sabato 16 ottobre 2010

L'india più remota

L'India più remota dove l' uomo dialoga con l' ignoto
di Roberto Calasso - 14/10/2010

Fonte: Corriere della Sera

Né oggetti né immagini: la civiltà vedica lasciò solo parole

E rano esseri remoti, non solo dai moderni ma dai loro contemporanei
antichi. Distanti non già come un' altra cultura, ma come un altro
corpo celeste. Così distanti che il punto da cui vengono osservati
diventa pressoché indifferente. Che ciò avvenga oggi o cento anni or
sono, nulla di essenziale cambia. Per chi è nato in India alcune
parole, alcuni gesti, alcuni oggetti potranno suonare più familiari,
come un invincibile atavismo. Ma sono lembi dispersi di un sogno di
cui si è annebbiata la vicenda. Incerti i luoghi e i tempi in cui
vissero. I tempi: più di tremila anni or sono, ma le oscillazioni
nelle date, fra uno studioso e l' altro, rimangono notevoli. L' area:
il nord del subcontinente indiano, ma senza confini precisi. Non
lasciarono oggetti né immagini. Lasciarono soltanto parole. Versi e
formule che scandivano rituali. Meticolose trattazioni che
descrivevano e spiegavano quegli stessi rituali. Al centro dei quali
appariva una pianta inebriante, il soma, che ancora oggi non è stata
identificata con sicurezza. Già allora ne parlavano come di una cosa
del passato. Apparentemente non riuscivano più a trovarla. L' India
vedica non ebbe una Semiramide né una Nefertiti. E neppure un
Hammurabi o un Ramses II. Nessun De Mille è riuscito a metterla in
scena. Fu la civiltà dove l' invisibile prevaleva sul visibile. Come
poche altre, fu esposta a essere incompresa. Per capirla, è inutile
ricorrere agli eventi, che non hanno lasciato tracce. Rimangono solo
testi: il Veda, il Sapere. Composto di inni, invocazioni, scongiuri,
in versi. Di formule e prescrizioni rituali, in prosa. I versi sono
incastonati in momenti delle complicatissime azioni rituali. Le quali
vanno dalla doppia libagione, agnihotra, che il capofamiglia è tenuto
a compiere da solo, ogni giorno, per quasi tutta la vita, fino al
sacrificio più imponente - il «sacrificio del cavallo», ashvamedha -,
che implica la partecipazione di centinaia e centinaia di uomini e
animali. Gli Arya («i nobili», così gli uomini vedici chiamavano se
stessi) ignorarono la storia con una insolenza che non ha uguali nelle
vicende di altre grandi civiltà. Dei loro re conosciamo i nomi
soltanto attraverso accenni nel Rigveda e aneddoti narrati nei
Brahmana e nelle Upanishad. Non si preoccuparono di lasciare memoria
delle loro conquiste. E anche negli episodi di cui è giunta notizia
non si tratta tanto di imprese - belliche o amministrative -, ma di
conoscenza. Se parlavano di «atti», pensavano soprattutto ad atti
rituali. Non meraviglia che non abbiano fondato - né abbiano mai
tentato di fondare - un impero. Preferirono pensare qual è l' essenza
della sovranità. La trovarono nella sua duplicità, nel suo spartirsi
fra brahmani e kshatriya, fra sacerdoti e guerrieri, auctoritas e
potestas. Sono le due chiavi, senza le quali nulla si apre, su nulla
si regna. Tutta la storia può essere considerata sotto l' angolo dei
loro rapporti, che incessantemente mutano, si aggiustano, si occultano
- nelle aquile bicipiti, nelle chiavi di san Pietro. C' è sempre una
tensione, che oscilla fra l' armonia e il conflitto mortale. Su quella
diarchia e sulle sue inesauribili conseguenze la civiltà vedica si è
concentrata con la più alta e sottile chiaroveggenza. Il culto era
affidato ai brahmani. Il governo agli kshatriya. Su questo fondamento
si erigeva il resto. Ma, come tutto ciò che accadeva sulla terra,
anche quel rapporto aveva il suo modello in cielo. Anche lì c' erano
un re e un sacerdote: Indra era il re, Brihaspati il brahmano dei
Deva, il cappellano degli dèi. E solo l' alleanza fra Indra e
Brihaspati poteva garantire la vita sulla terra. Però fra i due si
interponeva subito un terzo personaggio: Soma, l' oggetto del
desiderio. Un altro re e un succo inebriante. Che si sarebbe
comportato in modo irrispettoso ed elusivo verso i due rappresentanti
della sovranità. Indra, che si era battuto per conquistare il soma,
alla fine ne sarebbe stato escluso dagli stessi dèi a cui lo aveva
donato. E Brihaspati, l' inavvicinabile brahmano dalla voce di tuono,
«nato nella nuvola»? Il re Soma, «tracotante per la eminente sovranità
che aveva raggiunto», rapì sua moglie Tara e si congiunse con lei, che
dal suo seme generò Budha. Quando il figlio nacque, lo depose su un
letto di erba munja. Brahma allora chiese a Tara (e fu l' acme della
vergogna): «Figlia mia, dimmi, questo è il figlio di Brihaspati o di
Soma?». Allora Tara dovette riconoscere che era figlio del re Soma,
altrimenti nessuna donna sarebbe stata creduta in futuro (ma qualche
ripercussione della vicenda continuò a trasmettersi, di eone in eone).
E ci fu bisogno di una feroce guerra fra i Deva e gli Asura, gli
antidèi, perché Soma si convincesse alla fine a restituire Tara a
Brihaspati. Dice il Rigveda: «Tremenda è la moglie del brahmano, se
viene rapita; ciò crea disordine nel cielo supremo». Tanto doveva
bastare per gli improvvidi umani, che talvolta si domandavano perché e
intorno a che cosa si battessero i Deva con gli Asura nel cielo, in
quelle loro sempre rinnovate battaglie. Ora lo avrebbero saputo: per
una donna. Per la donna più pericolosa: per la moglie del primo fra i
brahmani. Non c' erano templi, né santuari, né mura. C' erano re, ma
senza regni dai confini tracciati e sicuri. Si muovevano
periodicamente su carri con ruote provviste di raggi. Quelle ruote
furono la grande novità che apportarono: prima di loro, nei regni di
Harappa e Mohenjo-daro si conoscevano solo le ruote compatte, solide,
lente. Appena si fermavano, si curavano soprattutto di installare
fuochi e accenderli. Tre fuochi, di cui uno circolare, uno quadrato e
uno a forma di mezzaluna. Sapevano cuocere i mattoni, ma li usavano
soltanto per costruire l' altare che stava al centro di un loro rito.
Aveva la forma di un uccello - un falco o un' aquila - dalle ali
spiegate. Lo chiamavano l' «altare del fuoco». Passavano la maggior
parte del tempo in una radura sgombra, in lieve pendio, dove si
affaccendavano attorno ai fuochi mormorando formule e cantando
frammenti di inni. Era un assetto di vita impenetrabile se non dopo un
lungo addestramento. La loro mente pullulava di immagini. Forse anche
per questo non si curarono di intagliare o scolpire figure degli dèi.
Come se, essendone già attorniati, non sentissero il bisogno di
aggiungerne altre. Quando gli uomini del Veda scesero nel Saptasindhu,
nella Terra dei Sette Fiumi, e poi nella pianura del Gange, il
territorio era in gran parte coperto da foreste. Si aprirono la via
con il fuoco, che era un dio: Agni. Lasciarono che disegnasse una
ragnatela di cicatrici. Vivevano in villaggi provvisori, in capanne su
pilastri, con muri di giunchi e tetti di paglia. Seguivano gli
armenti, spostandosi sempre più verso est. Talvolta arrestandosi
davanti a immense masse d' acqua. Fu quella l' epoca aurea dei
ritualisti. Allora, a qualche distanza dai villaggi e a qualche
distanza gli uni dagli altri, si potevano osservare gruppi di uomini -
una ventina ogni volta - che si muovevano su spazi brulli, intorno a
fuochi perennemente accesi, vicino a qualche capanno. Da lontano, si
udiva un brusio solcato da canti. Ogni dettaglio della vita e della
morte era in gioco, in quell' andirivieni di uomini assorti. Ma non si
poteva pretendere che ciò apparisse evidente agli occhi di uno
straniero. Ben poco di tangibile rimane dell' epoca vedica. Non
sussistono edifici, né monconi di edifici, né simulacri. Al più,
qualche frusto reperto nelle teche di alcuni musei. Edificarono un
Partenone di parole: la lingua sanscrita, poiché samskrita significa
«perfetto». Così disse Daumal. Qual era il motivo profondo per cui non
vollero lasciare tracce? Il solito supponente evemerismo occidentale
subito si appellerebbe alla deperibilità dei materiali in clima
tropicale. Ma la ragione era un' altra - e i ritualisti vi
accennarono. Se l' unico evento imprescindibile è il sacrificio, che
fare di Agni, dell' altare del fuoco, una volta concluso il
sacrificio? Risposero: «Dopo il completamento del sacrificio, esso
ascende ed entra in quello splendente (sole). Perciò non ci si deve
preoccupare se Agni viene distrutto, perché allora egli è in quel
disco laggiù». Ogni costruzione è provvisoria, incluso l' altare del
fuoco. Non è qualcosa di fermo, ma un veicolo. Una volta compiuto il
viaggio, il veicolo può anche essere fatto a pezzi. Perciò i
ritualisti vedici non elaborarono l' idea del tempio. Se tanta cura
veniva dedicata a costruire un uccello, era perché potesse volare. Ciò
che a quel punto rimaneva sulla terra era un involucro di polvere,
fango secco e mattoni, inerte. Lo si poteva abbandonare, come una
carcassa. Presto la vegetazione lo avrebbe ricoperto. Intanto, Agni
era nel sole.

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