sabato 23 maggio 2009

Alla ricerca dell'anima


Orfeo e l'orfismo antico
Mentre fuggiva da te a precipizio lungo il fiume,
non vide, la fanciulla già segnata da morte,
nell’alta erba, il serpente che abita le rive.
E il coro delle compagne Driadi riempì di lamenti
I monti più elevati; e piansero le vette del Ròdope
E gli alti Pangei e la terra guerriera di Reso, e
piansero i Geti e l’Ebro e l’attica Oritia.
E consolando con la cetra l’amore perduto,
te dolce sposa, te sul lido deserto,
te al nascere, te al morire del giorno, egli cantava.
Ed entrò pure nelle gole del Tanaro, profonda
Porta di Dite, e nella selva cupa di nera paura,
e s’accostò ai Mani, e al loro re tremendo,
e a chi non sa addolcirsi alle preghiere umane.
E subito dal più profondo Erebo, commosse al canto,
ombre venivano leggere e parvenze di morti:
a migliaia, quasi stormi di uccelli che si posano
tra le foglie, quando la sera o l’aspra pioggia d’inverno
li caccia giù dai monti; donne e uomini, e corpi
di magnanimi eroi morti, e fanciulli e fanciulle,
e giovani arsi sul rogo davanti ai genitori.
E ora il fango nero e la squallida canna del Cocito,
e la palude lurida con la sua acqua pigra
li stringe d’intorno, e lo Stige con nove giri li rinserra.
Stupirono le case di Lete e i luoghi più remoti
del Tartaro, e le Eumenidi dai capelli azzurri di serpi;
e Cerbero restò muto con le tre bocche aperte,
e la ruota d’Issione si fermò insieme al vento.
E già Orfeo tornava, vinto ogni pericolo,
ed Euridice veniva verso la luce del cielo
seguendolo alle spalle (così impose Proserpina),
quando una follia improvvisa lo travolse,
da perdonare, certo, se i Mani sapessero perdonare.
Orfeo già presso la luce, vinto d’amore,
la sua Euridice si voltò a guardare.
Così fu rotta la legge del duro tiranno,
e tre volte un fragore s’udì per le paludi d’Averno.
“Quale follia” ella disse, “rovinò me infelice,
e te, Orfeo? Il fato avverso mi richiama indietro,
e il sonno della morte mi chiude gli occhi confusi.
E ora, addio: sono trascinata dentro profonda notte,
e non più tua, tendo a te le mani inerti”.
Disse; e d’improvviso svanì come fumo nell’aria
leggera, e non vide più lui che molte cose
voleva dirle e che invano abbracciava le ombre;
ma chi traghetta le acque dell’Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude.1

Mentre il vate di Tracia dietro di sé trae con tale carme le selve, le fiere impetuose e le rupi a lui soggette, ecco che le donne dei Ciconi, l’esagitato petto coperto da pelli ferine, dalla sommità di un’altura scorgono Orfeo, che al tocco delle corde accompagnava il canto. Una di esse, dopo aver squassato le chiome nell’aria lieve: “Ecco!” gridò; “ecco, quello è lo spregiatore di noi tutte!” e scagliò il tirso contro la canora bocca del vate caro ad Apollo: ma esso, avvolto in punta da foglie, causò un piccolo segno, senza ferita. Arma della seconda donna fu una pietra: dopo che fu scagliata, proprio nell’aria fu vinta dall’armonia della voce e della lira; e cadde ai piedi di lui, come fosse creatura supplice per eccessi così forsennati. Ma ormai si accresce la folle ostilità; sparisce ogni misura e regna la pazza Erini: tutte le armi sarebbero state vinte dal canto; ma l’enorme clamore, il suono del flauto Berecintio dall’incurvato corno, i timpani, battito di mani e urla in onore di Bacco, si sovrapposero all’armonia della cetra; e allora le pietre cominciarono a rosseggiare per il sangue del vate non più ascoltato. […] Te piansero mesti, Orfeo, gli alati, te piansero branchi di fiere e insensibili rocce e selve, che spesso seguirono i tuoi carmi: con dimesse frondi, con la recisa chioma, espressero lutto le piante; narrano che pure i fiumi, per le proprie lagrime si arricchirono di acque; le Naiadi e le Driadi indossarono manti velati di nero e lasciarono sparsi i capelli; e tu, o Ebro, ne accogliesti il capo e la lira; e mentre fluttuavano nel mezzo della corrente, la lira effondeva mesta non so qual flebile suono, la morente lingua sussurrava flebili parole, e flebili rispondevano le rive.2

Orfeo è il mitico cantore trace, figlio di Calliope e del re Eagro (anche se, talvolta, viene indicato come figlio di Apollo). Suoi tratti eccezionali sono la capacità di incantare, attraverso la propria musica, non solo uomini e fiere, ma anche elementi del regno vegetale e della natura inanimata. Due sono i racconti cui Orfeo è tradizionalmente legato: il viaggio degli Argonauti alla volta della Colchide, per recuperare il vello d’oro, e la discesa agli Inferi cui lo costrinse la morte della moglie Euridice. Alla spedizione guidata da Giasone, Orfeo diede un contributo fondamentale, vincendo nel canto le Sirene e impedendo così che l’equipaggio cedesse alle lusinghe della loro voce. Il secondo racconto, di cui ci parla anche Virgilio nei versi sopra riportati, è quello più conosciuto: il cantore aveva preso in moglie Euridice, figlia di Nereo e di Doride. Un giorno, ella viene morsa da una serpe, pestata accidentalmente, nel tentativo di fuggire Aristeo, che voleva violentarla. Morta Euridice, incapace di trovare consolazione, Orfeo decide di scendere agli Inferi per convincere le divinità sotterranee a restituire la sposa perduta, contro ogni legge di natura. Al suo ingresso nell’Ade, nessuna feroce creatura è capace di resistere al suo canto: né le Erinni, né il cane Cerbero, né Persefone né Ade stesso. Così, venne concesso a Euridice il ritorno alla luce, al solo patto che durante la risalita Orfeo, che avrebbe dovuto precedere la moglie, non si voltasse mai indietro a guardarla. Incapace di resistere, egli si volta proprio quando il viaggio di ritorno è quasi compiuto. Allora Euridice viene nuovamente inghiottita dalle tenebre e a Orfeo è vietato di rivedere l’amata, per sempre. Per lunghi mesi, il cantore non fa altro che piangere e cantare della moglie perduta. Finchè, le donne di Tracia non ne ebbero abbastanza: irritate dall’ostinazione del lutto e dal rifiuto che Orfeo opponeva ad ogni loro tentativo di farlo cedere all’amore, esse lo uccisero e ne smembrarono il corpo. I resti vennero sparsi per i campi e la testa gettata nel fiume Ebro. Questo è ciò che racconta il mito. Esso ci presenta un Orfeo che è uomo malato d’amore, colui che perde la donna amata, strappatagli dal destino prima del tempo, senza ragioni comprensibili; l’amore e la fedeltà ad Euridice sono ragione essenziale della sua vita. Orfeo, dunque, è un eroe profondamente umano, non un uomo straordinario, ciò che lo rende tale, semmai, è la forza del suo canto. Un canto che, almeno per un volta, vince la morte. Poiché non vi riesce una seconda volta, il poeta è sconfitto, ed inesorabili restano il fato e la morte. E tuttavia, il senso della tragedia non sta nell’impotenza del canto di fronte alla crudeltà del destino: è la follia, la dementia causata dall’amore, che uccide Orfeo. Al mito così come viene narrato, si accosta la figura di Orfeo come portatore e rivelatore di misteri propria della dottrina orfica. Fino al XVIII secolo, la conoscenza dell’Orfeo orfico si fonda sugli 87 Inni, su un poema epico dal titolo Argonautiche orfiche, su di un poema detto Lithikà (letteralmente, versi sulle pietre), e infine su un corpus di almeno 360 frammenti, fra brani in versi, brani in prosa e testimonianze dottrinarie. È ormai universalmente riconosciuto che le Argonautiche orfiche, i Lithikà e gli 87 Inni non hanno nulla a che fare con Orfeo, essendo certamente posteriori al II secolo d.C. Grazie al lavoro di ricerca del filosofo Giorgio Colli, sappiamo che l’Orfismo può datarsi tra il VI e il V secolo a.C. e queste attraverso le testimonianze da lui raccolto di Ibico, Simonide, Pindaro, Eschilo, Euripide, Aristofane, Platone, Isocrate e Aristotele, Timoteo, Demostene, Clemente Alessandrino, Apollonio Rodio, Callimaco, Diodoro Siculo, Plutarco, Proclo, nonché alle laminette orfiche.

Uccelli innumerevoli
si libravano a volo sopra il suo capo
e diritti
dall’acqua turchina balzavano
in alto i pesci per il canto bello.3

La tua lingua è contraria a quella di Orfeo:
con la sua voce infatti egli condusse ogni cosa alla gioia.4

Attraverso la musica
io mi slanciai in alto sul mondo, e
sperimentando la più parte dei discorsi
non trovai nulla più potente di Necessità,
né un qualche incantamento nelle tavolette
lignee di Tracia, che la voce
di Orfeo riempì di scritti,
né tutti i rimedi che Febo diede agli Asclepiadi,
tagliando per risanare i mortali dal molto soffrire.5

Orfeo difatti ci insegnò le iniziazioni e ad astenerci dall’omicidio,
Museo a sua volta gli oracoli e a risanare del tutto le malattie.6

Al contrario cacciarono dall’Ade Orfeo, figlio di Eagro,
inappagato, mostrandogli un fantasma della donna per la quale era venuto,
senza tuttavia dare lei, poiché a essi sembrava, in quanto suonatore di cetra,
un uomo debole, privo del coraggio di morire per amore come Alcesti, e
preoccupato invece di riuscire a entrare vivo nell’Ade. Proprio per questo
gli imposero una pena, e fecero che la sua morte avvenisse per opera di donne.7

A tale errore va incontro anche il discorso che si trova nella cosiddetta poesia orfica:
esso dice infatti che l’anima, portata dai venti, entra dall’universo negli esseri quando
respirano, e non è possibile che ciò accada alle piante, e neppure a certuni degli animali,in quanto
non tutti gli animali respirano: ma questo è sfuggito a coloro che hanno tale convinzione.8

Tuttavia esistono testimonianze ancora più remote: tra il VIII e il VI a.C. si tratta soprattutto di tradizione orale e di frammentazione di miti e di varianti poetiche; alla fine del VI secolo a.C. abbiamo, ad opera di Onomacrito, un tentativo di riordino nella tradizione, con una probabile prima redazione scritta. Ma è nel V e nel VI secolo a.C. che si può parlare di letteratura orfica. Fino ad allora si tratta semplicemente solo di poesia, e di una poesia che viene accolta nei misteri eleusini, nel rituale preparatorio della visione suprema, come uno degli elementi essenziali di quei drammi mistici, che presentavano i miti di Dioniso, di Demetra e di Core. In questo senso, alcuni storici greci – come Erodoto – parlano di “riti orfici”:

Tuttavia non si introducono nei luoghi sacri vesti di lana, né si fanno seppellire vestiti così, poiché non è concesso dalla religione. E in questo si accordano con i riti chiamati orfici e con quelli pitagorici. Neppure a chi partecipi a questi riti segreti e difatti concesso di essere sepolto con abiti di lana. E intorno a queste cose esiste un discorso che si dice sacro.9

In questo senso la parte più sacra e unitaria della poesia orfica non è stata tramandata, proprio per la sua correlazione con la sfera misterica. Orfeo racconta dei miti. Dioniso ed Eleusi sono i suoi presupposti. Orfeo racconta del dio e avvia alla conoscenza suprema. Ma Orfeo suona la lira e canta e, quindi, rappresenta anche Apollo, parla attraverso di lui. La poesia orfica diviene così legame tra Dioniso e Apollo.

Difatti la poesia di Orfeo è in primo luogo il canto di Apollo, cioè espressione, musica e parola, ma il suo contenuto è – attraverso la passione di Dioniso – il mistero di Dioniso.10

Dionisiaco e apollineo si fondono in Orfeo e nella sua poesia per divenire espressione dell’estasi misterica, attraverso la magia e l’incanto della musica e della parola, per un ritorno all’Origine, fuori dal tempo e dallo spazio.

È Mnemosine, l’augusta dea orfica, che attinge dal pozzo della visione misterica, e additando il passato riconduce attraverso la poesia alla grande iniziazione, da cui discendono le immagini degli déi, riflesso che compensa – nella memoria – di quell’esperienza, quando è trascorsa. […]Mnemosine ci insegna che l’origine di tutti i ricordi –là dove il tempo non è ancora cominciato – è quello appunto che si deve recuperare. Tale è l’insegnamento misterico, tutto il tempo che bisogna attraversare all’indietro per raggiungere il senza tempo, tutte le generazioni di dèi e uomini, tutti i miti narrati da Orfeo, non sono altro che giochi di apparenze.11

È a partire dalla seconda metà del V secolo a.C. e per tutto il VI secolo a.C. che l’Orfismo inizia ad assumere i connotati di setta religiosa, di carattere mistico. Il VI secolo, per la Grecia, è un’epoca di profondi mutamenti sociali. Esso segna la fine del medio evo greco con il passaggio dalle antiche monarchie così come le conosciamo dai poemi di Omero, al sorgere degli stati democratici di cui Atene è l’esempio più illustre. È giusto ritenere che l’orfismo, in questo quadro storico, si sia presentato come sistemazione teologica del culto di Dioniso. Orfeo infatti è originario della Tracia, come tracio è anche Dioniso; Orfeo muore di morte dionisiaca in quanto viene sbranato dalle Baccanti, così come Dioniso viene sbranato dai Titani. Il mito di Dioniso è quindi la cosmogonia orfica: egli è figlio di Zeus e di Persefone, e ha ricevuto dal padre lo scettro del mondo. I Titani, però, figli della terra, elemento oscuro e tenebroso (i quali qui si trovano – forse – a rappresentare un elemento rituale del culto di Dioniso, la spalmatura d’argilla, che si operava sulla faccia degli iniziati), aizzati dalla gelosa Hera, ne insidiano l’esistenza e mentre Dioniso (che gli orfici indicano con il nome di Zagreo) ingenuo fanciullo, si diverte nei campi, lo traggono in inganno con vari oggetti (che corrispondono agli strumenti secondari del rituale orfico) tra cui uno specchio.

Lo specchio è simbolo dell’illusione, perché quello che vediamo nello specchio non esiste nella realtà, è soltanto un riflesso. Ma lo specchio è anche simbolo della conoscenza, perché guardandomi nello specchio io mi conosco. E lo è pure in un senso più raffinato, perché tutto il conoscere è portare il mondo dentro uno specchio, ridurlo a un riflesso che io possiedo. E ora ecco la folgorazione dell’immagine orfica: Dioniso si guarda allo specchio e vede il mondo! Il tema dell’inganno e quello della conoscenza sono congiunti, ma soltanto così vengono risolti. Il dio è attratto dallo specchio, da questo giocattolo dove si mostrano immagini sconosciute e variopinte – la visione lo inchioda ignaro del pericolo – non sa di contemplare se stesso. Eppure quello che vede è il riflesso di un dio, il modo in cui un dio si esprime nell’apparenza.12

Dioniso cerca di fuggire alla presa dei Titani, cambiando forma, ma essi riescono a catturarlo proprio quando il dio si muta in toro, lo fanno a brani e lo divorano crudo. Ma Atena riesce a salvare il cuore di Dioniso e a portarlo a Zeus, che dopo averlo trangugiato genere un nuovo Dioniso. I Titani sono colpiti dalla folgore e dalla loro cenere nasce il genere umano, nel quale dunque coesistono titanico e dionisiaco, fusi sin da quando i Titani divorarono Dioniso. Gli orfici accettano la figura di questo dio, accettano il rituale di uccisione dell’animale sacro con ingestione delle sue carni crude come simbolo di deicidio gravido di conseguenze per il genere umano, ma dal quale pure scaturisce la scintilla divina che si cela nelle ceneri della nostra materia. Per l’orfico, l’anima ha dunque natura divina e il corpo rappresenta la sua tomba, in cui essa precipita a conseguenza di un colpa primordiale. E la liberazione può essere compiuta solo attraverso l’espiazione e la catarsi. L’espiazione è la trasmigrazione di corpo in corpo che l’anima attua all’interno del cerchio della generazione, che gira inesorabilmente. La catarsi è la discesa agli Inferi dopo la morte. Il tentativo di riunirsi con il divino, che è il solo scopo dell’orfico, viene messo in pratica anche seguendo un vita di purezza, di ascetismo, di cerimoniali; anche segni esteriori contraddistinguono questo tipo di vita: una veste bianca, orrore di tutto ciò che implica un contatto mortuario, come la vicinanza delle tombe, il mangiare legumi che sono offerta per i defunti, il vestir di lana, fuggire il contatto con le partorienti. Tutte prescrizioni contenute in un frammento euripideo, il più importante circa la liturgia orfica. Esso appartiene a una tragedia andata perduta, intitolata I Cretesi, che recita così:

Sono giunto lasciando i templi davvero divini,
ben coperti dalla grande trave di legno nativo,
tagliata dalla scure dei Calibi,
e dal cipresso incollato in giunture precise;
e conducendo una vita santa, da quando
divenni iniziato di Zeus dell’Ida,
e sperimentando il modo di vita di Zagreus vagante di notte
e i banchetti di carne cruda
e levando in alto le fiaccole per la Madre montana,
tra i Cureti,
purificato ebbi il nome di Bacchos.
E indossando vesti bianchissime fuggo
la nascita dei mortali, e senza accostarmi
all’urna dei morti, mi guardo dal mangiare
cibi in cui c’è stata vita.13

Nell’Ade orfico regnano Eubuleo, epiteto di Dioniso Infero, Ade e Persefone. Due sono le vie principali, a destra e a sinistra e conducono una ai fioriti prati destinati ai puri, l’altra al Tartaro punitore dei malvagi. Appena entrato, l’orfico non deve prendere la strada di sinistra, segnata da un pioppo bianco, ma deve imboccare la via di destra che conduce alla fonte di Mnemosine. A questo punto, egli deve dare una sorta di parola d’ordine, dichiarando la propria appartenenza al cielo e alla terra e domandando a Persefone un posto tra i buoni, in attesa di potersi ricongiungere con il Tutto, con Dioniso – Zagreo. Tutto questo è documentato grazie al ritrovamento delle cosiddette laminette orfiche, in Magna Grecia, a Roma e a Creta. Gli orfici seguivano indifferentemente il rito dell’inumazione o quello della cremazione, ponevano il cadavere o i resti inceneriti di esso sottoterra, in un bianco lenzuolo tra blocchi di tufo. Queste laminette, di pochi centimetri, spesso ripiegate come pezzettini di carta, venivano poste al collo o alla mano destra del defunto ed erano guida e promemoria per il viaggio ultramondano. Esse possono essere divise in gruppi, per la similitudine dei contenuti. Alcune offrono indicazioni all’anima del defunto per il viaggio attraverso l’Ade. Così si legge nella laminetta trovata a Ipponio:

Di Mnemosine è questo sepolcro. Quando ti toccherà di morire
alle case ben costrutte di Ade: c’è alla destra una fonte,
e accanto a essa un bianco cipresso diritto;
là scendendo si raffreddano le anime dei morti.
A questa fonte non andare neppure troppo vicino;
ma di fronte troverai fredda acqua che scorre
dalla palude di Mnemosine, e sopra stanno i custodi,
che ti chiederanno nel loro denso cuore
cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso.
Dì loro: Sono figlio di Giove e di Cielo stellante,
sono riarso di sete e muoio; ma date, subito,
fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine.
E davvero ti mostreranno benevolenza per volere del re di sotto terra;
e davvero ti lasceranno bere dalla palude di Mnemosine;
e infine farai molta strada, per la sacra via che percorrono
gloriosi anche gli altri iniziati e posseduti da Dioniso.

E in quella trovata a Petelia:

E troverai sinistra della casa di Ade una fonte,
e accanto a essa un bianco cipresso diritto:
a questa fonte non accostarti neppure, da presso.
E ne troverai un’altra, fredda acqua che scorre
dalla palude di Mnemosine: e davanti stanno i custodi.
Dì loro: sono figlio di Terra e di Cielo stellante,
inoltre la mia stirpe è celeste; e questo sapete anche voi.
Sono riarsa di sete e muoio: ma date, subito,
fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine.
Ed essi ti lasceranno bere dalla fonte divina,
e in seguito tu regnerai insieme agli altri eroi.
Di Mnemosine è questo sepolcro…

Altre cinque laminette trovate in due tombe diverse presso l’antica Thurii (oggi Terranova di Sibari) nel 1879 sono importantissime per i nuovi elementi che offrono a chi legge, riferibili ad altra tradizione. Tre sono state trovate in un unico tumulo, e, a parte qualche piccola variante, recitano tutte così:

Vengo dai puri pura o regina degli inferi,
o Eucle ed Eubuleo e voi altri, dei e demoni,
perché io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe felice,
e ripagai la pena di azioni per nulla giuste,
che mi soverchiasse la Moira oppure il bagliore delle folgori.
E ora giungo supplice presso Persefone casta,
perché benigna mi mandi alle sedi dei puri.

Le altre due recano scritto un vero e proprio inno:

Ma non appena l’anima abbandona la luce del sole,
a destra…racchiudendo, lei che conosce tutto assieme.
Rallegrati, tu che hai patito la passione: questo prima
non lo avevi ancora patito.
Da uomo sei nato dio: agnello cadesti nel latte.
Rallegrati, rallegrati, prendendo la strada destra
verso le praterie sacre e i boschi di Persefone.

…e Protogono e Metis. Alla Madre di tutto disse
Core, stirpe di Cibele, quanto nelle di Demetra
……o Zeus… …o Sole, o Fuoco, attraverso
tutte le città …andrai…Vittoria
ed egualmente Fortuna, venite, Fanes, Moire
che tutto ricordate…tu demone glorioso…
…ogni cosa può essere soggiogata, ogni cosa
…di contraccambio da sopportare
…non all’aria il fuoco…o madre…ti è possibile
…e uno che digiuna per sette notti o dopo il giorno…
per te digiunai sette giorni, o Zeus…Olimpio, che
tutto vede, sempre…o madre, ascolta
la mia preghiera…e insieme alla mia bella
……o Demetra, Fuoco, Zeus, e la sotterranea…
……nel cuore alla madre…
…nel cuore alla madre…

Queste laminette sono importanti per alcuni precisi motivi: la purezza con la quale l’orfico indica se stesso, la colpa iniziale, il deicidio di Zagreo, che condanna l’orfico alla prigionia del corpo, la similitudine con il capretto, che indica un’identificazione dell’orfico con Dioniso stesso e il raggiungimento della vita divina, attraverso l’immersione nel latte. Altre tre laminette, ritrovate nel 1893 presso Eleutherna in Creta, dove il culto di Dioniso aveva larga diffusione, contengono tre soli versi:

Io sono riarso di sete e muoio. – Ma bevi orsù,
dalla fonte sempre corrente, alla destra, dov’è il cipresso.
- Chi sei? E donde sei? – Sono figlio di Terra e di Cielo stellante.

È da menzionare anche un’unica laminetta che è stata ritrovata a Roma sulla via Ostiense nel 1903, risalente probabilmente al II secolo d.C., appartenente ad una matrona romana di nome Cecilia Secondina. In questo unico caso, è presente il nome dell’iniziato, trattandosi delle leggi romane che imponevano precauzioni giuridiche per riconoscere i defunti.
La laminetta dice questo:

Viene, pura fra i puri, a voi o regina degli Inferi, o Eukles, o Eubuleo, un’anima, nobile figlia di Zeus. Io Cecilia Secondina ho avuto da Mnemosine questo dono, tanto decantato tra gli uomini, perché ho sempre trascorso la vita nell’osservanza della Legge.

Si capisce bene come l’orfico aneli e spasimi per tornare là da dove è venuto, dal cielo, per ricongiungersi con il divino, che pure è dentro di lui. Gli elementi di questo pensiero sono già tutti nel culto orgiastico di Dioniso il quale, sollevando le anime durante l’ebbrezza mistica a uno stato soprannaturale, dà loro la sensazione di una vita divina, che l’anima può vivere solo in quei momenti.

Solange Passalacqua



1. 1. vv. 453 - 527, Georgiche, Virgilio, traduzione di S. Quasimodo
2. 2. vv. 1 - 20 e 42 - 53, Le Metamorfosi, Ovidio, traduzione di E. Oddone
3. 3. Simonide, fr. 384.
4. 4. Eschilo, Agamennone, vv. 1629 - 1630.
5. 5. Euripide, Alcesti, vv. 962 - 972.
6. 6. Aristofane, Rane, vv. 1032 - 1033.
7. 7. Platone, Simposio, fr. 218b.
8. 8. Aristotele, Simposio, 410b 27- 411a 2.
9. 9. Erodoto, 2, 81.
10. 10. Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, ed. Adelphi.
11. 11. ibidem.
12. 12. ibidem.
13. 13. Euripide, I Cretesi, fr.3

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