domenica 26 dicembre 2010
Il natale festa pagana
Le radici pagane del Natale
di Elena Savino jubal editore
Del sole
Per inspiegabile che sembri, la data di nascita di Cristo non è nota. I vangeli non ne indicano né il giorno né l’anno […] fu assegnata la data del solstizio d’inverno perché in quel giorno in cui il sole comincia il suo ritorno nei cieli boreali, i pagani che adoravano Mitra celebravano il Dies Natalis Solis Invicti (giorno della nascita del Sole invincibile).
- Nuova enciclopedia cattolica dell’Ordine Francescano (1941) -
Nel corso della ricerca di informazioni e documenti riguardanti le origini pagane del Natale, quello che stupisce è che la data del 25 dicembre, prima di diventare celebre come “compleanno di Gesù”, sia stata giorno di festa per i popoli di culture e religioni molto distanti tra loro, nel tempo e nello spazio.
Le origini di questi antichi culti vanno ricercate in ciò che è “principio” della vita sulla terra e che “dal principio” è stato oggetto di culto e di venerazione: il sole.
Agli albori dell’umanità, esisteva un ricco calendario di feste annuali e stagionali e di riti di propiziazione e rinnovamento.
I popoli nel periodo primitivo della loro esistenza erano intimamente legati al “ciclo della natura” poiché da questo dipendeva la loro stessa sopravvivenza. Al tempo, la vita naturale appariva indecifrabile, incombente, potente espressione di forze da accattivarsi; era un mondo magico. L’uomo antico si sentiva parte di quella natura, ma in posizione di debolezza. Per questo, attraverso il rito, cercava di “fare amicizia” con questa o quella forza insita in essa.
Al centro di questo ciclo c’era l’astro che scandiva il ritmo della giornata, la “stella del mattino” che determinava i ritmi della fruttificazione e che condizionava tutta la vita dell’uomo. Per quest’ultimo, temere che il sole non sorgesse più, vederlo perdere forza d’inverno riducendo sempre più il suo corso nel cielo, era un’esperienza tragica che minacciava la sua stessa vita. Perciò, doveva essere esorcizzata con riti che avessero lo scopo di evitare che il sole non si innalzasse più o di aiutarlo nel momento di minor forza.
È proprio partendo da questa considerazione che possiamo individuare le origini dei rituali e delle feste collegate al solstizio d’inverno.
Durante queste feste venivano accesi dei fuochi (usanza che si ritrova nella tradizione natalizia di bruciare il ceppo nel camino la notte della vigilia) che, con il loro calore e la loro luce, avevano la funzione di ridare forza al sole indebolito.
Spesso questi rituali avevano a che fare con la fertilità ed erano quindi legati alla riproduzione. Da qui l’usanza, nelle antiche celebrazioni, di danze e cerimoniali propiziatori dell’abbondanza e in alcuni casi, come negli antichi riti celtici e germanici, ma anche romani e greci, di accoppiamento durante le feste.
Del solstizio d’inverno
Il termine solstizio viene dal latino solstitium, che significa letteralmente “sole fermo” (da sol, “sole”, e sistere, “stare fermo”).
Se ci troviamo nell’emisfero nord della terra, nei giorni che vanno dal 22 al 24 dicembre possiamo infatti osservare come il sole sembra fermarsi in cielo, fenomeno tanto più evidente quanto più ci si avvicina all’equatore. In termini astronomici, in quel periodo il sole inverte il proprio moto nel senso della “declinazione”, cioè raggiunge il punto di massima distanza dal piano equatoriale. Il buio della notte raggiunge la massima estensione e la luce del giorno la minima. Si verificano cioè la notte più lunga e il giorno più corto dell’anno.
Subito dopo il solstizio, la luce del giorno torna gradatamente ad aumentare e il buio della notte a ridursi fino al solstizio d’estate, in giugno, quando avremo il giorno più lungo dell’anno e la notte più corta. Il giorno del solstizio cade generalmente il 21, ma per l’inversione apparente del moto solare diventa visibile il terzo/quarto giorno successivo. Il sole, quindi, nel solstizio d’inverno giunge nella sua fase più debole quanto a luce e calore, pare precipitare nell’oscurità, ma poi ritorna vitale e “invincibile” sulle stesse tenebre. E proprio il 25 dicembre sembra rinascere, ha cioè un nuovo “Natale”.
Questa interpretazione “astronomica” può spiegare perché il 25 dicembre sia una data celebrativa presente in culture e paesi così distanti tra loro. Tutto parte da una osservazione attenta del comportamento dei pianeti e del sole, e gli antichi, pare strano, conoscevano bene gli strumenti che permettevano loro di osservare e descrivere movimenti e comportamenti degli astri.
Per fare un esempio, a Maeshowe (Orkneys, Scozia) si erge un tumulo datato (con il metodo del carbone radioattivo) 2750 a.C. All’interno del tumulo c’è una struttura di pietra con un lungo ingresso a forma di tunnel. Questa costruzione è allineata in modo che la luce del sole possa scorrere attraverso il passaggio e splendere all’interno del megalite, illuminando in questo modo il retro della struttura. Questo accade al sorgere del sole e al solstizio d’inverno.
Delle origini comparate del Dio Sole
Pur non avventurandoci in comparazioni religiose che richiederebbero accurati studi, pena l’apparire ridicoli, diremo comunque che il 25 dicembre è associato al giorno di nascita o di festeggiamento di personaggi divini risalenti anche a secoli prima di Cristo.
Per citarne alcuni:
Il dio Horus egiziano
I mosaici e gli affreschi raffiguranti immagini di Horus in braccio a Iside ricordano l’iconografia cristiana della Madonna col bambino, tanto da indurci a credere che in epoca cristiana, per ovvi motivi, alcune rappresentazioni di Iside e Horus, spesso raffigurato come un bambino con la corona solare sul capo, furono probabilmente “riciclate”.
Il dio Mitra indo-persiano
Con buona pace della Gatto Trocchi, quello di Mitra fu il culto più concorrenziale al cristianesimo e col quale il cristianesimo si fuse sincreticamente. A proposito, anche Mitra era stato partorito da una vergine, aveva dodici discepoli e veniva soprannominato “il Salvatore”.
Gli dei babilonesi Tammuz e Shamas
Nel giorno corrispondente al 25 dicembre odierno, nel 3000 a.C. circa, veniva festeggiato il dio Sole babilonese Shamash. Il dio solare veniva chiamato Utu in sumerico e Shamash in accadico. Era il dio del Sole, della giustizia e della predizione, in quanto il sole vede tutto: passato, presente e futuro.
In Babilonia successivamente comparve il culto della dea Ishtar e di suo figlio Tammuz, che veniva considerato l’incarnazione del Sole. Allo stesso modo di Iside, anche Ishtar veniva rappresentata con il suo bambino tra le braccia. Attorno alla testa di Tammuz si rappresentava un’aureola di 12 stelle che simboleggiavano i dodici segni zodiacali.
È interessante aggiungere che anche in questo culto il dio Tammuz muore per risorgere dopo tre giorni.
Dioniso
Nei giorni del solstizio d’inverno, si svolgeva in onore di Dioniso una festa rituale chiamata Lenaea, “la festa delle donne selvagge”. Veniva celebrato il dio che “rinasceva” bambino dopo essere stato fatto a pezzi.
Bacab
Era il dio Sole nello Yucatan; si credeva che fosse stato messo al mondo dalla vergine Chiribirias.
Il dio Sole inca Wiracocha
Il dio sole inca veniva celebrato nella festa del solstizio d’inverno Inti Raymi (festeggiata il 24 giugno perché nell’emisfero sud, essendo le stagioni rovesciate, il solstizio d’inverno cade appunto in giugno).
Ovviamente i primi citati in questa rapida carrellata devono aver influito alquanto nella creazione del cristianesimo che, ricordiamolo una buona volta, non fu creato da Cristo. Riguardo invece ai culti solari precolombiani è interessante notare come i tempi e i simboli del sacro siano comuni a civiltà così distanti fra loro. Questo dovrebbe far sorgere più spesso il sospetto di un’origine comune delle religioni tramite uno studio comparato delle stesse alla ricerca del significato della vita. Invece, ottusamente ci si continua ad adagiare su fedi antropomorfiche dogmatiche e più o meno esplicitamente intolleranti nei confronti delle altre.
Le radici pagane del Natale
di Elena Savino - Jubal editore
giovedì 23 dicembre 2010
Un libro mai più ristampato
Jesus Rex di Robert Graves traduzione di Adriana Dell'Orto. - Milano : Tascabili Bompiani, 1986. - 485 p. ; 19 cm. - (Tascabili Bompiani. Narrativa ; 401)
Esiste anche un'altra edizione curata dal Club degli Editori limitata.
Nonostante ci sia un buon interesse per questo romanzo storico nessun editore si è mai preso la briga di ristamparlo. Certo è che i racconti storico teologici di questo testo danno sicuramente fastidio. Non voglio aggiungere altro. Sicuramente lo potete ancora trovare nelle biblioteche. E allora leggetelo ne vale la pena.
domenica 19 dicembre 2010
Verona e affari sporchi!
Verona. Si parla di mafia in Commissione urbanistica. Controllano i politici o i magistrati?Si torna a parlare di mafia a Verona. Lo si fa questa volta (e per la prima volta) in un contesto particolarmente sensibile all’argomento: la Commissione urbanistica del Comune di Verona. Lo spunto è venuto da due lavori giornalistici ben fatti: un’inchiesta di Michele Marcolongo sul tema delle grandi opere nel veronese e un’intervista di Francesca Lorandi con il procuratore capo Mario Giulio Schinaia (Vedi Verona In numeri 25 e 27 di dicembre). A tirare in ballo la malavita organizzata in Commissione urbanistica è stato il presidente del Comitato contro il collegamento autostradale delle Torricelle Alberto Sperotto, che tra i vari pericoli connessi alla mole di lavori pubblici in cantiere nel veronese vede anche quello di possibili infiltrazioni mafiose. Ecco le sue dichiarazioni riportate oggi dai giornali locali: “Sperotto cita il procuratore Schinaia: «La mafia a Verona c’è e investe nelle grandi opere». Si faccia un comitato di controllo come a Milano per l’Expo, perché in provincia di Verona si stanno disegnando opere per 20 miliardi di euro”. La risposta di Enzo Flego (Lega Nord) non si fa attendere: «Tocca alla magistratura e alle forze dell’ordine vigilare». Su questo botta e risposta facciamo due considerazioni. a) In Commissione urbanistica c’è gente chiamata a prendere decisioni che muovono ingenti quantità di denaro e se qualcuno viene a dirti (non perché se lo inventa ma perché legge i giornali) che forse è il caso di mettere in piedi una rete di protezione contro la ’ndrangheta non puoi cavartela dicendo che sono affari della Magistratura. b) La seconda considerazione è che proprio dalle colonne del nostro giornale la Magistratura veronese ha detto l’opposto. Citiamo le parole del Procuratore capo Schinaia (Verona In 27 di dicembre, pagina 25): “L’autorità amministrativa ha il potere discrezionale per capire quali sono le opere pubbliche da fare. E nella struttura amministrativa ci sono centri di controllo che sovraintendono la regolarità delle procedure. La Magistratura non può controllare la regolarità di ogni opera: questo è compito della politica”. Si mettessero d’accordo, viene da dire. E comunque la Commissione urbanistica non sottovaluti il pericolo mafia semplicemente rimuovendolo o minimizzando. Anche per non passare dalla parte del torto per gravi inadempienze.
Giorgio Montolli
Saramago il caino!
Josè Saramago aveva aperto un blog dove scriveva costantemente, mantenendo così il contatto diretto con i suoi lettori. Dalle sue pagine aveva anche contestato il premier italiano Silvio Berlusconi per la sua politica[5]. In seguito a tale articolo, la casa editrice Einaudi (Gruppo Mondadori[6]) annunciò che non avrebbe pubblicato la raccolta dei suoi scritti sul blog denominata Il quaderno, che sarà comunque edita in Italia, ma a cura di Bollati Boringhieri[7]. L'opera di Saramago è oggi pubblicata in Italia da Giangiacomo Feltrinelli Editore.
nel 2009, con l'uscita del suo ultimo romanzo Caino, Saramago si trovò a polemizzare con la chiesa cattolica portoghese, criticando la Bibbia, poiché descrive un Dio -vendicativo, rancoroso, cattivo, indegno di fiducia-.
Il Vaticano non perdona nemmeno dopo la morte avvenuta ieri (il 18 giugno 2010)di Josè Saramago
L'attacco a fondo arriva proprio dall'Osservatore romano, in un articolo apparso oggi intitolato "L'onnipotenza (presunta) del narratore".
Josè Saramago - scrive il quotidiano del Papa - "è stato un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo". Affermazioni biliose che non si addicono alla presunta carità cristiana, almeno nei giorni immediatamente successivi alla morte e con queste parole pesanti. Saramago è acccusato di aver scelto "lucidamente" di autocollocarsi "dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano".
Invece di occupuparsi di salvare le anime ora il Vaticano pretende anche di sconfinare nella grossolana critica letteraria, dando giudizzi affrettati e inopportuni su questo grande scrittore ormai consacrato alla storia.
lunedì 6 dicembre 2010
Questa è l'immagine di Guido Lupo Maria De Giorgio, pseudonimo "Havismat"(1890-1957)Uomo di grande sapere. Rene Guenon lo scelse come unico continuatore dell sua OPERA, quasi ad assumerlo come unico discepolo accettato!
E' doveroso sottolineare che Guido ebbe con Evola una controversia che arrivò in sede legale. Questo fu l'ultimo "rapporto" che De Giorgio ebbe con qull'Julius, ben personificato con la sua "caramella" uomo sempre carico di se stesso, del suo sapere ma anche della sua ignoranza come nella prefazione che ebbe a scrivere per un saggio di Bachofen. A mio avviso Evola aveva un "io egoico" pochissimo controllato! La destra più retriva ha trovato in questa persona, per certi versi, il saccente che era abiatuato a prendere delle grandi cantonate.
Ma sicuramente De Giorgio aveva le carte in regola per tentare l'ascesci mistica, che deve essere completamente staccata dal potere per liberare l'anima, sacra e santa, che esiste in ogni essere specialmente nell'uomo!
Aveva COMPRESO le intenzioni della "Divina Commedia" e ne sottolineo il potere iniziatico e mistico. Un cammino vero e proprio che sfociava nelle stelle e nell'amor che le legava agli uomini e all'infiniamente piccolo come all'immensità del cosmo eliminando il tempo e la contingenza.
San Francesco è suo Fratello!
venerdì 3 dicembre 2010
Per capire l'esoterismo
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Il labirinto di bosso di Villa Valsanzibio nel comune di Battaglia terme (PD)
Esoterismo e Tradizione
di
Pietro Nutrizio
Tratto da Rivista di Studi Tradizionali n.1, Ottobre - Dicembre 1961
Che molte parole vadano ai giorni nostri perdendo a poco a poco il loro significato legittimo e originario e che molte altre l'abbiano perso già da tempo, è questo un fatto che non sfugge ai più sensibili dei nostri contemporanei. L'uso che di questi termini si fa correntemente, invece che a una necessità d'ordine intellettuale, obbedisce ormai soltanto più alle esigenze di una superficiale (ma non per questo meno pericolosa) «suggestività», o addirittura non rappresenta più che una comoda acquiescenza ad abitudini di cui non si vede la ragione di sbarazzarsi, quando non siano, per molteplici ragioni, a bella posta intrattenute. Un tale stato di confusione, che è linguistica soltanto al livello degli effetti e le cui radici si immergono profondamente nella mentalità contemporanea, è il primo degli ostacoli che incontra sul proprio cammino chi voglia tentare un serio scambio d'idee in un qualsiasi ambiente. In uno scambio di questo genere le parole sono il veicolo delle idee, il loro supporto sensibile, se così si può dire, ed è evidente che la mancanza di una intesa preventiva sul valore dei termini usati deve immancabilmente condurre, come minima conseguenza, a dei malintesi che sono poi sempre difficili da sradicare. Gli argomenti che ci proponiamo di trattare, come del resto si può vedere dal titolo del frontespizio, non hanno con i problemi particolari della linguistica che una relazione molto blanda; tuttavia pensiamo che sia opportuno accennare in primo luogo a questa necessità di chiarezza del linguaggio, perché ciò ci permetterà di non ritornare continuamente a giustificare l'insistenza con cui ci soffermeremo a chiarire, tutte le volte che se ne offrirà l'occasione, quale sia il senso che noi diamo ad alcune parole nel corso di questa breve nota e, beninteso, lungo gli articoli e le traduzioni che compariranno in questa rivista. Dicevamo che la confusione delle parole e l'incertezza del loro uso hanno cause profonde, aggiungeremo che questa confusione, come tante altre, ha per noi il significato d'un segno; al modo con cui certi stati patologici si rivelano all'occhio del medico attraverso una serie di sintomi, così la mentalità d'un ambiente è rispecchiata da un insieme di manifestazioni esteriori di cui il linguaggio fa parte. Quando certe realtà non intervengono più a sostenere, se così si può dire, i termini che di esse costituivano come la veste esteriore, è allora che comincia il processo di degenerescenza di questi ultimi, simile a quello che deve aver portato alla situazione attuale. Un tale processo si effettua per gradi ed ha inizio a partire dalle realtà intellettuali la cui sparizione in un determinato ambiente produce l'effetto che in un edificio avrebbe la caduta d'una pietra di volta, permettendo alla confusione d'insinuarsi in campi sempre più vasti senza incontrarvi la resistenza che soltanto dall'alto avrebbe potuto opporglisi. Non è quindi strano che siano proprio le parole un tempo più ricche di significato ad averlo perduto per prime e più completamente, anzi è perfettamente spiegabile, ed è altrettanto evidente che proprio ad esse bisogna prima di tutto restituire il contenuto legittimo se si vuole in qualche modo contribuire alla ricerca di quella chiarezza che si impone come prima meta a quanti al giorno d'oggi non se la sentano di lasciarsi semplicemente sommergere dal caos che li circonda. Le parole che costituiscono il titolo di questo nostro articolo introduttivo sono appunto due tra le più abusate, e il cui significato reale pare essere stato, almeno nell'Occidente moderno, completamente dimenticato da diversi secoli; sembra anzi, a giudicare dalle immagini che oggi suscitano nei nostri contemporanei, che una lenta campagna sia stata condotta contro di esse, a partire da una data epoca. Il risultato ottenuto è stato differente nei due casi, questo è vero, ma bisogna tenere conto della diversità dei due contenuti: se «tradere», il verbo latino la cui sostantivazione è stata trasportata integralmente nell'italiano, si può adattare a qualsiasi oggetto, di natura anche esteriore, «esoterismo» è certamente un vocabolo molto più imbarazzante, poiché implica un termine di paragone, essendo termine di paragone esso stesso. Esoterico (e cioè interiore, nascosto) era detto l'insegnamento che talune scuole greche impartivano ai discepoli che erano giunti ad accedervi; esoterica era la dottrina che si trasmetteva in questi centri intellettuali, e di essi tutto quel che trapelava all'esterno era un adattamento, in questo caso filosofico, che veniva ad assumere, rispetto alla dottrina interiore, il ruolo di un «exoterismo», vale a dire di qualcosa di esteriore. Questa dottrina filosofica, esteriore od exoterica, implicava dunque la dottrina e l'insegnamento interiori come qualcosa che la produceva e la garantiva allo stesso tempo, ed aveva quindi nei suoi confronti un ruolo subordinato; è forse questa una delle ragioni per cui in un'epoca così superficiale come la nostra, in cui la realtà è stata ridotta ad una fantasmagoria di movimento e di immagini, evocare un termine che richiama qualcosa di profondo e di realmente esplicativo è, come dicevamo, particolarmente imbarazzante. Prima di tutto può far venire in mente a troppi che le spiegazioni che la scienza fornisce della realtà non siano sufficienti, e poi, quando questo dubbio sia accettato come valido, può porre qualcuno nell'alternativa di cercare qualcosa che si è accorto di non avere, e qualcun'altro nella triste condizione di riconoscere che, per quanto faccia, non ha nulla da dargli. «Tradizione», dicevamo, è invece meno compromettente; e infatti se la parola «esoterismo» è praticamente scomparsa dal vocabolario - o permane solo più sulle labbra di qualche eccentrico, o peggio, in cerca di un «successo» intellettuale a buon mercato - di usanze, costumi, credenze tradizionali si sente ancora parlare relativamente sovente. A parte che anche in questi casi l'aggettivo ha assunto una sfumatura ambigua, sovente di sprezzo per le cose a cui viene applicato, specialmente nella sua modificazione «tradizionalista», non è certo di questo tipo di tradizione che noi intendiamo occuparci; il fatto è che in realtà, e malgrado le apparenze, questa parola, nelle accezioni che corrispondono ai suoi significati più profondi e più legittimi, in altri termini più intellettuali, è scomparsa anch'essa, e ciò che di essa rimane, salvo rare eccezioni, è proprio soltanto più una veste sonora che si presta a dipingere certe manifestazioni di senilità mentale sopportate ancora, bontà sua, dallo «spirito progressista» moderno. A noi interessa l'unica vera Tradizione, la quale è strettamente in relazione con l'esoterismo e perciò con l'intellettualità pura. Abbiamo accennato all'esoterismo di certe scuole greche, del quale tutto quello che si sa è che sia esistito, ma questo concetto d'una dottrina al cui insegnamento soltanto pochi possono accedere e il cui scopo ultimo è la conoscenza sempre più profonda della realtà, era diffuso presso tutti i popoli dell'antichità, anche in Occidente, ed è ancora conosciuto attualmente in Oriente. Tale restrizione dell'insegnamento a un'élite, per definizione poco numerosa, non è né un capriccio né tanto meno obbedisce a ragioni di «predominio» o di «egoismo», come il sentimentalismo occidentale è sempre tanto incline a pensare quando si trovi in presenza d'un ordine gerarchico legittimo ed efficiente. Imprestando a tutte le epoche e a tutti i popoli la propria mentalità e le proprie reazioni psicologiche, nonché la propria mancanza di principi, da cui in definitiva derivano tutte le altre manchevolezze, gli Occidentali moderni sono presi dal panico quando vengono in contatto con la realtà sotto una qualsiasi delle sue manifestazioni, e in perfetta buona fede, almeno nella maggioranza dei casi, trovano iniquo ed illegittimo che non sia buono per tutti ciò che è buono per qualcuno. Meno empirici (anzi assolutamente non empirici, e quindi rigorosamente scientifici, per usare un'altra parola di cui si è ampiamente travisato il senso normale) ed estremamente realistici, gli antichi sapevano che esistono differenze tra gli uomini, ed è proprio in questa coscienza della diversità delle condizioni attraverso le quali passa l'umanità, differenziandosi nello spazio e nel tempo, che ha le sue radici profonde il concetto di Tradizione. Non avrebbe infatti nessun senso parlare di qualcosa che si trasmette di epoca in epoca se non si attribuisse a ciò che era all'inizio una superiorità su quanto si potrà trovare in seguito. Ed è infatti proprio questa la realtà riposta sotto il termine di Tradizione: l'esistenza d'uno stato umano originario caratterizzato da condizioni intellettualmente diverse da quelle delle epoche posteriori e in cui l'uomo era in rapporto cosciente con l'intelligenza cosmica e con il suo Principio, e la possibilità, per individualità che ne posseggano le qualificazioni, di ricostruirlo per se stessi effettivamente, risalendo in qualche modo il ciclo fino alle sue origini; i mezzi da mettere in opera a questo scopo e la dottrina, riflesso mentale dello stato di ordine e di conoscenza che caratterizzavano questa epoca scomparsa, sono il contenuto di questa trasmissione, nonché l'insieme delle leggi esteriori destinate a mantenere l'ambiente e gli esseri umani in armonia con le leggi cosmiche, di cui esse non sono che una particolarizzazione e una applicazione, e le scienze speciali, applicazioni anch'esse della dottrina puramente metafisica all'ordine contingente. In tutte le civiltà normali è presente tale idea di un compito di importanza primordiale per l'uomo, che non si può adempiere senza un aiuto che risalga all'origine stessa dell'umanità, simbolicamente e letteralmente. La concezione biblica dell'Eden altro non è che la raffigurazione di questa realtà, e a tal proposito nulla si potrebbe citare di più chiaro nel suo simbolismo che questo passo di Ciuang-Tsé: «...Dono del Cielo è la natura ricevuta alla nascita. Compito dell'uomo è di cercare, partendo da quel che sa, d'apprendere quel che non sa; di mantenere la propria vita fino alla fine degli anni assegnatigli dal Cielo senza abbreviarla per colpa propria. Saper ciò ecco l'apogeo. E quale sarà il criterio di queste asserzioni la cui verità non è evidente? Su cosa riposa la certezza di questa distinzione del celeste e dell'umano nell'uomo?... Sull'insegnamento degli ‘Uomini Veri’. Da essi proviene il ‘Vero Sapere’» Quel Vero Sapere che, espresso in forme diverse per un adattamento alle diverse condizioni di tempo e di luogo è, come dicemmo, presente al fondo di tutte le civiltà tradizionali, detenuto da un'élite che lo amministra e lo trasmette, in obbedienza a leggi cicliche da essa conosciute, ad individualità che per la propria costituzione psichica e fisica sono in grado di trarne profitto sviluppando le proprie virtualità e risvegliando le proprie facoltà intellettive più profonde, al fine di diventare a loro volta Uomini Veri e di mettersi in contatto cosciente con gli Stati superiori del proprio essere. Non pretendiamo certo con queste poche considerazioni di aver reso conto nella loro complessità degli argomenti che formeranno l'oggetto dei nostri studi; la nostra unica intenzione è stata di dare un'idea dei soggetti che si troveranno trattati in questa rivista, ma più che altro del punto di vista da cui essi saranno presi in considerazione. Si tratta di un punto di vista insolito per i nostri giorni, ed è per questa ragione che ci è parso utile insistere un po' su certe distinzioni linguistiche; sappiamo per esperienza come sia difficile e faticoso uscire dal cerchio chiuso dei pregiudizi e delle opinioni correnti, il più delle volte intellettualmente insignificanti, e ci rendiamo conto che quest'inerzia mentale è particolarmente favorita dalla confusione verbale a cui accennavamo all'inizio. È facile screditare dottrine e punti di vista, soprattutto quando danno fastidio, servendosi di quattro parole ben aggiustate e completamente prive di significato; l'unico mezzo per prevenire e controbattere questo metodo spiccio, e purtroppo al giorno d'oggi efficace, di... analisi («spirito critico» è detto il mobile di tale particolarissimo modo d'agire) è di fornire, a chi possa esserne interessato, gli elementi perché possa trarre da se stesso conclusioni e giudizi. Questo abbiamo intenzione di fare in queste pagine, fornendo traduzioni di testi tradizionali, ripubblicando articoli già apparsi altrove e di cui il pubblico italiano non è, salvo rare eccezioni, venuto a conoscenza, ed infine illustrando e chiarendo nei limiti delle nostre possibilità punti non ancora trattati, sempre ed esclusivamente alla luce della Dottrina tradizionale, al di fuori della quale ogni spiegazione è per noi illusoria ed ogni tentativo di approfondimento, vano.
I Celti un popolo inventato
Riporto un articolo ripreso da Rex-Pubblica, titolato:
I Celti, un popolo inventato
di Mario Moiraghi.
Nell'insieme lo trovo molto interessante e che ci apre
nuove conoscenze sicuramente da approfondire, in ogni caso saggio
interessante e stimolante
Negli anni fra il 1100 e il 1200 si diffuse per l'Europa il mito del Santo Graal. Studi effettuati sulla storia e sulla letteratura di quei tempi hanno permesso di rivedere in modo radicale l'intera materia, documentandone un'origine orientale, d'area persiana, con l'aggiunta di un protagonista di primo piano, Parsifal, tratto invece dalla figura di un santo toscano: Galgano di Montesiepi.
Rinviando al testo completo su questo argomento, si riportano alcuni passaggi significativi, che trattano il problema della connessione fra Galgano e la presunta cultura celtica.
Gli studiosi del Santo Graal si affannano, da oltre otto secoli, a dimostrare che tutto cio' che riguarda la Tavola Rotonda deriva dall'antica tradizione dei Celti. Nelle misura in cui Galgano viene accostato, seppure in tono dimesso e subordinato, alla Materia di Bretagna, non puo' mancare la tentazione di coinvolgerlo nelle saghe del Nord.
Accostarsi all'argomento "Celti" apre un importante interrogativo su cosa fossero realmente i Celti e sulla loro esistenza storica. Affrontiamo il problema per gradi e partiamo dal presupposto che essi siano realmente esistiti, con un proprio corredo di cultura, di simboli e di manifestazioni storiche.
Si fa notare, da piu' parti, che la località di Montesiepi, dove sorge l'eremo di San Galgano, allude forse ad un luogo sacro, cinto da siepi, nascosto ai profani, che non potevano partecipare ai riti segreti. Questa tradizione di recintare luoghi sacri (si prosegue a sostenere) era tipicamente celtica. Ne deriverebbe il fatto che la roccia, dove fu piantata la spada del santo, potrebbe essere il centro di un antico culto sacro, probabilmente celtico.
Quanto la tesi sia labile o insufficiente e' dimostrato dal fatto che tale consuetudine appartiene alle usanze di tutti i popoli. Persino il vocabolo italiano "paradiso" derivando dal persiano "pairi - daeza" o "giardino cintato" riconduce a questa usanza diffusa anche in oriente.
Ma la presunta pista celtica presenta ulteriori elementi.
L'antico nome di Montesiepi era Cerboli, che ricorda il Cervo, animale sacro ai Celti, identificato con il dio Cernumno, coinvolgendo anche il vicino paese di Cerbaia. Anche in questo caso e' difficile non notare che un Parco dei Cervi e' caro perfino alla tradizione buddista e non e' prerogativa indiscussa dei celti.
Nei pressi di Montesiepi esiste poi la localita' di Brenna con radice affine a Bran, eroe celtico, o a "brenna", sacrificio rituale di annegamento della vittima celebrato, si dice, dai Druidi.
Qualcuno sostiene anche che i cerchi formati da pietra bianca e cotto rosso, sulla volta della Rotunda, sono 48 e ricordano le decorazioni circolari celtiche, aggiungendo in via marginale che questi cerchi potrebbero essere connessi con una rappresentazione delle "onde di forma", ovvero di radiazioni negative e positive emesse da una struttura architettonica.
Non lontano dalla Rotunda, si nota ancora una vistosa croce celtica, scolpita nella pietra, elaborata o rielaborata in tempi recenti, che campeggia in un prato, ben visibile dalla strada contigua.
Si vuole ad ogni costo individuare qualcosa di celtico, insomma, in questo luminoso angolo di Toscana.
In realta' anche il collegamento fra cultura celtica, da una parte, e Galgano o il Graal, dall'altra, deve essere rivista da un'angolazione differente.
La possibile presenza dei cosiddetti Celti, nonche' dei simboli e della presunta cultura celtica nell'etrusca Toscana non dovrebbe suscitare grande sorpresa. Il transito e il trasferimento di elementi culturali o artistici fra le regioni dell'Europa medievale e' cosa nota e accettata. Anche la suggestiva chiesa di sant'Antimo, non lontanissimo da Chiusdino, presenta tracce grafiche appartenenti a quella categoria di "nodi" conosciuti come celtici.
Trovare elementi o tracce di questo genere in giro per l'Europa, fra le fiabe irlandesi, nelle decorazioni di un portale romanico, nelle poesie di Aquitania, nelle leggende bretoni, come quella del Graal, non dovrebbe essere motivo di sorpresa ma neppure prova di appartenenza alla tradizione celtica, con il relativo bagaglio di riti magici o sanguinari. Difficile ritenere che nella cristianissima chiesa di sant'Antimo si celebrassero riti celtici, con sacrifici di animali, sulla base della presenza di nodi celtici su qualche portale laterale della chiesa stessa.
Potremmo anche spingerci piu' in la', non escludendo che, sotto il racconto di Dionigia (si tratta della madre di Galgano e si riportano le frasi da lei pronunciate nel processo di canonizzazione n.d.r.), si celi veramente una traccia di riti pagani e, perche' no?, di tradizione celtica.
- Figlio mio, il freddo e' eccessivo, la fame intensa, il luogo quasi inaccessibile: come vi andremo?
"Come ci avvicineremo, figlio mio, a quel luogo inaccessibile perche' cintato e interdetto a chi non appartiene alla setta che vi pratica i suoi culti?"
Tutto cio' potrebbe avere un senso e una spiegazione, se non fosse invece assodato che i Celti, come tali, non sono mai esistiti.
Pur essendo una questione non strettamente legata al presente testo, il problema dell'esistenza dei Celti consente importanti considerazioni.
Occorre premettere, paradossalmente, che un elevatissimo numero di storici e letterati antichi parla dei Celti. Vale la pena elencarne qualcuno:
* Ecateo di Mileto (540 - 475 a.C.)
* Erodoto (490- 424 a.C.)
* Platone (428 - 348 a.C.)
* Aristotele (384 - 322 a.C.)
* Teopompo (378- 300 a.C)
* Eforo (sec. IV a.C.)
* Diodoro (sec. IV a.C.)
* Callimaco (320 - 240 a.C.)
* Polibio (205 -120 a.C.)
* Poseidonio (135 - 50 a.C.)
* Giulio Cesare (102 - 44 a.C.)
* Strabone (63 a.C. - 20 d.C.)
* Tito Livio (59 a.C.- 17 d.C.)
* Properzio (47a.C - 16 d.C.)
* Cassio Dione (155 - 235 d.C.)
* Avieno (sec IV d.C.)
A dispetto di tutti costoro, non e' difficile dimostrare che i Celti non esistevano, come nazione o come popolo, e che quelli che venivano chiamati Celti, comunque, non sapevano di esserlo.
"Una donna vissuta nel Dorset, nel IV secolo a.C., un sacerdote pagano irlandese, del II secolo a.C., un guerriero dei Belgi, nel I secolo a. C., un bambino della corte di Hywel Dda, nel 950, un allevatore delle Highlands scozzesi, nel XVI secolo d.C., si sarebbero altamente meravigliati di essere definiti Celti." (1)
Per indicare un popolo o una nazione o qualunque altro aggregato di persone, il termine "celti", come usato dagli scrittori sopra elencati, ha una validita' etnica poco differente dal termine "barbari", o "infedeli", o "gentili", o qualunque altro termine usato per indicare una vaga accozzaglia di persone ritenute "aliene" ma non precisamente identificabili.
Il nome, anzitutto, non ha un'origine sicura e definita. Quella grande nebulosa di gente di cui stiamo parlando veniva definita col nome di Celti, ad occidente, e di Galati, ad oriente. L'uno e l'altro nome condividevano con la parola "Galli" la presenza di due lettere, K-L oppure G-L.
Cio' ha spinto gli esperti a far derivare i loro nomi da una antica radice indoeuropea kal- (sanscrito kalayati) non lontana dall'italiano calare, nel senso di arrivare, oppure dalla radice gal-, che in greco e' associata al latte e alle cose bianche (italiano Galassia). (2)
Ci troviamo in un campo piuttosto vasto di significati che va da invasori a uomini bianchi, con infinite possibilita' intermedie.
Una rapida ricognizione sulle loro caratteristiche permette di affermare, quantomeno, che:
* non possedevano caratteristiche fisiche comuni: alcune popolazioni "celte" erano alte, alcune basse, alcune bionde, altre castane;
* non possedevano caratteristiche linguistiche comuni, se non quelle riscontrabili nel comune ceppo indoeuropeo e riscontrabili anche nel greco, nell'ebraico, nell'assiro babilonese, nel persiano, nel sanscrito o nel latino, non lasciarono tracce che si possano definire letterarie;
* non avevano religioni, divinita', miti comuni, omogenei e condivisi: si sono riscontrate, in area "celtica", oltre quattrocento divinita';
* non possedevano espressioni artistiche stilisticamente ben definite: i reperti archeologici (Hallstatt, La Tène, Golasecca,…) dimostrano al piu' che le popolazioni locali subivano l'effetto della diffusione e della imitazione fra un popolo e l'altro;
* non c'e' accordo neppure sull'elenco di tribu' o gruppi che possano essere inclusi o esclusi dal gruppo celtico: si dibatte ancora se Iberi, Aquitani, Liguri, Veneti e perfino Germani (tanto per fare qualche esempio) sono da considerare "celti" o meno;
* Il complesso dei costumi popolari e delle usanze comprendeva la gamma piu' completa di funerali (cremati, sepolti diritti, sepolti in posizione fetale, dati in pasto agli avvoltoi,…); alcuni bevevano vino, altri no; alcuni si opposero ai Romani, altri no; alcuni curavano l'estetica, altri no.
Se consideriamo poi che non avevano per nulla coscienza di appartenere alla grande nazione celtica, vera o presunta, dovremmo domandarci: puo' essere definito "celta" (o qualunque altra cosa) un popolo sparso che non lo e', non sa di esserlo e non ha nessun interesse per la questione?
Anzitutto Sorgono spontanee, a questo punto, due questioni:
* Su quali presunte prove e' stato costruito l'intero castello dei Celti e della loro unita' etnica?
* A parte le affermazioni generiche degli autori sopra elencati, chi e' stato autore e creatore di quei Celti in cui oggi molti credono?
La prima domanda puo' ricevere una rapida e sommaria risposta: le prove sono state in parte falsificate e in parte basate su indubbie radici culturali comuni, che certamente sono condivise dai presunti Celti ma anche da tutti gli altri popoli dell'area europea ed asiatica.
È noto agli studiosi che l'intero arco geografico che va dall'Indo alla Penisola Iberica, spaziando dal Mediterraneo al Mare del Nord, condivide comuni tratti culturali, definiti indoeuropei.
Lo testimoniano una infinita' di elementi storici, artistici, archeologici e, soprattutto, linguistici.
Lo si ritrova, ad esempio, nella parola latina Veritas, italiano Verita', che contiene la radice indiana Rt-, in antico persiano Arta; oppure nella parola latina Nomen, italiano Nome, inglese Name, persiano Namah.
Anche il nome di Parigi trova le sue radici nell'assiro babilonese Parisu, luogo che separa, mentre la parola Mago ha le sue origini in una radice indiana Mak- da cui il tedesco Machen, fare, e l'analogo inglese Make. (3)
Il flusso e la circolazione dei popoli e delle idee, fin dai tempi preistorici, ha provocato una sensibile e documentabile diffusione di elementi comuni dall'Indo all'Europa, fino alle isole europee, Inghilterra, Irlanda e Islanda. Al di la' di ogni possibile fenomeno di migrazione di massa e di invasione violenta, la naturale trasmigrazione delle idee e dei modelli di vita e' rintracciabile e documentabile in modo abbastanza preciso.
In altre parole, al di la' delle Alpi, oltre i confini del mondo greco o romano, qualcuno esisteva e si muovevano popoli, fossero Celti o altri, che condividevano le comuni radici indoeuropee.
La seconda domanda (chi ha creato i celti?) esige una risposta piu' complessa, che qui si cerchera' di sintetizzare in un breve cenno su cio' che e' avvenuto in Irlanda, in Scozia, in Galles ed in Francia. Notiamo anzitutto, come elemento comune, che fino alla fine del primo millennio d.C. non esistono in Europa significativi processi di formazione delle identita' nazionali, nelle forme e nei modi che oggi ci permettono di parlare di etnicita'. Unica realta' in qualche modo unificante e identificante e' l'Impero Romano, con la sua cultura e la sua progressiva conquista. Disgregato l'Impero Romano e attenuatesi le scorrerie di popoli provenienti da est, all'inizio del secondo millennio incominciano a formarsi le prime aggregazioni nazionali in senso moderno, anche sotto la spinta di quei re o signori che intendevano definire e consolidare un proprio regno.
Questo processo, che subira' un ulteriore importante sviluppo e consolidamento nei secoli XVII, XVIII, XIX, esigeva anche che i membri di una certa "nazione" avessero una chiara percezione del concetto di Noi e del concetto di Altri, magari Nemici.
Il rapporto con il passato romano, che era stato portatore di civilta', venne in qualche modo rinnegato e vissuto con una ostilita' culturale ostentata. In ogni caso, per potersi dare un'identita', occorreva distinguersi da quella cultura unificante e totalizzante che da troppi secoli era costituita dal mondo latino e romano. Occorreva spezzare con decisione questo rapporto (pur conservandone tutti i vantaggi pregressi) che veniva avvertito come un cordone ombelicale troppo a lungo tollerato. Occorreva ricostruire una propria autonoma storia, anche a costo di falsificare la Storia. E la confusa nebulosa celtica era un'occasione da non lasciarsi sfuggire.
In Francia, sul finire del primo millennio, si era ormai perduto lo slancio europeista di Carlo Magno, che aveva inseguito improbabili progetti culturali estesi a tutto il continente, con l'aiuto di Alcuino da York.
In un contesto segnato dal sorgere di regni e signorie, giunse all'improvviso un racconto orientale, forse persiano, dal possibile nome di Parsifal Namah, la Storia di Parsifal. Il racconto, debitamente tradotto, suscito' eccitata curiosita' nelle piccole corti europee in formazione, che avrebbero voluto anche loro essere raffinate, colte e mature come le corti persiane dell'epoca. Chrétien de Troyes si incarico' della riscrittura del racconto, a favore della corte di Aquitania, e cerco' probabilmente di dare maggior corpo alla figura del protagonista, cogliendo al volo la storia della vita di un personaggio di cui raccontavano i pellegrini giunti dalla Toscana, un certo Galgano. E al protagonista del racconto persiano furono fatti vestire i panni del santo toscano. Qualcuno (Wolfram vn Eschenbach) avrebbe avuto da ridire, ma intanto il gioco era fatto: l'area bretone si era costruita un suo modello e un suo aggancio con un presunto passato. Con l'aiuto dei Cistercensi e il consenso della Chiesa.
Ridimensionati i Cistercensi e cancellati i Templari, troppo sovranazionali per i tempi nuovi, la Francia si sforzo' di riaffermare e consolidare la propria identita' e la propria preminenza, tentando perfino di trasferire il papato ad Avignone.
Alle soglie del periodo romantico l'abate Paul Yves Pezron, nel 1730, interpretando la volonta' francocentrica scrisse un'opera che, ai nostri fini, risulta rivoluzionaria e fondamentale: l'Antichita' della Nazione e della lingua gallica. In quest'opera i Celti, cioe' i Galli, cioe' i Franchi, cioe' i Francesi presero decisamente corpo, facendo risalire la propria genealogia a Gomer,figlio di Japhet, figlio di Noe', genealogia nella quale trovano posto anche i Titani, Saturno, Urano, gli Spartani.
I Galli - Celti sono cosi' diventati nos ancetres, i nostri antenati in tutti i sensi e con tutti i crismi, e l'operazione continuera' durante la rivoluzione, poi con Napoleone I e Napoleone III, giungendo fino all'attuale classe politica, che continua ad incentivare il consolidamento del filone celtico. E Roma aveva perso qualunque diritto di paternita' culturale, conquistando il solo titolo di invasore imperialista.
Sul Galles gravava una situazione complessa, legata ad una serie di elementi che avrebbero influito non poco sulla cultura ufficiale.
Il primo elemento e' costituito dal gia' citato Goffredo o Geoffrey di Monmouth. Si tratta di una figura storica di incerta origine, che parla di se stesso come Gaufridus, o Galfridus, o Gaufrido de Monemuta, che l'abilita' degli studiosi ha tradotto in un piu' rassicurante Geoffrey de Monmouth, assegnandogli nazionalita' gallese.(4) Goffredo, o chi per lui, si era appunto inventata una tradizione gallese(5), facendo derivare il nome dei Britanni da un Bruto preistorico, piacevolmente affine a quel Bruto che aveva accoltellato Cesare.
In secondo luogo, agli inizi del 1700, lo scritto di Paul Yves Pezron aveva attratto l'attenzione di Edward Lhuyd, uno studioso di Oxford, che sognava una possibile derivazione della lingua gallese da un ipotetico, affascinante celtico. E su questa ipotesi aveva scritto pagine che avevano lasciato traccia nel pensiero locale, sostenendo che i Gallesi discendessero dai Britanni e questi, a loro volta, dai Celti.
Si era poi aggiunto, nel 1849, un altro testo, oggi ritenuto fondamentale, composto a cura di Lady Charlotte Guest. Si trattava di una antologia di racconti medievali gallesi, alla quale l'autrice diede il nome di Mabinogion, spesso citata perche', fra le sue pagine, si individuano racconti e figure che potrebbero avere analogie con quelle di cavalieri della Tavola Rotonda.
Lady Guest faceva parte di un gruppo di appassionati cultori della materia, che diedero forma o rivitalizzarono un'immagine gallese storica e folcloristica fittizia ma affascinante.
In questo ambiente si materializzarono:
* il mito della discendenza da Noe'; (6)
* la definizione dell'abito delle streghe; (7)
* l'identificazione fra druidi e bardi; (8)
* il tentativo di costruire o ricostruire una antica lingua gallese. (9)
Nell'ambito di queste attivita' culturali si cerco' di dare configurazione e consistenza anche alla figura di re Artu'.
L'Irlanda godeva di una situazione particolare, decisamente invidiabile.
Gli irlandesi avevano alle proprie spalle una tradizione culturale di tutto rispetto. Si raccontava che nel suo territorio si fossero succedute almeno sei antiche dinastie di eroi. Le due ultime, fondamentali per la storia locale, erano i Thuata de Danaan (la tribu' della dea Danaan) e i Goidels, veri antenati degli odierni irlandesi.
In questo ambiente erano emerse alcuni mitici campioni, come Fionn e Cu Chulainn. (10)
Queste leggende, riprese poi nei secoli seguenti, davano una certa indipendenza e sicurezza di se' alla cultura irlandese, rendendo meno pressante la ricerca di un collegamento con ipotetici Celti, tantopiu' se invasori.
I monaci irlandesi, pur filtrando le leggende con la visione cristiana, ebbero un ruolo decisamente fondamentale nel recupero delle tradizioni locali. Lontani da Roma, isolati nella magia dei loro monasteri, fornirono un prezioso contributo alla cultura della loro terra ma anche a quella di tutta l'Europa e del mondo intero, raccogliendo preziose tracce di antichita', elaborando meravigliosi codici miniati, inviando ovunque i loro messaggeri spirituali: Columcille, Colombano, Gallo e altri, che lasciarono consistenti tracce di se' dalle isole britanniche al sud dell'Italia, raggiungendo anche l'Islanda, la Groenlandia e il nord America.
Furono loro, fra l'altro, a perfezionare e diffondere quelle preziose forme artistiche, legate alla decorazione dei codici, che oggi vengono percepite come stile celtico.
Le vicende storiche che seguirono, soprattutto i difficili rapporti con la vicina Britannia, stimolarono ripetutamente l'orgoglio locale, anche nel periodo romantico del secoli XVII e XIX, cercando di dare consistenza alla presunta identita' celtica di quest'isola.
Un discorso a parte meriterebbe la questione dei druidi, sull'esistenza dei quali si costrui' una serie di teorie sostanzialmente inesatte o false, dando loro ruoli, riti ed abiti di cui non esistono testimonianze oggettive, prima del secolo XVIII.
La Scozia non fu da meno. Fino al settecento essa era rimasta la parente povera, nel complesso delle regioni britanniche. In qualche modo emarginata dal sud gallese o inglese, era vagamente connessa con la vicina Irlanda. Non possedeva e non condivideva tradizioni di grande importanza.
Fu cosi' che nei secoli XVIII e XXI ebbero luogo due fenomeni:
1. quello che si puo' chiamare un trafugamento delle tradizioni, a danno dell'Irlanda;
2. la rielaborazione artefatta di un complesso di elementi locali, tali da rendere la tradizione scozzese autonoma e dotata di un proprio folclore esclusivo.
Il risultato di queste operazioni puo' essere cosi' sintetizzato:
* vennero raccolte ballate irlandesi e trasferite nell'ambiente scozzese, dando corpo alla figura del presunto bardo Ossian; (11)
* furono inventati il kilt e i relativi colori dei clan scozzesi, operazione comunque compiuta dopo il 1700; (12)
* fu definitivamente affermata la radice celtica (o presunta tale) degli scozzesi.
L'operazione fu in qualche modo legittimata dai sovrani inglesi, dall'ambiente militare (che adotto' kilt e cornamuse) e dalla nazione intera, che fu coinvolta in eventi politici, militari e culturali basati, appunto, su kilt e cornamuse, nonche' su clan, tartan, plaid ed elementi di folclore relativi.
Pochi oggi, in Gran Bretagna e in tutto il mondo, dubitano della genuinita' e dell'antichita' di queste presunte tradizioni.
Al di la' delle creazioni fantastiche di tempi piu' o meno recenti, non possiamo che ripeterci la domanda gia' formulata: puo' essere definito "celta" un ipotetico antico popolo, disperso su un intero continente, che non ha elementi di identita' solidi e comuni, non sa di esserlo e, comunque, non ha nessun interesse per una propria identita' nazionale o soprannazionale, se non quella occasionale e strumentale, prodotta da qualche sussulto nazionalistico o politico?
Note:
(1) lo spunto e' tratto, con qualche modifica, da S. James - I Celti popolo atlantico op. cit. pag 18.
(2) Si puo' controllare quanto affermato su opere come L.Rocci - Vocabolario Greco Italiano - Ed. Dante Alighieri
(3) Gli esempi sono esposti con in modo semplificato. Sarebbe necessario, piu' correttamente, riferire in merito agli studi fatti in rapporto al sanscrito e al suo ruolo nella civilta' indoeuropea, ma l'argomento esula dal presente testo. Si veda, ad esempio. G. Semeraro - Le origini della cultura europea - Firenze 1984 - Ed Olschki, oppure H.J. Stoerig - Abenteuer Sprache - Berlino 1987.
(4) Cfr. G. Agrati M.L. Magini (a cura di) - Merlino, l'incantatore - Ed Mondadori 1996, pag. 348
(5) Come si e' detto, si veda Prys Morgan - La caccia al passato gallese in eta' romantica - in L'invenzione della tradizione - Torino 2002 - Ed.Einaudi
(6) Vedi il citato Prys Morgan, pag 67
(7) ibid pag. 79
(8) ibid. pag. 62
(9) ibid. pag. 70
(10) Vladimir Grigorieff - Les mythologies du monde entier - Marabout Alleur 1987 Ed.It. Armenia pag. 119
(11) Hugh Trevor Roper - La tradizione delle Highlands in Scozia - in: L'invenzione della Tradizione op.cit. pag21 e segg.
(12) Ibid. pag. 23
sabato 27 novembre 2010
In nome del cosiddetto progresso
In nome del cosiddetto progresso stiamo uccidendo la nostra parte
migliore
di Francesco Lamendola - 26/11/2010
Fonte: Arianna Editrice
Un tempo non tanto lontano, diciamo meno di due generazioni fa, la
vita delle persone era ancora piena di piccoli, grandi segni che ne
sviluppavano la parte migliore: la fantasia, la sensibilità, lo
stupore davanti al mondo, la “pietas” verso gli altri e verso i
defunti.
All’avvicinarsi della ricorrenza di Santa Lucia o del Natale, i
bambini scrivevano una letterina in cui tracciavano un bilancio del
proprio comportamento morale, si proponevano di migliorarlo e
chiedevano, trepidando, il giocattolo tanto a lungo sognato: non lo
pretendevano; lo domandavano, pur consapevoli di non averlo pienamente
meritato.
Era una lezione di umiltà verso se stessi e un avviamento alla
chiarificazione interiore. Era anche un esercizio di bello scrivere.
Infine era uno stimolo alla creatività e allo sviluppo del senso
estetico, perché quella letterina, che costituiva un vero e proprio
evento nella vita del bambino, veniva abbellita da disegni e
decorazioni che ne facevano un piccolo capolavoro di inventiva e di
capacità artistiche.
Poi sono venute le letterine natalizie già belle e pronte: si
compravano in cartoleria e avevano già tutti i disegni e le
decorazioni; bastava scrivere il testo.
Da ultimo è scomparsa anche la letterina, così come sono scomparsi
Santa Lucia e Gesù Bambino. I giocattoli li portavano direttamente i
genitori, senza che il bambino avesse fatto niente per meritarseli:
così, in omaggio al consumismo dilagante.
Un altro esempio.
All’epoca di cui stavamo parlando, presso molte famiglie era diffusa
una pia e dolce tradizione: quella di lasciare un bicchier d’acqua sul
tavolo della cucina, alla sera, la vigilia del 2 novembre, il giorno
della ricorrenza dei morti. Quell’acqua era destinata a dissetare le
anime del Purgatorio che, la notte, sarebbero venute a bere.
Un residuo di superstizione, una scoria dei tempi magici che la
scienza moderna ha dissipato? Certo, può darsi. Ma se anche fosse?
Non era una tradizione utile, oltre che poetica, dal momento che
contribuiva a tenere sempre frequentato il sentiero spirituale che
collega i vivi ai morti, mentre oggi quel sentiero si sta ricoprendo
inesorabilmente di erbacce, dato che nessuno più lo percorre?
Potremmo continuare a lungo con esempi del genere, ma crediamo di aver
reso l’idea di quel che vogliamo dire.
In genere, nel rendere ragione della scomparsa di tali gesti, come
quello di rendere grazie per il cibo quando ci si mette a tavola, o di
benedire una persona che esce di casa per affrontare un viaggio, si
risponde - se pure si ritiene di dover dare una spiegazione - che è
giusto liberarsi dei residui del passato, dato che viviamo in un mondo
ove la scienza, la tecnica e l’economia marciano sempre più in fretta.
Gira e rigira, quindi, è sempre la solita, eterna ideologia del
progresso illimitato, che dovrebbe spiegare tutto, giustificare tutto,
rendere ragione di tutto. Che cosa volete farci, è il progresso; e non
si può mica andare contro il progresso, questo è certo…
Eppure, basta una riflessione anche abbastanza frettolosa per rendersi
conto che le cose stanno altrimenti; che questa è solo una spiegazione
che si dà «a posteriori» per illudersi di avere ancora il controllo
della situazione; mentre è vero il contrario: che questo cosiddetto
progresso è sempre più simile a una locomotiva lanciata a tutta
velocità, senza macchinista e senza freni, lungo un binario morto.
Allo stesso modo in cui sono scomparsi i gesti gentili, le parole
buone, i simboli del nostro legame con la realtà soprannaturale, così
stanno scomparendo i popoli, le lingue, le culture; così stanno
scomparendo le specie vegetali e animali, a un ritmo sempre più
vertiginoso; così stiamo entrando, a vele spiegate (si fa per dire),
nel paradiso della modernità.
Vorremmo convincerci che tutto questo sia frutto di un piano
preordinato e che, sì, vi sono forse degli effetti collaterali non
previsti, ma insomma, nel complesso, gli aspetti positivi prevalgono
immensamente, senza possibilità di paragone.
Non è forse vero che tante malattie sono state domate (ma altre ne
sono comparse); che la vita umana si è allungata (ma solo la durata
media); che le comodità e il benessere si sono largamente diffusi (ma
solo in una parte dell’umanità e a prezzo di tensioni e nevrosi ogni
giorno crescenti)? E dunque, come dubitare della bontà del progresso?
E poi, il progresso non si giudica: è un valore evidente in se stesso;
chiunque lo metta in discussione deve soffrire di qualche disturbo
mentale. Meno male che c’è una scienza nuova di zecca, la psichiatria,
per curare questi individui sempre scontenti, inspiegabilmente ingrati
e potenzialmente pericolosi per l’intera società.
In Unione Sovietica si ricorreva alla psichiatria per “curare” quanti
non gradivano le meraviglie del socialismo reale; e il marxismo, a ben
guardare, non era che una delle tante forme di adorazione del
Progresso, una delle tante ideologie uscite dalla nobile e altruistica
convinzione illuminista (e positivista) che la ragione serva per
portare la felicità a tutti, sia che lo vogliano, sia che non lo
vogliano…
I contadini della Vandea, per esempio, non volevano un tal genere di
felicità: volevano tenersi i loro preti, le loro superstizioni e,
«horribile dictu», i loro signori; insomma volevano la tradizione e
l’ancién régime: ragion per cui gli eserciti repubblicani francesi, in
nome della Dea Ragione e della felicità, ne sterminarono circa un
milione.
Ma che cosa è mai un milione di cafoni della Vandea, davanti alle
“magnifiche sorti e progressive” della modernità? Che cosa sono mai
otto milioni di contadini russi, a fronte della creazione di una
industria pesante nel volgere di pochi anni e, nello stesso, della
totale distruzione della proprietà privata rurale, eterno focolaio di
reazione e di superstizione?
Il fatto è che, in nome del cosiddetto progresso, che poi è soltanto
brutale sviluppo materiale, stiamo uccidendo la parte migliore di noi
stessi: quella che sogna e si stupisce; quella che loda e ringrazia;
quella che si sente collegata a tutto ciò che esiste, a tutto ciò che
vive, a tutto ciò che respira: cominciando con la Terra, «sora nostra
matre Terra», come la chiama San Francesco nel sublime «Cantico delle
creature»: sorella e madre al tempo stesso.
Noi non ci stupiamo più di nulla: sappiamo che la scienza ha una
risposta per ogni cosa; né ringraziamo più per tutto ciò che la vita
ci offre: non si tratta di un dono, ma una preda e, conquistandola,
non facciamo che esercitare un nostro diritto.
Un tempo non troppo lontano, i mandarini sulla tavola erano, per i
bambini, un gradito dono del Natale; anche le mele erano un dono,
anche il pane caldo appena sfornato era un dono. Quei bambini sapevano
quanto lavoro era costato il pane e sapevano che senza il sole, senza
la pioggia, senza il vento, non ci sarebbero stati mandarini sulla
tavola, né mele, né pane…
I bambini di oggi protestano se in tavola non ci sono i frutti fuori
stagione; se non ci sono i dolci confezionati di produzione
industriale; se non c’è la Coca Cola. Non si stupiscono più per le
piccole cose, non si sognano nemmeno di ringraziare qualcuno o
qualcosa.
Non è certo “colpa” loro.
I loro genitori li hanno cresciuti così; e, se non i genitori, la
televisione, il cinema, il computer, l’esempio dei compagni e delle
loro famiglie.
Eppure, nella vita del singolo così come in quella delle società, sono
soprattutto i piccoli gesti quotidiani, sono soprattutto i pensieri di
ogni giorno che costruiscono, lentamente ma immancabilmente, i valori
intorno ai quali la vita e il mondo trovano un significato; sicché,
aver lasciato scomparire quei gesti e quei pensieri non può che
produrre un vuoto esistenziale nel quale subito tendono ad introdursi
le male piante dell’edonismo, dell’egoismo, dell’indifferentismo.
Suvvia, dirà qualcuno, non esageriamo: dopotutto, si trattava
semplicemente di simboli.
Vero, verissimo; ma i simboli non sono un di più, non sono un fronzolo
o un abbellimento; i simboli rivelano l’anima stessa della vita, tanto
individuale che collettiva, qualora formino una rete armoniosa e
coerente tessuta dal susseguirsi delle generazioni.
Un individuo e una società che abbiano smarrito il linguaggio dei
simboli, hanno con ciò smarrito sia le proprie radici, sia il senso
del proprio destino; ed è inevitabile che vadano incontro al nulla,
cioè all’autodistruzione. Poco importa se ci vanno col sorriso sulle
labbra.
Questo è il pericolo che attualmente ci sovrasta.
Non la crisi economica, dalla quale ci si può riprendere; non la
guerra mondiale, dalle cui ceneri si potrà ricominciare; e nemmeno la
catastrofe ecologica, che pure servirà ad insegnare ai sopravvissuti
la strada di un nuovo inizio.
No: il pericolo mortale è la perdita delle radici e la perdita del
senso circa il proprio destino; diremo meglio: la perdita dell’idea
del destino. Al destino subentra il caso; a una visione organica del
mondo, subentra una visione meccanica; a un modo di porsi qualitativo,
subentra un modo di porsi puramente quantitativo.
Il mondo vivo, elastico, malleabile, del destino e del simbolo, viene
gradualmente sostituito da un mondo rigido, solidificato, morto, ove
una tecnica senz’anima celebra i suoi ultimi, spettacolari trionfi, in
una luce corrusca da apocalisse.
Dobbiamo fare molta attenzione.
Il mondo si regge anche sul piccolo gesto quotidiano di ringraziare il
Cielo per il nostro nutrimento, di ringraziare la Terra per i beni che
ci elargisce, e di benedire il figlio che esce di casa, andando
incontro al suo destino di adulto.
Questa rete di simboli ci teneva legati in una unità organa ed
impediva che le forze individualistiche dell’egoismo sfrenato ci
conducessero all’autodistruzione.
Il gesto pietoso rivolto ai nostri cari defunti ci teneva legati al
mondo dell’Aldilà e consentiva alle anime di coloro che ci hanno
preceduti di agire positivamente su di noi, proteggendoci dalle
conseguenze di un materialismo cieco e distruttivo.
Un tempo si insegnava ai bambini che accanto ad ognuno di essi vi è
una Presenza benevola, un Angelo custode che ne sorveglia
affettuosamente i passi e che gli fa scudo contro le energie malefiche
in agguato sulla sua strada.
Era solo una favoletta edificante? Non lo crediamo.
Le forze del Bene esistono, e così quelle del Male; e la loro azine
sul mondo fisico è tanto certa, quanto lo è quella degli agenti
atmosferici o della realtà storica.
Tuttavia ben diversa è la condizione di una umanità che ignora questa
rete di presenze spirituali e che fa affidamento solo e unicamente
sulle proprie forze; che spesso, anzi, tende a stringere un patto
scellerato con le forze del Male, in cambio di potere e successo.
Tale è la nemesi dell’uomo moderno, dell’uomo faustiano: colui che
stringe un patto col Diavolo, vendendogli la propria anima in cambio
di un dominio sempre più spietato sulla natura e sul mondo delle cose.
I gesti volgari e insultanti, le smorfie di irrisione, le parodie del
sacro che oggi imperversano ed il cui pessimo esempio giunge, sovente,
proprio da parte delle persone più in vista, magari da quelle che
ricoprono ruoli istituzionali, hanno sostituito i gesti benedicenti e
le parole di fede e di carità che, un tempo, accompagnavano la vita
umana.
Tutto questo è il prodotto di una modernità che ha smarrito le strade
dell’anima; che, anzi, ha smarrito perfino la coscienza di possedere
un’anima, e quindi di possedere una vocazione ed un destino
soprannaturali.
In cambio, abbiamo eretto i nuovi altari alla Ragione, alla Scienza,
alla Tecnica, al Progresso.
Da ultimo, li abbiamo eretti solo al nostro sfrenato egoismo e alla
nostra superbia luciferina.
E poi, che cosa ne sarà di noi?
martedì 23 novembre 2010
La Lega Nord riunifica l'Italia
lunedì 22 novembre 2010
Sempre l'Italia
Il vertice NATO di Lisbona deciderà dove dislocare le
circa 200 testate nucleari tattiche attualmente sul suolo europeo,
sparse tra Belgio, Italia, Germania, Olanda e Turchia.
Dislocare dove, visto che Belgio, Olanda, Germania e altri - avendo
male interpretato, evidentemente, le promesse di Obama di andare
verso una drastica riduzione delle armi atomiche- avevano dichiarato
di non volerle più sui loro territori? Resterebbero, dunque Turchia e
Italia.
Ma la Turchia di Erdoğan negli ultimi tempi è diventata un alleato
assai scomodo.
E non solo è poco verosimile che qualcuno le faccia una tale
proposta, ma è ancor meno verosimile che Ankara l'accetterebbe.
Rimane, apparentemente, l'Italia, che sulle sue circa 80 bombe
atomiche sparse nei suoi territori non ha mai detto parola, né ai
tempi del centro sinistra, né ai tempi presenti della destra. E oggi,
con un Berlusconi traballante, bisognoso dell'aiuto
dell'abbronzato
presidente, non vede l'ora di accettare. Intanto quelle armi non
fanno nemmeno il solletico all'amico Putin.
Il fatto è che la decisione non è passata inosservata in Europa. Un
nutrito gruppo di leader politici europei dell'Europa pre- 11
settembre hanno alzato la voce protestando: perché tenerci queste
bombe atomiche? E qual è il ruolo della NATO in questa fase? I nomi
erano grossi e restano grossi anche oggi: sono Helmut Schmidt, ex
cancelliere tedesco, l'ex ministro degli esteri belga, Willy Claes,
l'ex ministro degli esteri britannico Des Browne, e l'ex primo
ministro olandese, Ruud Lubbers. E le stesse domande irritate sono
risuonate in numerose altre capitali europee minori, un tempo
prostrate di fronte a Washington. Naturalmente nel silenzio tombale
di Roma.
Tutti pensano, come noi, che quelle 200 bombe atomiche non aumentano
la nostra sicurezza. Tutti pensano che, anzi, sono pericolose solo
per noi europei.
Ma non si può certo dire che non servano a niente. A qualcosa
servono: a costringerci a tenere in casa le basi americane, cioè a
tenerci legati, mani e piedi , agli Stati Uniti. I quali,
precipitando - come stanno facendo (e non pochi europei cominciano ad
accorgersene) - trascinano giù anche noi...
domenica 21 novembre 2010
Aspetti religiosi e storici del Tibet
Aspetti religiosi e storici del Tibet
di Gianluca Padovan - 18/11/2010
Fonte: Rinascita
In questi ultimi decenni vari personaggi hanno visto il Tibet come uno
degli ultimi territori del Pianeta dove si siano conservate le antiche
tradizioni dei cosiddetti “indoeuropei”.
Difatti non si esclude l’ipotesi che le ondate migratorie dall’Europa,
avvenute tra il terzo e il primo millennio prima dell’anno zero,
abbiano interessato anche questi altopiani, portandovi genti e
tradizioni europee. Fino a ieri potevamo osservare che a una quota
media di 4000 metri si è sviluppata una cultura che si è mantenuta
sostanzialmente indipendente nel corso dei secoli: essa avrebbe avuto
tanto da insegnare (o da ricordare) a noi europei rimasti si nelle
nostre terre, ma in gran parte privati del nostro retroterra
culturale. Gli studi sulla preistoria tibetana sono quasi totalmente
mancanti, seppure siano stai riconosciuti siti inquadrabili al
paleolitico superiore e al neolitico.
La cultura megalitica è diffusa, con menhir isolati e allineamenti; ad
esempio: “a Do-ring, esistono 18 file di monoliti”.1 La lingua
tibetana presenta numerosi dialetti ed è compresa, secondo alcuni,
nella famiglia sino-tibetana. Ma meriterebbe maggiore attenzione e uno
studio comparato più approfondito soprattutto dei così detti dialetti.
Riguardo le loro origini i tibetani ricordano vari miti e uno dei più
antichi parla dell’esistenza di un uovo, matrice d’ogni creazione:
“Quest’uovo primordiale concentrava in sé tutti gli elementi -aria,
terra, fuoco, acqua e spazio- e fece nascere altre diciotto uova: da
una di queste scaturì un essere informe, ma capace di pensare, che
provò il bisogno di vedere, toccare, ascoltare, sentire, gustare e
spostarsi e allora creò a sua volta il corpo umano”.2
L’ordine costituito viene da Nyatri Tsen-po, un re guerriero del cielo
che indossa un elmo metallico, i cui simboli del potere sono
l’armatura che s’infila da sola e gli oggetti magici che agiscono da
soli: la lancia, la spada e lo scudo. Questa sorta di semidio è
comunque mortale: “Al momento della morte terrena il suo corpo si
trasformò in un arcobaleno e gli permise di risalire nella sua prima
patria: lo spazio infinito dove giace in una tomba eterea”.3
Parlando del profilo storico del Tibet, Padma Sambhava traccia un
interessante disegno: “I tibetani hanno sempre chiamato il proprio
paese Bö, in qualche occasione aggiungendo Khawajen, Terra delle Nevi.
La storia documentata risale a circa 2300 anni fa, al tempo
dell’Impero Macedone in Occidente, dell’Impero Maurya in India, e del
tardo Impero Chou in Cina. Nei suoi primi otto secoli, il Tibet fu
governato da una dinastia militare. Aveva un sistema religioso
animista, retto da un clero di sciamani esperti nella divinazione,
nelle arti magiche e nei sacrifici, mentre il suo sistema di governo
s’incentrava su una famiglia reale ritenuta di discendenza divina. I
primi sette re discesero sulla terra a governare da una scala di corda
sospesa nel cielo, sulla quale sarebbero poi risaliti non appena fosse
giunta la loro ora. L’ottavo re, in seguito ad un conflitto di corte,
recise la corda che lo legava al cielo e, da allora in poi, i sovrani
come i faraoni egiziani, furono sepolti in ampi tumuli funerari
insieme ai loro beni e al loro seguito».4
Ricordando il proselitismo dei missionari cattolici, i quali dalle
terre dell’India si spingono in Tibet, Giuseppe Tucci riporta un loro
raffronto tra mussulmani, induisti e lamaisti, che così si delinea
nella considerazione di questi ultimi: “La severa organizzazione dei
monasteri, l’abilità dialettica dei maestri, le sottigliezze teologali
discusse con arguto vigore di logica nelle radunanze di monaci e
l’austerità di molti riti ben disposero la loro anima al Buddismo
Tibetano”.5
Parlando del buddhismo non si può dimenticare che il quattordicesimo
Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale e politica del Tibet,
nonché Nobel per la Pace nel 1989, vive esule in India dal 1959. Dalai
Lama è il titolo dato al capo della religione buddista-lamaista
residente a Lhasa (Tibet) nel Palazzo del Potala. Nel 1950 le truppe
cinesi del governo comunista maoista attaccano il Tibet e con il
trattato del 23 maggio 1951 lo stato è integrato nella Repubblica
Popolare Cinese. Sono lunghe e complesse le vicende politiche,
religiose e militari che vedono coinvolto il territorio tibetano da
circa duemila anni; basterà qui ricordare che nel 1720 la Cina
interviene militarmente imponendo due propri commissari accanto al
Dalai-Lama dell’epoca. Così racconta Thubten Dschigme Norbu, fratello
maggiore del Dalai Lama, nonché abate del monastero buddista di Kumbum
situato nei pressi di Sining in Cina: “Ancora una volta dovetti
recarmi a Sining dalla commissione per il Tibet. Mi dichiararono che
dovevo condurre con loro due coniugi e un radiotelegrafista cinesi;
quest’ultimo doveva restare sempre in comunicazione con Sining, per
informarli costantemente di quanto accadeva alla nostra carovana.
Acconsentii a malincuore. Nel loro discorso i comunisti deposero
completamente la maschera. Senza preamboli mi sottoposero delle
proposte che mi atterrirono e mi irritarono. Quel che dovetti udire
era talmente mostruoso, che solo a fatica potevo dominarmi. Se fossi
riuscito a convincere il governo di Lhasa ad accogliere le truppe
della Repubblica Popolare Cinese come esercito di liberazione e a
riconoscere la Cina comunista, sarei stato nominato governatore
generale del Tibet. Come tale avrei guidato e sostenuto la grande
opera di ricostruzione, in cui la nostra religione sarebbe stata
sostituita dall’ideologia comunista. Se il Dalai Lama si fosse
opposto, avrei trovato modi e mezzi per levarlo di mezzo. Mi fecero
intendere che anche il fratricidio è giustificato, quando si tratta di
realizzare le idee comuniste. Portarono esempi, che dimostravano come
simili fatti fossero stati premiati con le più alte cariche”.6
Dal 1950 ad oggi più di un milione di tibetani sono morti a causa
dell’occupazione cinese, circa seimila monasteri sono stati distrutti
e decine di migliaia di persone deportate, tra cui molti monaci. Il
territorio è oggetto di un ben preciso programma di deculturazione ed
è indiscriminatamente usato per lo stoccaggio di rifiuti nocivi,
tossici e radioattivi. Sostanzialmente è diventato la “pattumiera
della Cina”.
Gli stati europei stanno a guardare, abbagliati dal mito cinese che
irradia la luce del facile guadagno, con l’avvallo di industriali e
imprenditori europei nella non considerazione degli operai-schiavi
cinesi, decisamente meno impegnativi degli odierni operai-disoccupati
europei, nuovi poveri mondiali.
Nonostante questo Dalai Lama non abbia mai proferito una parola contro
l’aggressione cinese. In un suo recente libro, L’arte di essere
pazienti, riporta le parole di Acharya Shantideva, illuminato buddista
dell’VIII sec.: (64) “Anche se altri diffamassero o persino
distruggessero immagini sacre, reliquiari e il sacro dharma, è erroneo
che io mi arrabbi perché i Buddha non potranno mai essere
oltraggiati”.7
Commenta poi così lo scritto: “Si potrebbe cercare di giustificare lo
sviluppo dell’odio nei confronti di chi oltraggia tali oggetti con
l’amore per il dharma. Shantideva però afferma che non è questa la
risposta giusta, giacché in realtà si reagisce in quanto si è incapaci
di sopportare il gesto. Ma gli oggetti sacri non possono essere
danneggiati”.8
Parlando recentemente con “vecchi” comunisti italiani sono rimasto
lievemente perplesso nell’udire che il Dalai Lama è da questi
considerato un oppressore del suo popolo, perché ha cercato di
mantenere in pieno XX secolo i tibetani in uno stato medievale. Mi ha
sconcertato l’acriticità e la scorrettezza delle loro argomentazioni e
laconicamente potrei commentare che l’indottrinamento di stampo
comunista in Cina permane e i vecchi comunisti italiani guardano a
tutto ciò con occhi sognanti. Ad ogni buon conto se delle radici
europee c’erano, adesso, anche grazie ai “nuovi europei”, possiamo
stare quasi certi che siano scomparse. Ma la speranza, come recita un
saggio nostrano, è l’ultima a morire e personalmente credo che
qualcuno in Europa rimarrà desto a studiare, a capire e a tramandare.
di Gianluca Padovan - 18/11/2010
Fonte: Rinascita
In questi ultimi decenni vari personaggi hanno visto il Tibet come uno
degli ultimi territori del Pianeta dove si siano conservate le antiche
tradizioni dei cosiddetti “indoeuropei”.
Difatti non si esclude l’ipotesi che le ondate migratorie dall’Europa,
avvenute tra il terzo e il primo millennio prima dell’anno zero,
abbiano interessato anche questi altopiani, portandovi genti e
tradizioni europee. Fino a ieri potevamo osservare che a una quota
media di 4000 metri si è sviluppata una cultura che si è mantenuta
sostanzialmente indipendente nel corso dei secoli: essa avrebbe avuto
tanto da insegnare (o da ricordare) a noi europei rimasti si nelle
nostre terre, ma in gran parte privati del nostro retroterra
culturale. Gli studi sulla preistoria tibetana sono quasi totalmente
mancanti, seppure siano stai riconosciuti siti inquadrabili al
paleolitico superiore e al neolitico.
La cultura megalitica è diffusa, con menhir isolati e allineamenti; ad
esempio: “a Do-ring, esistono 18 file di monoliti”.1 La lingua
tibetana presenta numerosi dialetti ed è compresa, secondo alcuni,
nella famiglia sino-tibetana. Ma meriterebbe maggiore attenzione e uno
studio comparato più approfondito soprattutto dei così detti dialetti.
Riguardo le loro origini i tibetani ricordano vari miti e uno dei più
antichi parla dell’esistenza di un uovo, matrice d’ogni creazione:
“Quest’uovo primordiale concentrava in sé tutti gli elementi -aria,
terra, fuoco, acqua e spazio- e fece nascere altre diciotto uova: da
una di queste scaturì un essere informe, ma capace di pensare, che
provò il bisogno di vedere, toccare, ascoltare, sentire, gustare e
spostarsi e allora creò a sua volta il corpo umano”.2
L’ordine costituito viene da Nyatri Tsen-po, un re guerriero del cielo
che indossa un elmo metallico, i cui simboli del potere sono
l’armatura che s’infila da sola e gli oggetti magici che agiscono da
soli: la lancia, la spada e lo scudo. Questa sorta di semidio è
comunque mortale: “Al momento della morte terrena il suo corpo si
trasformò in un arcobaleno e gli permise di risalire nella sua prima
patria: lo spazio infinito dove giace in una tomba eterea”.3
Parlando del profilo storico del Tibet, Padma Sambhava traccia un
interessante disegno: “I tibetani hanno sempre chiamato il proprio
paese Bö, in qualche occasione aggiungendo Khawajen, Terra delle Nevi.
La storia documentata risale a circa 2300 anni fa, al tempo
dell’Impero Macedone in Occidente, dell’Impero Maurya in India, e del
tardo Impero Chou in Cina. Nei suoi primi otto secoli, il Tibet fu
governato da una dinastia militare. Aveva un sistema religioso
animista, retto da un clero di sciamani esperti nella divinazione,
nelle arti magiche e nei sacrifici, mentre il suo sistema di governo
s’incentrava su una famiglia reale ritenuta di discendenza divina. I
primi sette re discesero sulla terra a governare da una scala di corda
sospesa nel cielo, sulla quale sarebbero poi risaliti non appena fosse
giunta la loro ora. L’ottavo re, in seguito ad un conflitto di corte,
recise la corda che lo legava al cielo e, da allora in poi, i sovrani
come i faraoni egiziani, furono sepolti in ampi tumuli funerari
insieme ai loro beni e al loro seguito».4
Ricordando il proselitismo dei missionari cattolici, i quali dalle
terre dell’India si spingono in Tibet, Giuseppe Tucci riporta un loro
raffronto tra mussulmani, induisti e lamaisti, che così si delinea
nella considerazione di questi ultimi: “La severa organizzazione dei
monasteri, l’abilità dialettica dei maestri, le sottigliezze teologali
discusse con arguto vigore di logica nelle radunanze di monaci e
l’austerità di molti riti ben disposero la loro anima al Buddismo
Tibetano”.5
Parlando del buddhismo non si può dimenticare che il quattordicesimo
Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale e politica del Tibet,
nonché Nobel per la Pace nel 1989, vive esule in India dal 1959. Dalai
Lama è il titolo dato al capo della religione buddista-lamaista
residente a Lhasa (Tibet) nel Palazzo del Potala. Nel 1950 le truppe
cinesi del governo comunista maoista attaccano il Tibet e con il
trattato del 23 maggio 1951 lo stato è integrato nella Repubblica
Popolare Cinese. Sono lunghe e complesse le vicende politiche,
religiose e militari che vedono coinvolto il territorio tibetano da
circa duemila anni; basterà qui ricordare che nel 1720 la Cina
interviene militarmente imponendo due propri commissari accanto al
Dalai-Lama dell’epoca. Così racconta Thubten Dschigme Norbu, fratello
maggiore del Dalai Lama, nonché abate del monastero buddista di Kumbum
situato nei pressi di Sining in Cina: “Ancora una volta dovetti
recarmi a Sining dalla commissione per il Tibet. Mi dichiararono che
dovevo condurre con loro due coniugi e un radiotelegrafista cinesi;
quest’ultimo doveva restare sempre in comunicazione con Sining, per
informarli costantemente di quanto accadeva alla nostra carovana.
Acconsentii a malincuore. Nel loro discorso i comunisti deposero
completamente la maschera. Senza preamboli mi sottoposero delle
proposte che mi atterrirono e mi irritarono. Quel che dovetti udire
era talmente mostruoso, che solo a fatica potevo dominarmi. Se fossi
riuscito a convincere il governo di Lhasa ad accogliere le truppe
della Repubblica Popolare Cinese come esercito di liberazione e a
riconoscere la Cina comunista, sarei stato nominato governatore
generale del Tibet. Come tale avrei guidato e sostenuto la grande
opera di ricostruzione, in cui la nostra religione sarebbe stata
sostituita dall’ideologia comunista. Se il Dalai Lama si fosse
opposto, avrei trovato modi e mezzi per levarlo di mezzo. Mi fecero
intendere che anche il fratricidio è giustificato, quando si tratta di
realizzare le idee comuniste. Portarono esempi, che dimostravano come
simili fatti fossero stati premiati con le più alte cariche”.6
Dal 1950 ad oggi più di un milione di tibetani sono morti a causa
dell’occupazione cinese, circa seimila monasteri sono stati distrutti
e decine di migliaia di persone deportate, tra cui molti monaci. Il
territorio è oggetto di un ben preciso programma di deculturazione ed
è indiscriminatamente usato per lo stoccaggio di rifiuti nocivi,
tossici e radioattivi. Sostanzialmente è diventato la “pattumiera
della Cina”.
Gli stati europei stanno a guardare, abbagliati dal mito cinese che
irradia la luce del facile guadagno, con l’avvallo di industriali e
imprenditori europei nella non considerazione degli operai-schiavi
cinesi, decisamente meno impegnativi degli odierni operai-disoccupati
europei, nuovi poveri mondiali.
Nonostante questo Dalai Lama non abbia mai proferito una parola contro
l’aggressione cinese. In un suo recente libro, L’arte di essere
pazienti, riporta le parole di Acharya Shantideva, illuminato buddista
dell’VIII sec.: (64) “Anche se altri diffamassero o persino
distruggessero immagini sacre, reliquiari e il sacro dharma, è erroneo
che io mi arrabbi perché i Buddha non potranno mai essere
oltraggiati”.7
Commenta poi così lo scritto: “Si potrebbe cercare di giustificare lo
sviluppo dell’odio nei confronti di chi oltraggia tali oggetti con
l’amore per il dharma. Shantideva però afferma che non è questa la
risposta giusta, giacché in realtà si reagisce in quanto si è incapaci
di sopportare il gesto. Ma gli oggetti sacri non possono essere
danneggiati”.8
Parlando recentemente con “vecchi” comunisti italiani sono rimasto
lievemente perplesso nell’udire che il Dalai Lama è da questi
considerato un oppressore del suo popolo, perché ha cercato di
mantenere in pieno XX secolo i tibetani in uno stato medievale. Mi ha
sconcertato l’acriticità e la scorrettezza delle loro argomentazioni e
laconicamente potrei commentare che l’indottrinamento di stampo
comunista in Cina permane e i vecchi comunisti italiani guardano a
tutto ciò con occhi sognanti. Ad ogni buon conto se delle radici
europee c’erano, adesso, anche grazie ai “nuovi europei”, possiamo
stare quasi certi che siano scomparse. Ma la speranza, come recita un
saggio nostrano, è l’ultima a morire e personalmente credo che
qualcuno in Europa rimarrà desto a studiare, a capire e a tramandare.
sabato 20 novembre 2010
L'importanza del mito, per Eliade.
Il mito, per Eliade, dà valore e significato al mondo e alla vita
di Francesco Lamendola - 16/11/2010
Fonte: Arianna Editrice
L’uomo non può vivere senza miti; meglio: non può vivere senza un
sistema di pensiero mitico, che integri in se stesso l’intero fenomeno
dell’esistenza.
Poiché l’universo mitico è proprio delle culture arcaiche e di quelle
tradizionali, comunque del mondo pre-moderno, esiste un atteggiamento
di sufficienza e di distacco nei suoi confronti, quasi che si
trattasse della espressione di un pensiero bambino, giustificato in un
conteso “primitivo”, ma assolutamente incongruo nella razionale
società odierna.
Questo grossolano pregiudizio scientista fa sì che la cultura
occidentale moderna stenti a trovare gli strumenti operativi e le
stesse categorie concettuali atti a comprendere il fenomeno della
mitologia dall’interno, ossia cogliendone le vitali articolazioni con
l’orizzonte spirituale dei popoli che l’hanno elaborata, per dare
fondamento alla loro esistenza e per stabilire una relazione di
corrispondenza fra se stessi e la realtà circostante.
Il mito non è soltanto uno strumento per razionalizzare i fenomeni
naturali e per rassicurare le paure ancestrali dell’uomo, come
vorrebbe la Vulgata scientista, ma qualcosa di molto più complesso e
di molto più elevato: è una finestra sulla dimensione trascendente
spalancata nell’immanente, sull’atemporale nel temporale,
sull’assoluto nel relativo.
Grazie al mito, la realtà assume un significato e si presenta all’uomo
sotto la categoria dei valori: a cominciare dalla sua stessa
esistenza, collegata al passato (antenati) e al futuro (discendenti),
nonché a tutti gli altri viventi, vegetali ed animali, al cielo, alla
terra, alle stagioni, al giorno e alla notte; e pervasa da poderose
correnti di presenze sovrumane, ora benevole ora maligne, che l’uomo
stesso può, a determinate condizioni, comprendere e, talvolta,
padroneggiare.
Se l’animale cade sotto la freccia del cacciatore, ciò non avviene per
esclusivo merito dell’abilità di quest’ultimo; se la spiga di grano
germoglia e giunge a maturazione, ciò non è solamente effetto del
lavoro dell’agricoltore. Esiste un patto fra l’uomo e le forze della
natura, sottoscritto dagli antenati e rinnovato continuamente mediante
i riti sciamanici e le prescrizioni totemiche, grazie al quale la
Terra offre all’uomo ciò di cui ha bisogno, purché ne usi con saggezza
e con moderazione e purché si riconosca debitore di tutto ciò che
riceve.
Il mito è la struttura di pensiero che rende ragione di tutto ciò e,
di conseguenza, che offre all’uomo la prospettiva di un significato
insito nelle cose, in tutte le cose, ivi compreso il suo stesso
esistere; in questo senso, si può anche dire che il pensiero mitico è
una forma embrionale di pensiero filosofico, o, per dir meglio, una
forma di pensiero parallela al pensiero filosofico. Infatti la
mitologia non è una sorta di filosofia bambina, ma una forma di
pensiero che, come la filosofia, tende a spiegare l’origine delle cose
e della vita; non limitandosi - però - alla dimensione del pensiero
logico, né ad una conoscenza di tipo oggettivo ed esterno alle cose,
ma calandosi, per così dire, nelle cose stesse, onde rivelarne il
volto nascosto ed i significati profondi, che parlano all’uomo per
mezzo di simboli.
Ciò non significa in alcun modo che il mito sia una forma di
conoscenza inferiore alla filosofia; tanto è vero che un filosofo
della statura di Platone si è servito del mito proprio per tentare di
esplorare alcune delle verità più profonde e difficili. (Ma su tutto
questo, vedi anche il nostro precedente articolo: «Il pensiero mitico
è diverso, non certo inferiore a quello scientifico», particolarmente
dedicato alla riflessione dell’epistemologo tedesco Kurt Hübner,
apparso sul sito di Arianna Editrice in data 15/01/2008).
Il grande storico delle religioni Mircea Eliade ha dedicato gran parte
dei suoi studi e delle sue riflessioni proprio ad illuminare il
significato del mito nel contesto delle culture arcaiche, con
particolare riguardo allo sciamanesimo; e, su tale argomento, ha
scritto alcune delle pagine più significative che l’intera cultura
europea abbia prodotto.
Osserva, dunque, Eliade in «Mito e realtà» (titolo originale: «Myth
and Reality»; trasduzione italiana di Giovanni Cantoni, Roma, Borla
Editore, 1974, pp. 144-46):
«In un mondo simile [ossia quello del mito], l’uomo non si sente
rinchiuso nel suo modo d’esistenza; anch’egli è “aperto”, comunica con
il mondo, perché utilizza lo stesso linguaggio: il simbolo. Se il
mondo gli parla attraverso i suoi astri, le sue piante e i suoi
animali, i suoi fiumi e i suoi monti, le sue stagioni e le sue notti,
l’uomo gli risponde con i suoi sogni e la sua vita immaginativa, con
i suoi antenati oppure con i suoi “totem” - ad un tempo natura,
sovranatura ed esseri umani -, con la sua capacità di morire e
risuscitare ritualmente nelle sue cerimonie di iniziazione (né più né
meno della luna e della vegetazione), con il suo potere di incarnare
uno spirito mettendosi una maschera, ecc. Se il mondo è trasparente
per l’uomo arcaico, anche questo si sente “guardato” e compreso dal
mondo. La selvaggina lo guarda e lo comprende (spesso l’animale si
lascia catturare perché sa che l’uomo ha fame), come pure la roccia, o
l’albero, o il fiume. Ciascuno ha la sua storia da raccontargli, un
consiglio da dargli.
Pur sapendosi essere umano e accettandosi come tale, l’uomo delle
società arcaiche sa anche di essere qualche cosa di più. Per esempio,
sa che il suo antenato è stato un animale, oppure che può morire e
tornare alla vita (iniziazione, trance sciamanica) , che può
influenzare i raccolti con le sue orge (che può comportarsi con la sua
sposa come il cielo con la terra o che può avere la parte del vomere e
sua moglie quella del solco). Nelle culture più complesse, l’uomo sa
che il suo respiro è vento, che le sue ossa sono simili a montagne,
che un fuoco brucia nel suo stomaco, che il suo ombelico può diventare
“centro del mondo”, ecc.
Non bisogna immaginare che questa “apertura” verso il mondo si traduca
in una concezione bucolica dell’esistenza I miti dei “primitivi” e i
rituali che ne dipendono non ci rivelano un’Arcadia arcaica. Come si è
visto, i paleocoltivatori, assumendosi la responsabilità di far
prosperare il mondo vegetale, hanno accettato ugualmente la tortura
delle vittime a vantaggio dei raccolti, l’orgia sessuale, il
cannibalismo, la caccia di teste.
Si tratta di una concezione tragica dell’esistenza, risultato della
valorizzazione religiosa della tortura e della morte violenta. Un mito
come quello di Hainuwele [tramandato nelle Isole Molucche, nella parte
più orientale dell’odierna Indonesia], e tutto il complesso
socio-religioso che esso articola e giustifica, forza l’uomo ad
accettare la sua condizione di essere mortale e sessuato, condannato a
uccidere e a lavorare per potersi nutrire. Il mondo vegetale e
animale gli “parla” della sua origine, cioè, in ultima analisi, di
Hainuwele; il paleo coltivatore comprende questo linguaggio e scopre
un significato per tutto ciò che lo circonda e per tutto ciò che fa.
Ma questo lo obbliga ad accettare la crudeltà e l’uccisione come parte
integrante del suo modo d’essere. Certamente, la crudeltà, la tortura,
l’uccisione, non sono comportamenti specifici ed esclusivi dei
“primitivi”. Li si incontra lungo tutta la storia, talvolta con un
parossismo sconosciuto alle società arcaiche. La differenza consiste
soprattutto nel fatto che, per i “primitivi”, questa condotta violenta
ha un valore religioso ed è ricalcata su modelli sovrumani. Questa
concezione si è protratta a lungo nella storia. Gli stermini di massa
di un Gengis Khan, per esempio, trovano ancora una giustificazione
religiosa.
Il mito non è, in se stesso, una garanzia di “bontà” e di moralità. La
sua funzione consiste nel rivelare dei modelli e nel fornire così un
significato al mondo e al’esistenza umana. Anche il suo ruolo nella
costituzione dell’uomo è immenso. In virtù del mito, lo abbiamo detto,
le idee di REALTÀ, di VALORE, di TRASCENDENZA, vengono lentamente alla
luce. In virtù del mito, il mondo si lascia cogliere come cosmo
perfettamente articolato, intelligibile e significativo. Raccontando
come le cose sono state fatte, il mito svela per chi e per che cosa
sono state fatte e in quale circostanza. Tutte queste “rivelazioni”
impegnano direttamente l’uomo, perché costituiscono una “storia
sacra”.»
Come si vede, la visione di Eliade è lontanissima da ogni
edulcorazione in chiave roussoiana delle società arcaiche; nessun mito
del buon selvaggio, nessuna “bontà” intrinseca del mondo mitico: e,
del resto, basta un minimo di conoscenza della storia e della
letteratura antiche per rendersene immediatamente conto.
Non è forse per espletare un rito di natura espiatoria e propiziatoria
che Achille uccide i dodici giovinetti troiani sulla pira di Patroclo;
episodio che perfino il raffinato Virgilio, esponente di una cultura
molto più “moderna”, riprende nella sua «Eneide»? Ebbene, si tratta di
un’azione che acquista significato alla luce della credenza in un
legame tra l’aldiqua e l’Aldilà, che trae origine e significato alla
luce del mito: nel caso specifico, la credenza che il sangue di alcune
vittime innocenti possa placare i Mani di un defunto strappato
anzitempo alla vita.
E non sono forse piene le tombe etrusche, a cominciare dalla
celeberrima Tomba François di Vulci, di simili raffigurazioni,
addirittura impressionanti nella loro carica di tragicità e di cruento
realismo, con il demone infernale Charun (latrino Charon),
dall’aspetto spaventoso, che accompagna le anime nel loro viaggio al
Regno dei morti?
Eliade ci ricorda che la pratica del sacrificio umano è
indissolubilmente legata alle culture dei paleocotivatori; e
l’archeologia ce ne dà conferma, da un capo all’altro del mondo,
dall’Europa alle Americhe: ad esempio con le cerimonie dei Maya per
scongiurare la siccità mediante il sacrificio di una fanciulla
vergine, che veniva precipitata in un pozzo, o con quella degli Skidi
Pawnee dedicata alla Stella del mattino, nella quale, sempre per
propiziarsi le forze magiche della natura, essi uccidevano una
vergine, all’alba, trafiggendola con piccole frecce infuocate.
Sbagliano, dunque, sia coloro i quali ostentano disprezzo verso la
concezione mitica del mondo, sia coloro i quali la idealizzano in
maniera ingenuamente acritica, proiettando su di essa il loro
vagheggiamento di un Eden incontaminato e perfetto, che nasce dalla
frustrazione di essere membri di una società esasperatamente
individualista e materialista.
La funzione del mito era ed è essenzialmente quella di rivelare la
dimensione nascosta, originaria, delle cose, mostrando la stretta
interconnessione che tutte le congiunge e che unisce ad esse anche
l’uomo.
Al tempo stesso, il mito tramanda il ricordo di un tempo in cui un
ordine felice regnava nel mondo e l’uomo stesso godeva di uno statuto
privilegiato; cose entrambe che sono andate perdute a causa di un
disordine, di una perturbazione, di una caduta che ha incrinato
l’assetto originario, ma che appunto il mito è in grado di recuperare,
almeno parzialmente, consentendo all’uomo di ricollegarsi a quella
fortunata condizione originaria.
In questo senso, è corretto affermare che il mito punta a reintegrare
l’uomo nella sua pienezza ontologica e che tale reintegrazione assume
le forme e la prospettiva di una elevazione, ossia di un superamento
della sua condizione presente, limitata e precaria, per sviluppare e
potenziare in lui le facoltà superiori, ivi compresa quella di parlare
alle cose, alle piante, agli animali e, pertanto, di rinsaldare i
vincoli magici che tengono in equilibrio le forze cosmiche.
Il mito si collega anche da questo lato allo sciamanesimo e dischiude
all’uomo la possibilità di inserirsi non più da spettatore inerme o da
vittima rassegnata, ma da autentico protagonista, nel gioco di tali
forze cosmiche, dalle quale può attingere poteri e possibilità che,
nello stato ordinario di esistenza, sono per lui inimmaginabili.
Infine il mito delinea una concezione sacrale del reale; una
concezione, cioè, che, rivestendo di mistero e di potenza gli elementi
del cosmo, si pone agli antipodi della nostra cultura secolarizzata e
della sua pretesa di capire tutto, di spiegare tutto, di misurare e
quantificare ogni cosa, alla luce del Logos strumentale e calcolante.
Il mito, infatti, non è, semplicemente, conoscenza del reale, ma
rivelazione: e, come tale, presuppone un “corpus” di dottrine
esoteriche che solo nei tempi e nei modi stabiliti possono venir
trasmessi di generazione in generazione, essendo di origine superiore
all’umana; ciò che va propriamente sotto il nome di Tradizione.
Riconoscendo una Tradizione sovrumana, dalla quale derivano tanto
l’ordine cosmico, quando le dottrine iniziatiche che permettono
all’uomo di scorgerlo, di rispettarlo e di porsi in sintonia con esso,
il mito si pone, in effetti, come una forma di approccio al reale
radicalmente diversa, e antagonista, rispetto a quella cui noi moderni
siamo ormai talmente abituati, da considerarla l’unica vera e
realmente efficace.
Una cosa è certa: finché non scenderemo dal piedistallo della nostra
presunzione scientista, non potremo capire nulla del mito e
continueremo o a denigrarlo, o a idealizzarlo, senza mai penetrarne
l’intima essenza.
Che non si lascia catturare in schemi di tipo esclusivamente logico e
scientifico, quali quelli cui siamo abituati da quattro secoli di
razionalismo materialista e meccanicista; ma che richiede un salto,
una discontinuità nel nostro atteggiamento verso il reale, che
coinvolga non solo il Logos, ma tutte le nostre facoltà, a cominciare
dai sensi interni e dalle potenzialità sopite dell’anima.
martedì 16 novembre 2010
La finanza sta divorando tutto
La finanza sta divorando ciò che rimane del nostro pianeta
di Massimo Fini - 15/11/2010
Fonte: Massimo Fini
La Cina sta superando gli Stati Uniti come prima potenza economica del
mondo. Ad essere cinesi ci sarebbe da star contenti. Invece proprio i
cinesi saranno i più fregati. Dopo aver pagato gli enormi prezzi del
"take off" industriale, e offerto a questo Moloch i consueti
sacrifici
umani (nella Cina attuale il suicidio è la prima causa di morte fra i
giovani e la terza fra gli adulti) si troveranno a primeggiare proprio
quando quel modello di sviluppo economico, liberista e globale, cui
hanno aderito di recente starà andando in frantumi. Saranno arrivati
troppo tardi.
Il ministro delle Finanze italiano, Giulio Tremonti, in un’intervista
al Corriere dello scorso inverno ha fatto trapelare fra le righe che
entro tre anni dobbiamo aspettarci un altro colpo tipo
"subprime". Lo
ha detto in modo velato sottolineando che mentre i valori finanziari
sono tornati ad essere quelli di tre anni fa, prima del crack, oggi
nel mondo ogni secondo si emettono miliardi di dollari o di euro di
debito pubblico. In altre parole: stiamo tamponando la crisi
immettendo nel sistema altro denaro inesistente, più tossico dei
titoli "tossici". Stiamo drogrando il cavallo già dopato
perché faccia
ancora qualche passo in avanti. Ma prima o poi il collasso definitivo
per overdose arriverà. Potrà non essere quello ipotizzato da Tremonti
fra tre anni ma quello successivo o quello successivo ancora, ma è
certo che arriverà. Ci sarà il crollo del mondo del denaro,
dell’"economia di carta" come la chiamò in un famoso e
preveggente
saggio del 1964 l’americano David T. Bazelon che, guarda caso, non era
un economista ma un intellettuale. E quando la gente delle città si
accorgerà che non può mangiarsi il cemento e bere il petrolio si
riverserà, disperata, nella campagna, quel poco che ne sarà rimasta,
venendo respinta a colpi di khalashnikov da coloro che, prudentemente,
non l’avranno abbandonata. Disegnando scenari apocalittici del resto
un’ottantina di anni prima di Bazelon il capo indiano Tatanga Jotanka,
alias "Toro seduto", ci aveva avvertito: "Quando avranno
inquinato
l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte,
pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter
mangiare il denaro accumulato nelle loro banche".
Il denaro, nella sua estrema essenza, è "futuro",
rappresentazione del
futuro, scommessa sul futuro, rilancio inesausto sul futuro,
simulazione del futuro ad uso del presente. Ma noi abbiamo messo in
circolazione una così colossale quantità di denaro da ipotecare questo
futuro fino a regioni temporali così sideralmente lontane da renderlo,
di fatto, inesistente. Prima o poi questo futuro, gravido dell’immenso
debito di cui l’abbiamo caricato, dilatato a dimensioni mostruose e
oniriche dalla nostra follia e dalla nostra fantasia, ci ricadrà
addosso come drammatico presente. Tutte le correnti di pensiero, sia
pur minoritarie, che ci hanno ragionato sopra (americane tra l’altro:
il bioregionalismo e il neocomunitarismo) parlano, per evitare
l’apocalisse prossima ventura, di un ritorno "graduale, limitato e
ragionato" a forme di autoproduzione e di autoconsumo che passano
necessariamente per un recupero della terra e un ridimensionamento
drastico dell’apparato industriale, finanziario e virtuale. I cinesi
hanno abbandonato la terra in favore dell’industrializzazione e del
libero mercato nel momento sbagliato. Saranno primi quando non avrà
più senso esserlo.
lunedì 15 novembre 2010
sabato 13 novembre 2010
La Papessa Giovanna
Intervista sulla Papessa Giovanna, proprio sui luoghi della sua tragica fine a Roma.
http://www.youtube.com/watch?v=TmW7YUgBSwY&feature=mfu_in_order&list=UL
http://www.youtube.com/watch?v=TmW7YUgBSwY&feature=mfu_in_order&list=UL
Povera Italia, povera Padania
Questa è la sintei dei gravi difetti di questa classe politica. C’è l’arroganza del capo che, in barba alla legge, fuma tranquillamente il suo sigaro al chiuso, in un locale pubblico e durante un incontro istituzionale. C’è il braccio destro del capo che, invece di ricordare a quest’ultimo che sarebbe bene spegnere il sigaro, gli regge il portacenere. E c’è il figlio del capo che non ha avuto bisogno di meriti particolari, a parte essere il figlio del capo, per raggiungere e frequentare assiduamente le stanze del potere.
Impunità, arroganza, servilismo, nepotismo. Solo miseria e nessuna nobiltà. Povera Italia, povera Padania che sta affondando.
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