scrive «Dichiarare Roma città aperta avrà un effetto sulla nostra opinione pubblica che sarà il più infelice. Cosa diranno i russi? Potrebbe essere una prova che noi ci stiamo preparando a fare una pace separata con il Re e con Badoglio. Sarà portato in tutto il mondo e attraverso l’Italia come un successo per il nuovo governo italiano che avrebbe salvato Roma da pericoli futuri. Non c’è dubbio che la loro grande speranza è veder riconosciuta l’Italia come area neutrale, e Roma sarebbe il primo tassello». A questo punto il passo all’armistizio dell’otto settembre è breve.
- Il 7 ottobre 1943 il sottosegretario di Stato Edward Reilly Stettinius scrive a Roosvelt che la questione di Roma “città aperta” è al vaglio da parte del governo britannico.
http://www.mirorenzaglia.org/2009/08/quando-de-gasperi-disse-bombardate-roma/
"Viaggio" nel buso delle Anguane
Queste sono le numerose immagini di un viaggio magico alla ricerca dei luoghi carichi di leggenda che ancora oggi affascinano e che cominciano ad essere indagati dalla scienza fino ad ieri incredule!
https://www.flickr.com/photos/m_onettimuda/sets/72157684947586155
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