domenica 31 maggio 2009
Tutte le feste hanno un'origine pagana
Tutte le feste hanno un'origine pagana. Il processo di secolarizzazione non è riuscito ad estirpare del tutto questa radice che affonda in una "tradizione primordiale", come direbbero Guenon o Evola, in una "mentalità primitiva", come direbbe Levy Bruhl, in una "filosofia perenne", come direbbe Leibniz, in una "antropologia strutturale", come direbbe Levi Strauss, una "fedeltà alla terra", come direbbe Nietzsche.
Un qualcosa di irriducibile alla natura umana: il bisogno di sacro, di festa, di ebbrezza, di dionisiaco abbandono.
Tratto da: http://images.google.it/imgre
Questa immagine non ha nulla a che vedere con Cristo o la madonna, ma rappresenta il potere e l'eternità attraverso la rigenerazione del bambino l'umanità novella.
In questi ultimi tempi la rappresentazione della Maria cristiana è stata spogliata dei simboli che si portava dall'antichità pagana come: il calpestare la falce di luna calante , il serpente attorciliato presente anche in Cronos , Aion (il presente eterno) o Zevian e ancora le costellazioni che avvolgono la figura della madre che eternamente rinnova con il parto la vita e il mondo.
Dalla sacra fessura, espansa nella mandorla, l'umanità intera è passata, dal pertugio o dalla porta che divide questo mondo dall'altro mondo.
venerdì 29 maggio 2009
Il sacrificio secondo Alain Daniélou
Scrive Daniélou:
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IL SACRIFICIO
“Il Creatore è un Dio crudele che ha voluto un mondo in cui nessuno può vivere senza distruggere la vita, senza uccidere altri esseri viventi. Nessun essere può vivere senza divorare altre forme di vita, vegetale o animale. E’ questo un aspetto fondamentale della natura del creato. Tutta la vita del mondo animale non è che un’interminabile strage. Esistere vuol dire mangiare ed essere mangiati. L’uomo è ciò che egli mangia. Ogni essere vivente si nutre di altri esseri e diverrà nutrimento di altri esseri in un ciclo interminabile. […]
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Śiva spiega alla sua compagna: ‘Nel mondo non c’è nessuno che non uccida. Chi cammina uccide coi piedi moltissimi insetti. Persino dormendo si possono uccidere delle vite. Tutte le creature si uccidono tra loro… Nessuno può vivere senza uccidere… Muoiono soltanto coloro che sono destinati a morire. Ogni essere vivente è ucciso dal proprio Destino, la morte non viene che in seguito. Nessuno sfugge al Destino’.
Il capitolo fondamentale dello Śivaismo è l’accettazione del mondo com’è, non come vorremmo che fosse. Solo quando accettiamo la realtà del mondo possiamo cercare di comprenderne la natura, avvicinarci al Creatore, prendere il nostro posto nell’armonia della creazione. Poiché nessuno può esistere senza nutrirsi della vita di altri esseri, dobbiamo assumercene la responsabilità di fronte a noi stessi e di fronte agli dèi che così hanno voluto. Per associare agi dèi ai nostri atti, dobbiamo superare lo stadio istintivo, ritualizzare l’atto di uccidere come l’atto d’amore. Per condividere con gli dèi le responsabilità dell’atto fratricida con il quale, per sopravvivere, siamo obbligati a divorare altri esseri viventi, dobbiamo offrire loro vittime in sacrificio. […]
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Solo se prendiamo coscienza del valore dei nostri atti, compiendo consapevolmente la volontà del Dio il quale ha voluto che la vita non si mantenga se non con la morte, con l’uccisione, possiamo limitare gli effetti, recitare la parte che ci è devoluta nell’armonia del mondo. […]
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La strage la caccia all’animale per divorarlo è un istinto fondamentale dell’uomo, il suo mezzo per sopravvivere e come tale può provocare un’esaltazione, una sorta di trance che è anch’essa una via mistica d’integrazione nell’aspetto distruttore della divinità. La corsa sfrenata delle Menadi e il furore con cui esse dilaniano e divorano ancor vive le vittime è una delle forme dell’ebbrezza mistica.
Ritroviamo oggi quest’esaltazione nei grandi sacrifici sivaiti praticati ancora oggi, nei quali si sacrificano migliaia di capretti o di bufali, la terra e i partecipanti sono bagnati di sangue in un’atmosfera di esaltazione religiosa. Uccidere è un atto sacro, come dare la vita”. [...]
lunedì 25 maggio 2009
Metodi d'estasi
"Questa è la terra di Puglia e del Salento, spaccata dal sole e dalla solitudine, dove l'uomo cammina sui lentischi e sulla creta. Scricchiola e si corrode ogni pietra da secoli. Anche le pietre squadrate, tirate su dall'uomo, le case grezze, le chiese destinate alla misura del dolore e della speranza, seccano e cadono nel silenzio. Avara è l'acqua a scendere dal cielo, gli animali battono con gli zoccoli un tempo che ha invisibili mutamenti" . . . "È terra di veleni animali e vegetali qui cresce nella natura il ragno della follia e dell'assenza, si insinua nel sangue di corpi delicati che conoscono solo il lavoro arido della terra, distruttore della minima pace del giorno. Qui cresce tra le spighe di grano e le foglie del tabacco la superstizione, il terrore, l'ansia di una stregoneria possibile, domestica. I geni pagani della casa sembrano resistere ad una profonda metamorfosi tentata da una civiltà durante millenni".
Così Salvatore Quasimodo, nel commento a "La Taranta", film documento del 1961 di Gianfranco Mingozzi
E la tragedia greca che rivive con altra rappresentazione, balli ritmati che liberano il"lato oscuro". Lo scatenamento orgiastico di un popolo ancora libero, ma l'operazione culturale toglierà i ultimi riti dall'istinto di una tradizione lontana servirà per il folclore turistico, per l'ignoranza che tutto appiattisce e rende dotto per dimenticare il rimorso, per perdere definitivamente l'essenza di un popolo che non può più raggiungere l'estasi contadina e pagana.
Ormai tutto è sottomesso e perciò brutalmente alterato, incasellato nello studio ed approfondito dalla logica si consuma e muore.
Lettera scritta da Capriolo Zoppo al presidente degli U.S.A.
Lettera scritta dal capo dei Pellirossa Capriolo Zoppo nel 1854 al Presidente degli Stati Uniti d’America Franklin Pirce.
Gli indiani d’America, vivevano riuniti in tribù lungo i fiumi e i laghi: erano spesso nomadi e dediti alla caccia e alla pesca. Ebbero i primi contatti con gli Europei dopo che iniziarono le migrazioni di inglesi nel continente americano. A poco a poco il numero dei bianchi aumentò sempre più costringendoli a ritirarsi in zone sempre più ristrette, per i massacri che subivano ad opera degli invasori, fino ad essere confinati nelle riserve. Ma questo non impedì all’uomo bianco di continuare a sterminarli fino alla quasi estinzione. Difatti attualmente i nativi d’ America sono circa 500 mila.
Il documento qui integralmente riprodotto è senz’altro una delle più elevate espressioni di sintonia dell’uomo col creato ed esprime la ricchezza universale dei “popoli nativi”, dei veri “indigeni” di ogni luogo della terra ed è la risposta che il Capo Tribù di Duwamish inviò al Presidente degli Stati Uniti che chiedeva di acquistare la terra dei Pellerossa.
Il grande Capo che sta a Washington ci manda a dire che vuole comprare la nostra terra. Il grande Capo ci manda anche espressioni di amicizia e di buona volontà. Ciò è gentile da parte sua, poiché sappiamo che egli ha bisogno della nostra amicizia in contraccambio. Ma noi consideriamo questa offerta, perché sappiamo che se non venderemo, l’uomo bianco potrebbe venire con i fucili a prendere la nostra terra. Quello che dice il Capo Seattle, il grande Capo di Washington può considerarlo sicuro, come i nostri fratelli bianchi possono considerare sicuro il ritorno delle stagioni.
Le mie parole sono come le stelle e non tramontano. Ma come potete comprare o vendere il cielo, il colore della terra? Questa idea è strana per noi. Noi non siamo proprietari della freschezza dell’aria o dello scintillio dell’acqua: come potete comprarli da noi?
Ogni parte di questa terra è sacra al mio popolo. Ogni ago scintillante di pino, ogni spiaggia sabbiosa, ogni goccia di rugiada nei boschi oscuri, ogni insetto ronzante è sacro nella memoria e nella esperienza del mio popolo. La linfa che circola negli alberi porta le memorie dell’uomo rosso. I morti dell’uomo bianco dimenticano il paese della loro nascita quando vanno a camminare tra le stelle.
Noi siamo parte della terra ed essa è parte di noi. I fiori profumati sono nostri fratelli. Il cervo, il cavallo e l’aquila sono nostri fratelli. Le creste rocciose, le essenze dei prati, il calore del corpo dei cavalli e l’uomo, tutti appartengono alla stessa famiglia.
Perciò. Quando il grande Capo che sta a Washington ci manda a dire che vuole comprare la nostra terra, ci chiede molto. Egli ci manda a dire che ci riserverà un posto dove potremo vivere comodamente per conto nostro. Egli sarà nostro padre e noi saremo i suoi figli. Quindi noi considereremo la Vostra offerta di acquisto. Ma non sarà facile perché questa terra per noi è sacra. L’acqua scintillante che scorre nei torrenti e nei fiumi non è soltanto acqua ma è il sangue dei nostri antenati. Se noi vi vendiamo la terra, voi dovete ricordare che essa è sacra e dovete insegnare ai vostri figli che essa è sacra e che ogni tremolante riflesso nell’acqua limpida del lago parla di eventi e di ricordi, nella vita del mio popolo.
Il mormorio dell’acqua è la voce del padre, di mio padre. I fiumi sono i nostri fratelli ed essi saziano la nostra sete. I fiumi portano le nostre canoe e nutrono i nostri figli. Se vi vendiamo la terra, voi dovete ricordare e insegnare ai vostri figli che i fiumi sono i nostri fratelli ed anche i vostri e dovete perciò usare con i fiumi la gentilezza che userete con un fratello.
L’uomo rosso si è sempre ritirato davanti all’avanzata dell’uomo bianco, come la rugiada sulle montagne si ritira davanti al sole del mattino. Ma le ceneri dei nostri padri sono sacre.
Le loro tombe sono terreno sacro e così queste colline e questi alberi. Questa porzione di terra è consacrata, per noi. Noi sappiamo che l’uomo bianco non capisce i nostri pensieri. Una porzione della terra è la stessa per lui come un’altra, perché egli è uno straniero che viene nella notte e prende dalla terra qualunque cosa gli serve. La terra non è suo fratello, ma suo nemico e quando la ha conquistata, egli si sposta, lascia le tombe dei suoi padri dietro di lui e non se ne cura. Le tombe dei suoi padri e i diritti dei suoi figli vengono dimenticati. Egli tratta sua madre, la terra e suo fratello, il cielo, come cose che possono essere comprate, sfruttate e vendute, come fossero pecore o perline colorate.
IL suo appetito divorerà la terra e lascerà dietro solo un deserto.
Non so, i nostri pensieri sono differenti dai vostri pensieri. La vista delle vostre città ferisce gli occhi dell’uomo rosso. Ma forse ciò avviene perché l’uomo rosso è un selvaggio e non capisce.
Non c’è alcun posto quieto nelle città dell’uomo bianco. Alcun posto in cui sentire lo stormire di foglie in primavera o il ronzio delle ali degli insetti. Ma forse io sono un selvaggio e non capisco. Il rumore della città ci sembra soltanto che ferisca gli orecchi. E che cosa è mai la vita, se un uomo non può ascoltare il grido solitario del succiacapre o discorsi delle rane attorno ad uno stagno di notte?
Ma io sono un uomo rosso e non capisco. L’indiano preferisce il dolce rumore del vento che soffia sulla superficie del lago o l’odore del vento stesso, pulito dalla pioggia o profumato dagli aghi di pino.
L’aria è preziosa per l’uomo rosso poiché tutte le cose partecipano dello stesso respiro.
L’uomo bianco sembra non accorgersi dell’aria che respira e come un uomo da molti giorni in agonia, egli è insensibile alla puzza.
Ma se noi vi vendiamo la nostra terra, voi dovete ricordare che l’aria è preziosa per noi e che l’aria ha lo stesso spirito della vita che essa sostiene. Il vento, che ha dato ai nostri padri il primo respiro, riceve anche il loro ultimo respiro. E il vento deve dare anche ai vostri figli lo spirito della vita. E se vi vendiamo la nostra terra, voi dovete tenerla da parte e come sacra, come un posto dove anche l’uomo bianco possa andare a gustare il vento addolcito dai fiori dei prati.
Perciò noi consideriamo l’offerta di comprare la nostra terra, ma se decideremo di accettarla, io porrò una condizione. L’uomo bianco deve trattare gli animali di questa terra come fratelli. Io sono un selvaggio e non capisco altri pensieri. Ho visto migliaia di bisonti che marcivano sulla prateria, lasciati lì dall’uomo bianco che gli aveva sparato dal treno che passava. Io sono un selvaggio e non posso capire come un cavallo di ferro sbuffante possa essere più importante del bisonte, che noi uccidiamo solo per sopravvivere.
Che cosa è l’uomo senza gli animali? Se non ce ne fossero più gli indiani morirebbero di solitudine. Perché qualunque cosa capiti agli animali presto capiterà all’uomo. Tutte le cose sono collegate.
Voi dovete insegnare ai vostri figli che il terreno sotto i loro piedi è la cenere dei nostri antenati. Affinché rispettino la terra, dite ai vostri figli che la terra è ricca delle vite del nostro popolo. Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri, che la terra è nostra madre. Qualunque cosa capita alla terra, capita anche ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su se stessi.
Questo noi sappiamo: la terra non appartiene all’uomo, è l’uomo che appartiene alla terra. Questo noi sappiamo. Tutte le cose sono collegate, come il sangue che unisce una famiglia. Qualunque cosa capita alla terra, capita anche ai figli della terra. Non è stato l’uomo a tessere la tela della vita, egli ne è soltanto un filo. Qualunque cosa egli faccia alla tela, lo fa a se stesso. Ma noi consideriamo la vostra offerta di andare nella riserva che avete stabilita per il mio popolo. Noi vivremo per conto nostro e in pace. Importa dove spenderemo il resto dei nostri giorni.
I nostri figli hanno visto i loro padri umiliati nella sconfitta. I nostri guerrieri hanno provato la vergogna. E dopo la sconfitta, essi passano i giorni nell’ozio e contaminano i loro corpi con cibi dolci e bevande forti. Poco importa dove noi passeremo il resto dei nostri giorni: essi non saranno molti. Ancora poche ore, ancora pochi inverni, e nessuno dei figli delle grandi tribù, che una volta vivevano sulla terra e che percorrevano in piccole bande i boschi, rimarrà per piangere le tombe di un popolo, una volta potente e pieno di speranze come il vostro. Ma perché dovrei piangere la scomparsa del mio popolo? Le tribù sono fatte di uomini, niente di più. Gli uomini vanno e vengono come le onde del mare. Anche l’uomo bianco, il cui Dio cammina e parla con lui da amico a amico, non può sfuggire al destino comune.
Può darsi che siamo fratelli, dopo tutto. Vedremo.
Noi sappiamo una cosa che l’uomo bianco forse un giorno scoprirà: il nostro Dio è lo stesso Dio. Può darsi che voi ora pensiate di possederlo, come desiderate possedere la nostra terra. Ma voi non potete possederlo. Egli è il Dio dell’uomo e la sua compassione è uguale per l’uomo rosso come per l’uomo bianco. Questa terra è preziosa anche per lui. E far male alla terra è disprezzare il suo creatore. Anche gli uomini bianchi passeranno, forse prima di altre tribù. Continuate a contaminare il vostro letto e una notte soffocherete nei vostri stessi rifiuti.
Ma nel vostro sparire brillerete vividamente, bruciati dalla forza del Dio che vi portò su questa terra e per qualche scopo speciale vi diede il dominio su questa terra dell’uomo rosso. Questo destino è un mistero per noi, poiché non capiamo perché i bisonti saranno massacrati, i cavalli selvatici tutti domati, gli angoli segreti della foresta pieni dell’odore di molti uomini, la vista delle colline rovinate dai fili del telegrafo. Dov’è la boscaglia? Sparita. Dov’è l’aquila? Sparita. E che cos’è dire addio al cavallo e alla caccia? La fine della vita e l’inizio della sopravvivenza.
Noi potremmo capire se conoscessimo che cos’è che l’uomo bianco sogna, quali speranze egli descriva ai suoi figli nelle lunghe notti invernali, quali visioni egli accenda nelle loro menti, affinché essi desiderino il futuro. Ma noi siamo dei selvaggi. I sogni dell’uomo bianco ci sono nascosti. E poiché ci sono nascosti noi seguiremo i nostri pensieri.
Perciò noi considereremo l’offerta di acquistare la nostra terra. Se accetteremo sarà per assicurarci la riserva che avete promesso. Lì forse potremo vivere gli ultimi nostri giorni come desideriamo.
Quando l’ultimo uomo rosso sarà scomparso dalla terra ed il suo ricordo sarà l’ombra di una nuvola che si muove sulla prateria, queste spiagge e queste foreste conserveranno ancora gli spiriti del mio popolo.
Poiché essi amano questa terra come il neonato ama il battito del cuore di sua madre. Così, se noi vi vendiamo la nostra terra, amatela come l’abbiamo amata noi. Conservate in voi la memoria della terra com’essa era quando l’avete presa e con tutta la vostra forza, con tutta la vostra capacità e con tutto il vostro cuore conservatela per i vostri figli ed amatela come Dio ci ama tutti.
Noi sappiamo una cosa, che il nostro Dio è lo stesso Dio. Questa terra è preziosa per Lui.
Anche l’uomo bianco non fuggirà al destino comune. Può darsi che siamo fratelli, dopo tutto. Vedremo!
domenica 24 maggio 2009
"Dannazione della memoria" per Wilhelm Reich
Desidererei sapere perché gli studi di scienziati come Wilhelm Reich, nonostante i dati pervenutici, non sono pubblicati e menzionati in nessun trattato scientifico. In particolar modo sull'uso dell'accumulatore orgonico e il cloudbaster. Ci sono controdati che ribattono le ipotesi dei suoi risultati?
(…) Reich credeva che l'energia orgonica fosse osservabile visivamente, termicamente, mediante elettroscopi o usando i contatori Geiger-Mueller. Eppure, solo chi crede veramente nell'energia orgonica (cioè, gli orgonomisti praticanti la scienza dell'orgonomia) è stato capace di osservarla.
Reich affermava di aver creato una nuova scienza (l'orgonomia) e di avere scoperto altre entità, come per esempio i bioni, che fino a oggi però solo gli ergonomisti sono riusciti a individuare.
I bioni sarebbero vescicole di energia orgonica costituenti la fase di transizione tra materia non vivente e vivente. (…)
La Food and Drug Administration non solo ha negato l'esistenza dell'energia orgonica, ma ha anche fatto bruciare alcuni libri di Reich, un modo infallibile per accendere l'interesse in qualcuno.
Bruciando i suoi libri, il governo avrebbe dimostrato che Reich aveva fiutato qualcosa di grosso!!! Questo, almeno, è quanto sostiene una teoria. Un'altra teoria, invece, asserisce che alcune decisioni del governo sembrano stupide perché prese da gente incompetente. (…)
sabato 23 maggio 2009
Il riassorbimento della morte
Alla ricerca dell'anima
Orfeo e l'orfismo antico
Mentre fuggiva da te a precipizio lungo il fiume,
non vide, la fanciulla già segnata da morte,
nell’alta erba, il serpente che abita le rive.
E il coro delle compagne Driadi riempì di lamenti
I monti più elevati; e piansero le vette del Ròdope
E gli alti Pangei e la terra guerriera di Reso, e
piansero i Geti e l’Ebro e l’attica Oritia.
E consolando con la cetra l’amore perduto,
te dolce sposa, te sul lido deserto,
te al nascere, te al morire del giorno, egli cantava.
Ed entrò pure nelle gole del Tanaro, profonda
Porta di Dite, e nella selva cupa di nera paura,
e s’accostò ai Mani, e al loro re tremendo,
e a chi non sa addolcirsi alle preghiere umane.
E subito dal più profondo Erebo, commosse al canto,
ombre venivano leggere e parvenze di morti:
a migliaia, quasi stormi di uccelli che si posano
tra le foglie, quando la sera o l’aspra pioggia d’inverno
li caccia giù dai monti; donne e uomini, e corpi
di magnanimi eroi morti, e fanciulli e fanciulle,
e giovani arsi sul rogo davanti ai genitori.
E ora il fango nero e la squallida canna del Cocito,
e la palude lurida con la sua acqua pigra
li stringe d’intorno, e lo Stige con nove giri li rinserra.
Stupirono le case di Lete e i luoghi più remoti
del Tartaro, e le Eumenidi dai capelli azzurri di serpi;
e Cerbero restò muto con le tre bocche aperte,
e la ruota d’Issione si fermò insieme al vento.
E già Orfeo tornava, vinto ogni pericolo,
ed Euridice veniva verso la luce del cielo
seguendolo alle spalle (così impose Proserpina),
quando una follia improvvisa lo travolse,
da perdonare, certo, se i Mani sapessero perdonare.
Orfeo già presso la luce, vinto d’amore,
la sua Euridice si voltò a guardare.
Così fu rotta la legge del duro tiranno,
e tre volte un fragore s’udì per le paludi d’Averno.
“Quale follia” ella disse, “rovinò me infelice,
e te, Orfeo? Il fato avverso mi richiama indietro,
e il sonno della morte mi chiude gli occhi confusi.
E ora, addio: sono trascinata dentro profonda notte,
e non più tua, tendo a te le mani inerti”.
Disse; e d’improvviso svanì come fumo nell’aria
leggera, e non vide più lui che molte cose
voleva dirle e che invano abbracciava le ombre;
ma chi traghetta le acque dell’Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude.1
Mentre il vate di Tracia dietro di sé trae con tale carme le selve, le fiere impetuose e le rupi a lui soggette, ecco che le donne dei Ciconi, l’esagitato petto coperto da pelli ferine, dalla sommità di un’altura scorgono Orfeo, che al tocco delle corde accompagnava il canto. Una di esse, dopo aver squassato le chiome nell’aria lieve: “Ecco!” gridò; “ecco, quello è lo spregiatore di noi tutte!” e scagliò il tirso contro la canora bocca del vate caro ad Apollo: ma esso, avvolto in punta da foglie, causò un piccolo segno, senza ferita. Arma della seconda donna fu una pietra: dopo che fu scagliata, proprio nell’aria fu vinta dall’armonia della voce e della lira; e cadde ai piedi di lui, come fosse creatura supplice per eccessi così forsennati. Ma ormai si accresce la folle ostilità; sparisce ogni misura e regna la pazza Erini: tutte le armi sarebbero state vinte dal canto; ma l’enorme clamore, il suono del flauto Berecintio dall’incurvato corno, i timpani, battito di mani e urla in onore di Bacco, si sovrapposero all’armonia della cetra; e allora le pietre cominciarono a rosseggiare per il sangue del vate non più ascoltato. […] Te piansero mesti, Orfeo, gli alati, te piansero branchi di fiere e insensibili rocce e selve, che spesso seguirono i tuoi carmi: con dimesse frondi, con la recisa chioma, espressero lutto le piante; narrano che pure i fiumi, per le proprie lagrime si arricchirono di acque; le Naiadi e le Driadi indossarono manti velati di nero e lasciarono sparsi i capelli; e tu, o Ebro, ne accogliesti il capo e la lira; e mentre fluttuavano nel mezzo della corrente, la lira effondeva mesta non so qual flebile suono, la morente lingua sussurrava flebili parole, e flebili rispondevano le rive.2
Orfeo è il mitico cantore trace, figlio di Calliope e del re Eagro (anche se, talvolta, viene indicato come figlio di Apollo). Suoi tratti eccezionali sono la capacità di incantare, attraverso la propria musica, non solo uomini e fiere, ma anche elementi del regno vegetale e della natura inanimata. Due sono i racconti cui Orfeo è tradizionalmente legato: il viaggio degli Argonauti alla volta della Colchide, per recuperare il vello d’oro, e la discesa agli Inferi cui lo costrinse la morte della moglie Euridice. Alla spedizione guidata da Giasone, Orfeo diede un contributo fondamentale, vincendo nel canto le Sirene e impedendo così che l’equipaggio cedesse alle lusinghe della loro voce. Il secondo racconto, di cui ci parla anche Virgilio nei versi sopra riportati, è quello più conosciuto: il cantore aveva preso in moglie Euridice, figlia di Nereo e di Doride. Un giorno, ella viene morsa da una serpe, pestata accidentalmente, nel tentativo di fuggire Aristeo, che voleva violentarla. Morta Euridice, incapace di trovare consolazione, Orfeo decide di scendere agli Inferi per convincere le divinità sotterranee a restituire la sposa perduta, contro ogni legge di natura. Al suo ingresso nell’Ade, nessuna feroce creatura è capace di resistere al suo canto: né le Erinni, né il cane Cerbero, né Persefone né Ade stesso. Così, venne concesso a Euridice il ritorno alla luce, al solo patto che durante la risalita Orfeo, che avrebbe dovuto precedere la moglie, non si voltasse mai indietro a guardarla. Incapace di resistere, egli si volta proprio quando il viaggio di ritorno è quasi compiuto. Allora Euridice viene nuovamente inghiottita dalle tenebre e a Orfeo è vietato di rivedere l’amata, per sempre. Per lunghi mesi, il cantore non fa altro che piangere e cantare della moglie perduta. Finchè, le donne di Tracia non ne ebbero abbastanza: irritate dall’ostinazione del lutto e dal rifiuto che Orfeo opponeva ad ogni loro tentativo di farlo cedere all’amore, esse lo uccisero e ne smembrarono il corpo. I resti vennero sparsi per i campi e la testa gettata nel fiume Ebro. Questo è ciò che racconta il mito. Esso ci presenta un Orfeo che è uomo malato d’amore, colui che perde la donna amata, strappatagli dal destino prima del tempo, senza ragioni comprensibili; l’amore e la fedeltà ad Euridice sono ragione essenziale della sua vita. Orfeo, dunque, è un eroe profondamente umano, non un uomo straordinario, ciò che lo rende tale, semmai, è la forza del suo canto. Un canto che, almeno per un volta, vince la morte. Poiché non vi riesce una seconda volta, il poeta è sconfitto, ed inesorabili restano il fato e la morte. E tuttavia, il senso della tragedia non sta nell’impotenza del canto di fronte alla crudeltà del destino: è la follia, la dementia causata dall’amore, che uccide Orfeo. Al mito così come viene narrato, si accosta la figura di Orfeo come portatore e rivelatore di misteri propria della dottrina orfica. Fino al XVIII secolo, la conoscenza dell’Orfeo orfico si fonda sugli 87 Inni, su un poema epico dal titolo Argonautiche orfiche, su di un poema detto Lithikà (letteralmente, versi sulle pietre), e infine su un corpus di almeno 360 frammenti, fra brani in versi, brani in prosa e testimonianze dottrinarie. È ormai universalmente riconosciuto che le Argonautiche orfiche, i Lithikà e gli 87 Inni non hanno nulla a che fare con Orfeo, essendo certamente posteriori al II secolo d.C. Grazie al lavoro di ricerca del filosofo Giorgio Colli, sappiamo che l’Orfismo può datarsi tra il VI e il V secolo a.C. e queste attraverso le testimonianze da lui raccolto di Ibico, Simonide, Pindaro, Eschilo, Euripide, Aristofane, Platone, Isocrate e Aristotele, Timoteo, Demostene, Clemente Alessandrino, Apollonio Rodio, Callimaco, Diodoro Siculo, Plutarco, Proclo, nonché alle laminette orfiche.
Uccelli innumerevoli
si libravano a volo sopra il suo capo
e diritti
dall’acqua turchina balzavano
in alto i pesci per il canto bello.3
La tua lingua è contraria a quella di Orfeo:
con la sua voce infatti egli condusse ogni cosa alla gioia.4
Attraverso la musica
io mi slanciai in alto sul mondo, e
sperimentando la più parte dei discorsi
non trovai nulla più potente di Necessità,
né un qualche incantamento nelle tavolette
lignee di Tracia, che la voce
di Orfeo riempì di scritti,
né tutti i rimedi che Febo diede agli Asclepiadi,
tagliando per risanare i mortali dal molto soffrire.5
Orfeo difatti ci insegnò le iniziazioni e ad astenerci dall’omicidio,
Museo a sua volta gli oracoli e a risanare del tutto le malattie.6
Al contrario cacciarono dall’Ade Orfeo, figlio di Eagro,
inappagato, mostrandogli un fantasma della donna per la quale era venuto,
senza tuttavia dare lei, poiché a essi sembrava, in quanto suonatore di cetra,
un uomo debole, privo del coraggio di morire per amore come Alcesti, e
preoccupato invece di riuscire a entrare vivo nell’Ade. Proprio per questo
gli imposero una pena, e fecero che la sua morte avvenisse per opera di donne.7
A tale errore va incontro anche il discorso che si trova nella cosiddetta poesia orfica:
esso dice infatti che l’anima, portata dai venti, entra dall’universo negli esseri quando
respirano, e non è possibile che ciò accada alle piante, e neppure a certuni degli animali,in quanto
non tutti gli animali respirano: ma questo è sfuggito a coloro che hanno tale convinzione.8
Tuttavia esistono testimonianze ancora più remote: tra il VIII e il VI a.C. si tratta soprattutto di tradizione orale e di frammentazione di miti e di varianti poetiche; alla fine del VI secolo a.C. abbiamo, ad opera di Onomacrito, un tentativo di riordino nella tradizione, con una probabile prima redazione scritta. Ma è nel V e nel VI secolo a.C. che si può parlare di letteratura orfica. Fino ad allora si tratta semplicemente solo di poesia, e di una poesia che viene accolta nei misteri eleusini, nel rituale preparatorio della visione suprema, come uno degli elementi essenziali di quei drammi mistici, che presentavano i miti di Dioniso, di Demetra e di Core. In questo senso, alcuni storici greci – come Erodoto – parlano di “riti orfici”:
Tuttavia non si introducono nei luoghi sacri vesti di lana, né si fanno seppellire vestiti così, poiché non è concesso dalla religione. E in questo si accordano con i riti chiamati orfici e con quelli pitagorici. Neppure a chi partecipi a questi riti segreti e difatti concesso di essere sepolto con abiti di lana. E intorno a queste cose esiste un discorso che si dice sacro.9
In questo senso la parte più sacra e unitaria della poesia orfica non è stata tramandata, proprio per la sua correlazione con la sfera misterica. Orfeo racconta dei miti. Dioniso ed Eleusi sono i suoi presupposti. Orfeo racconta del dio e avvia alla conoscenza suprema. Ma Orfeo suona la lira e canta e, quindi, rappresenta anche Apollo, parla attraverso di lui. La poesia orfica diviene così legame tra Dioniso e Apollo.
Difatti la poesia di Orfeo è in primo luogo il canto di Apollo, cioè espressione, musica e parola, ma il suo contenuto è – attraverso la passione di Dioniso – il mistero di Dioniso.10
Dionisiaco e apollineo si fondono in Orfeo e nella sua poesia per divenire espressione dell’estasi misterica, attraverso la magia e l’incanto della musica e della parola, per un ritorno all’Origine, fuori dal tempo e dallo spazio.
È Mnemosine, l’augusta dea orfica, che attinge dal pozzo della visione misterica, e additando il passato riconduce attraverso la poesia alla grande iniziazione, da cui discendono le immagini degli déi, riflesso che compensa – nella memoria – di quell’esperienza, quando è trascorsa. […]Mnemosine ci insegna che l’origine di tutti i ricordi –là dove il tempo non è ancora cominciato – è quello appunto che si deve recuperare. Tale è l’insegnamento misterico, tutto il tempo che bisogna attraversare all’indietro per raggiungere il senza tempo, tutte le generazioni di dèi e uomini, tutti i miti narrati da Orfeo, non sono altro che giochi di apparenze.11
È a partire dalla seconda metà del V secolo a.C. e per tutto il VI secolo a.C. che l’Orfismo inizia ad assumere i connotati di setta religiosa, di carattere mistico. Il VI secolo, per la Grecia, è un’epoca di profondi mutamenti sociali. Esso segna la fine del medio evo greco con il passaggio dalle antiche monarchie così come le conosciamo dai poemi di Omero, al sorgere degli stati democratici di cui Atene è l’esempio più illustre. È giusto ritenere che l’orfismo, in questo quadro storico, si sia presentato come sistemazione teologica del culto di Dioniso. Orfeo infatti è originario della Tracia, come tracio è anche Dioniso; Orfeo muore di morte dionisiaca in quanto viene sbranato dalle Baccanti, così come Dioniso viene sbranato dai Titani. Il mito di Dioniso è quindi la cosmogonia orfica: egli è figlio di Zeus e di Persefone, e ha ricevuto dal padre lo scettro del mondo. I Titani, però, figli della terra, elemento oscuro e tenebroso (i quali qui si trovano – forse – a rappresentare un elemento rituale del culto di Dioniso, la spalmatura d’argilla, che si operava sulla faccia degli iniziati), aizzati dalla gelosa Hera, ne insidiano l’esistenza e mentre Dioniso (che gli orfici indicano con il nome di Zagreo) ingenuo fanciullo, si diverte nei campi, lo traggono in inganno con vari oggetti (che corrispondono agli strumenti secondari del rituale orfico) tra cui uno specchio.
Lo specchio è simbolo dell’illusione, perché quello che vediamo nello specchio non esiste nella realtà, è soltanto un riflesso. Ma lo specchio è anche simbolo della conoscenza, perché guardandomi nello specchio io mi conosco. E lo è pure in un senso più raffinato, perché tutto il conoscere è portare il mondo dentro uno specchio, ridurlo a un riflesso che io possiedo. E ora ecco la folgorazione dell’immagine orfica: Dioniso si guarda allo specchio e vede il mondo! Il tema dell’inganno e quello della conoscenza sono congiunti, ma soltanto così vengono risolti. Il dio è attratto dallo specchio, da questo giocattolo dove si mostrano immagini sconosciute e variopinte – la visione lo inchioda ignaro del pericolo – non sa di contemplare se stesso. Eppure quello che vede è il riflesso di un dio, il modo in cui un dio si esprime nell’apparenza.12
Dioniso cerca di fuggire alla presa dei Titani, cambiando forma, ma essi riescono a catturarlo proprio quando il dio si muta in toro, lo fanno a brani e lo divorano crudo. Ma Atena riesce a salvare il cuore di Dioniso e a portarlo a Zeus, che dopo averlo trangugiato genere un nuovo Dioniso. I Titani sono colpiti dalla folgore e dalla loro cenere nasce il genere umano, nel quale dunque coesistono titanico e dionisiaco, fusi sin da quando i Titani divorarono Dioniso. Gli orfici accettano la figura di questo dio, accettano il rituale di uccisione dell’animale sacro con ingestione delle sue carni crude come simbolo di deicidio gravido di conseguenze per il genere umano, ma dal quale pure scaturisce la scintilla divina che si cela nelle ceneri della nostra materia. Per l’orfico, l’anima ha dunque natura divina e il corpo rappresenta la sua tomba, in cui essa precipita a conseguenza di un colpa primordiale. E la liberazione può essere compiuta solo attraverso l’espiazione e la catarsi. L’espiazione è la trasmigrazione di corpo in corpo che l’anima attua all’interno del cerchio della generazione, che gira inesorabilmente. La catarsi è la discesa agli Inferi dopo la morte. Il tentativo di riunirsi con il divino, che è il solo scopo dell’orfico, viene messo in pratica anche seguendo un vita di purezza, di ascetismo, di cerimoniali; anche segni esteriori contraddistinguono questo tipo di vita: una veste bianca, orrore di tutto ciò che implica un contatto mortuario, come la vicinanza delle tombe, il mangiare legumi che sono offerta per i defunti, il vestir di lana, fuggire il contatto con le partorienti. Tutte prescrizioni contenute in un frammento euripideo, il più importante circa la liturgia orfica. Esso appartiene a una tragedia andata perduta, intitolata I Cretesi, che recita così:
Sono giunto lasciando i templi davvero divini,
ben coperti dalla grande trave di legno nativo,
tagliata dalla scure dei Calibi,
e dal cipresso incollato in giunture precise;
e conducendo una vita santa, da quando
divenni iniziato di Zeus dell’Ida,
e sperimentando il modo di vita di Zagreus vagante di notte
e i banchetti di carne cruda
e levando in alto le fiaccole per la Madre montana,
tra i Cureti,
purificato ebbi il nome di Bacchos.
E indossando vesti bianchissime fuggo
la nascita dei mortali, e senza accostarmi
all’urna dei morti, mi guardo dal mangiare
cibi in cui c’è stata vita.13
Nell’Ade orfico regnano Eubuleo, epiteto di Dioniso Infero, Ade e Persefone. Due sono le vie principali, a destra e a sinistra e conducono una ai fioriti prati destinati ai puri, l’altra al Tartaro punitore dei malvagi. Appena entrato, l’orfico non deve prendere la strada di sinistra, segnata da un pioppo bianco, ma deve imboccare la via di destra che conduce alla fonte di Mnemosine. A questo punto, egli deve dare una sorta di parola d’ordine, dichiarando la propria appartenenza al cielo e alla terra e domandando a Persefone un posto tra i buoni, in attesa di potersi ricongiungere con il Tutto, con Dioniso – Zagreo. Tutto questo è documentato grazie al ritrovamento delle cosiddette laminette orfiche, in Magna Grecia, a Roma e a Creta. Gli orfici seguivano indifferentemente il rito dell’inumazione o quello della cremazione, ponevano il cadavere o i resti inceneriti di esso sottoterra, in un bianco lenzuolo tra blocchi di tufo. Queste laminette, di pochi centimetri, spesso ripiegate come pezzettini di carta, venivano poste al collo o alla mano destra del defunto ed erano guida e promemoria per il viaggio ultramondano. Esse possono essere divise in gruppi, per la similitudine dei contenuti. Alcune offrono indicazioni all’anima del defunto per il viaggio attraverso l’Ade. Così si legge nella laminetta trovata a Ipponio:
Di Mnemosine è questo sepolcro. Quando ti toccherà di morire
alle case ben costrutte di Ade: c’è alla destra una fonte,
e accanto a essa un bianco cipresso diritto;
là scendendo si raffreddano le anime dei morti.
A questa fonte non andare neppure troppo vicino;
ma di fronte troverai fredda acqua che scorre
dalla palude di Mnemosine, e sopra stanno i custodi,
che ti chiederanno nel loro denso cuore
cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso.
Dì loro: Sono figlio di Giove e di Cielo stellante,
sono riarso di sete e muoio; ma date, subito,
fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine.
E davvero ti mostreranno benevolenza per volere del re di sotto terra;
e davvero ti lasceranno bere dalla palude di Mnemosine;
e infine farai molta strada, per la sacra via che percorrono
gloriosi anche gli altri iniziati e posseduti da Dioniso.
E in quella trovata a Petelia:
E troverai sinistra della casa di Ade una fonte,
e accanto a essa un bianco cipresso diritto:
a questa fonte non accostarti neppure, da presso.
E ne troverai un’altra, fredda acqua che scorre
dalla palude di Mnemosine: e davanti stanno i custodi.
Dì loro: sono figlio di Terra e di Cielo stellante,
inoltre la mia stirpe è celeste; e questo sapete anche voi.
Sono riarsa di sete e muoio: ma date, subito,
fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine.
Ed essi ti lasceranno bere dalla fonte divina,
e in seguito tu regnerai insieme agli altri eroi.
Di Mnemosine è questo sepolcro…
Altre cinque laminette trovate in due tombe diverse presso l’antica Thurii (oggi Terranova di Sibari) nel 1879 sono importantissime per i nuovi elementi che offrono a chi legge, riferibili ad altra tradizione. Tre sono state trovate in un unico tumulo, e, a parte qualche piccola variante, recitano tutte così:
Vengo dai puri pura o regina degli inferi,
o Eucle ed Eubuleo e voi altri, dei e demoni,
perché io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe felice,
e ripagai la pena di azioni per nulla giuste,
che mi soverchiasse la Moira oppure il bagliore delle folgori.
E ora giungo supplice presso Persefone casta,
perché benigna mi mandi alle sedi dei puri.
Le altre due recano scritto un vero e proprio inno:
Ma non appena l’anima abbandona la luce del sole,
a destra…racchiudendo, lei che conosce tutto assieme.
Rallegrati, tu che hai patito la passione: questo prima
non lo avevi ancora patito.
Da uomo sei nato dio: agnello cadesti nel latte.
Rallegrati, rallegrati, prendendo la strada destra
verso le praterie sacre e i boschi di Persefone.
…e Protogono e Metis. Alla Madre di tutto disse
Core, stirpe di Cibele, quanto nelle di Demetra
……o Zeus… …o Sole, o Fuoco, attraverso
tutte le città …andrai…Vittoria
ed egualmente Fortuna, venite, Fanes, Moire
che tutto ricordate…tu demone glorioso…
…ogni cosa può essere soggiogata, ogni cosa
…di contraccambio da sopportare
…non all’aria il fuoco…o madre…ti è possibile
…e uno che digiuna per sette notti o dopo il giorno…
per te digiunai sette giorni, o Zeus…Olimpio, che
tutto vede, sempre…o madre, ascolta
la mia preghiera…e insieme alla mia bella
……o Demetra, Fuoco, Zeus, e la sotterranea…
……nel cuore alla madre…
…nel cuore alla madre…
Queste laminette sono importanti per alcuni precisi motivi: la purezza con la quale l’orfico indica se stesso, la colpa iniziale, il deicidio di Zagreo, che condanna l’orfico alla prigionia del corpo, la similitudine con il capretto, che indica un’identificazione dell’orfico con Dioniso stesso e il raggiungimento della vita divina, attraverso l’immersione nel latte. Altre tre laminette, ritrovate nel 1893 presso Eleutherna in Creta, dove il culto di Dioniso aveva larga diffusione, contengono tre soli versi:
Io sono riarso di sete e muoio. – Ma bevi orsù,
dalla fonte sempre corrente, alla destra, dov’è il cipresso.
- Chi sei? E donde sei? – Sono figlio di Terra e di Cielo stellante.
È da menzionare anche un’unica laminetta che è stata ritrovata a Roma sulla via Ostiense nel 1903, risalente probabilmente al II secolo d.C., appartenente ad una matrona romana di nome Cecilia Secondina. In questo unico caso, è presente il nome dell’iniziato, trattandosi delle leggi romane che imponevano precauzioni giuridiche per riconoscere i defunti.
La laminetta dice questo:
Viene, pura fra i puri, a voi o regina degli Inferi, o Eukles, o Eubuleo, un’anima, nobile figlia di Zeus. Io Cecilia Secondina ho avuto da Mnemosine questo dono, tanto decantato tra gli uomini, perché ho sempre trascorso la vita nell’osservanza della Legge.
Si capisce bene come l’orfico aneli e spasimi per tornare là da dove è venuto, dal cielo, per ricongiungersi con il divino, che pure è dentro di lui. Gli elementi di questo pensiero sono già tutti nel culto orgiastico di Dioniso il quale, sollevando le anime durante l’ebbrezza mistica a uno stato soprannaturale, dà loro la sensazione di una vita divina, che l’anima può vivere solo in quei momenti.
Solange Passalacqua
1. 1. vv. 453 - 527, Georgiche, Virgilio, traduzione di S. Quasimodo
2. 2. vv. 1 - 20 e 42 - 53, Le Metamorfosi, Ovidio, traduzione di E. Oddone
3. 3. Simonide, fr. 384.
4. 4. Eschilo, Agamennone, vv. 1629 - 1630.
5. 5. Euripide, Alcesti, vv. 962 - 972.
6. 6. Aristofane, Rane, vv. 1032 - 1033.
7. 7. Platone, Simposio, fr. 218b.
8. 8. Aristotele, Simposio, 410b 27- 411a 2.
9. 9. Erodoto, 2, 81.
10. 10. Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, ed. Adelphi.
11. 11. ibidem.
12. 12. ibidem.
13. 13. Euripide, I Cretesi, fr.3
venerdì 22 maggio 2009
Monte Summano:dimora degli Dei
Un’oasi montana di sacralità, un centro di ritrovo collettivo per le genti paleovenete e in epoca romana, tutto questo e altre cose fanno parte della leggenda del Monte Summano, ormai diventato un simbolo per la provincia vicentina. Si aggiunga al tutto il giallo storico dell’esistenza del tempio pagano e dell’idolo d’oro dalla testa di capro e il successo popolare nel tempo è sicuro. L’unico cruccio degli studiosi sono le famose prove certe, ma se ci si mette di mezzo l’archeologia…
Di ALVARO BONOLLO
Familiare piramide, il Monte Summano si erge isolato nella piana alto vicentina: si alza pigramente al cielo sdoppiandosi in due gobbe. Lo anima la notte e le sue folgori, le piogge ne alimentano la rara, variegata vegetazione, il sole non trova ostacoli e lo riscalda di petto. Come evitare un pizzico di poesia su questa montagna che ha affascinato gli uomini e gli storici per millenni ed ha scritto una immensa pagina sulla religiosità pagana e cristiana. Il Summano è stato investito, a ragione, od a torto, da uno stratificarsi di culti dedicati vuoi alle divinità indigene, come la dea Reithia, notizia supportata dalle abbondanti prove archeologiche del vicino Monte di Magre, da culti orientali od etruschi (il dio Summano dovrebbe essere di origine etrusca), da culti preromani e romani. Le varie sovrapposizioni portarono ad un “imbrogliato groviglio” religioso, come spiega lo storico Mantese. “Troppo forzato e difficile l’inserimento od agganciamento di una tradizione cristiana nella precedente tradizione pagana; la veneta Reithia svolse così, in epoca romana il ruolo di Diana, mentre il dio etrusco, Summano, dovette assumere le forme di Giove o di Plutone”.
Generazioni e generazioni di storici, di studiosi e di letterati hanno fantasticato su questa strana cima a due gobbe posta sulle Prealpi, in prossimità di Schio, che sembra un vulcano, ma che non lo è mai stato, e che si offre alla piana alto vicentina come ultimo contrafforte che separa le due importantissime vallate dell’Astice e del Leogra e si pone proprio in mezzo ad esse.
“Da sempre” gira una circostanziata leggenda che narra come lassù, nella gobba più alta, a 1299 metri di altezza fosse sorto un grandissimo tempio pagano, visibile fino a Vicenza ed oltre. Non solo: dove ora c’è la croce, si stagliava un enorme capro dalle coma d’oro massiccio e dalla forma idolatra. Era metà capro e metà uomo. Il tempio era dedicato a Plutone, summus manium, mentre altri, invece, parlano di un tempio a Giove Sommo, Juppiter Summanus.
Secondo gli studiosi Kozlovic e De Ruitz, “il dio Summano era una divinità autonoma, infernale, dio della folgore notturna, mentre a Giove erano attribuiti i fulmini diurni. Il dio Summano, divinità resa ancor più affascinante dalle parentele con la religiosità etrusca, sarebbe una potenza fosca e vorace a cui venivano sacrificati montoni neri, a cui si offrivano doni e sacrifìci. Ogni due mesi, in suo onore, venivano celebrate le grandi feste dette Summanalia (Ovidio).
La leggenda, od una certa mitologia cristiano-popolare, vuole che il grande capro dalle coma d’oro posto di fronte al tempio sia stato derubato dalle truppe se non da Carlo Magno in persona, (”si impossessò dell’idolo d’oro per adornare la sua reggia”, scrisse il Giongo) nella sua campagna bellico-restauratrice.
Altra “storiografìa” imputa la distruzione dell’idolo e del tempio all’opera evangelizzatrice di San Prosdocimo, nel 77 dopo Cristo. Scrive Francesco Rande nel 1958:” San Prosdocimo, nobile giovane d’Antiochia, seguito da proseliti cristiani, ascese il Summano, diroccò il tempio, ne stritolò il simulacro di Plutone, atterrò l’abitato contiguo e fece nel mezzo di una e dell’altra cima un nuovo tempio in onore della Regina dei Cicli della nostra salute”. Ma anche il Rando si affidava quasi in toto alle suggestioni della leggenda; scarse le prove da lui riferite, a parte l’importantissima cronistoria della deposizione della croce, di cui parleremo. Ma proseguiamo. L’affascinante storia/leggenda del tempio del Summano è vecchia di oltre 2000 anni, ma i primi riferimenti “scritti” si rinvengono solamente attorno al 1300 d.C. Della storia del tempio e del capro d’oro, ne parlano anche storici seri e/o famosi come Macca, il Dal Pozzo, Pigafetta e tant’altri, ma nessuno ha mai tenuto conto delle “prove certe”, quelle archeologiche, nessuno ha mai provato ad “assemblare” le centinaia di notiziole sui rinvenimenti nella cima del monte e nessuno ha affrontato autonomente questo capito per poi reinterpretarlo anche alla luce del “dato scritturale”.
PER LA CHIESA E’ PURA LEGGENDA
In realtà sul Monte Summano non s’è mai eseguita una seria campagna di scavo: alla Sovrintendenza mancano soldi ed organico per avventurarsi nelle verifiche di una leggenda. Scavi seri, nel 1912, 1962, sono stati però eseguiti in una famosa grotta alle pendici del monte, di cui parleremo più avanti. Va altresì detto che, campagne di scavo a parte, Ì materiali rinvenuti casualmente in superfìcie, o dopo una aratura, o in seguito ad un lavoro edilizio, sono moltissimi, sia alle pendici del monte, sia sulla cima. Secondo noi, questo eterno dualismo, documento scritto e reperto archeologico, dualismo che pochi portano alla necessaria convergenza, ha prodotto ritardi di secoli nella ricerca della verità storica, o di una via che porti ad essa. E non solo in questo specifico caso del Monte Summano, ovviamente. Pensiamo solo alla pervicace ostinazione di uno studioso come don Simeone Zordan che scrive a chiare lettere che tutta la storia del monte Summano è stata inventata di sana pianta e che qualsiasi prova archeologica non ha valore : “Nè tempio, ne statue agli dei Stigyi, sul Monte Summano, non Ninfe a San Martino, non Diana nella Val Leogra, ma popolazioni pagane di origine germanica che furono evangelizzate da San Prosdocimo”. Con una sola frase ha spazzato via millenni di storiografìa, negando qualsiasi giustificazione a quel discusso Istituto mediterraneo di Studi politeisti che agisce da anni proprio nel vicentino e che ruota attorno alla “paganità” del monte chiedendo che venga ripristinato l’antico tempio a Giove. Non devono stupire simili affermazioni: Zordan è innanzitutto un religioso e la sua fede ha prevaricato il suo essere anche uno studioso: non può certo avallare storie di sacrifici e capri dalle corna d’oro. E’ lo stesso studioso che in barba alla logica ed alla storia, attribuisce l’origine di quasi tutti i comuni vicentini (tra cui Thiene, Santorso, Sarcedo, Schio, Zugliano, Zane, ecc) all’arrivo dei Longobardi.
Più qualificata, ma troppo sbrigativa, l’affermazione di Lelia Cracco Ruffini (Storia di Vicenza, Neri Pozza, 1987) secondo cui “pura leggenda, non confermata da reperti, è quella del tempio dedicato a Plutone Summano”. Secondo la studiosa la leggenda compare nella tradizione agiografica relativa al vescovo di Padova Prosdocimo e venne divulgata negli ambienti benedettini attorno all’anno mille. Va chiarita comunque una cosa: abbiamo rintracciato molte prove sull’esistenza del cosiddetto tempio del Summano e sull’annesso idolo, ma non siamo in grado di offrire le cosiddette “prove inequivocabili”, o certe. Ma non mancano certo le prove archeologiche sulla diffusa “sacralità” di questa misteriosa piramide montuosa fatta di dura dolomia, molto appetita dai cavatori che hanno “estratto” cucchiaiate di monte.
Una sacralità antica: le prove archeologiche
Le pendici del monte, sin dal 2.500 a.C (4.500 anni fa, quindi) vennero frequentate dall’uomo preistorico dell’età tardo Neolitica, che perpetrava antichi riti legati all’incinerazione dei suoi morti; l’uso cultuale dell’antro prosegue fino all’epoca storica. Questo avveniva all’interno della grotta di Bocca Lorenza, nel costone a sud-est del monte, poco sopra Santorso. In queste sepolture, accanto a resti umani “bruciati”, sono stati trovati svariati utensili in selce, frammenti dei rarissimi e spettacolari “vasi a bocca quadrata” (a quattro beccucci e con incisioni) denti di cinghiale e di cervo traforati, per ricavarne degli orecchini, o pendagli. Nella grotta di Bocca Lorenza, vennero scoperte anche due meravigliose asce in purissimo rame, forse di corredo funebre, tra le più belle mai rinvenute nel nord Italia. Già 4500 anni fa il monte era meta di pellegrinaggi preistorici da terre lontane e provenienti dal mare: sempre nella grotta, nella stessa stratigrafia Neolitica, sono state scoperte alcune conchiglie, gasteropodi marini (Columbella rustica), traforate a mò di elementi di collana. Forse frutto di scambi con le lontane popolazioni preistoriche del mare, forse lassù portate da queste genti lontane, attratte dal “sacro” monte. Bocca Lorenza si inserisce nella cultura delle “Grotticelle sepolcrali”. Il Monte Summano, anche in epoca successiva, ossia nell’età del Bronzo medio, attorno al 1400 a.C., mantiene inalterata la sua sacralità.
Lo storico Leone Fasani, in uno studio del 1966 attesta la presenza, sulle pendici del monte, di un sepolcreto dell’età del Bronzo. Non si trovarono i corpi incinerati dei primi uomini portatori del segreto del bronzo, ma gli ossuari, ossia vasi biconici in cui le cui ceneri erano custodite. E’ la posizione, la sua forma, quel clima vario che può passare incredibilmente dalla mitezza mediterranea delle pendici, all’habitat alpino della cima, ad attrarre le genti nei millenni e nei secoli. E’ un’attrazione che ha del mistico: quel monte apparentemente isolato, che svetta al cielo, tramite tra terra, roccia e ciclo, quelle pendici fertili che si innalzano in dolce forma mammellare, quella cima con due gobbe, tra loro intervallate da una verde conca, è tutto questo insieme mistico-morfologico che ha richiamato da sempre genti e fedeli fin dalla pianura più remota.
Il Giongo, storico thienese, racconta che le popolazioni antiche raggiungevano il Summano dagli Appennini, sino a Roma, tant’era la fama del “sacro monte”. Dalla “sacralità” preistorica, a quella paleoveneta: sulla cima del monte, vennero ritrovati anche 10 spendidi bronzetti, appartenenti probabilmente alla cultura paleoveneta forse dedicati alla dea Reithia, forse al tenebroso Summano. Alcuni raffinatissimi lavori erano chiaramente “cultuali”: divinità votive (forse Cerere?) che reggono i simboli dell’abbondanza, oranti con le braccia icasticamente protese in segno di offerta, una mutila “virtus” romana.
Oggi quel patrimonio di preziose statuine non più alte di 10 cm, è stranamente disperso, come spiegano Ruitz, Koziovic e Pirocca; rimangono solo alcune foto, riportate nel testo, redatto dai tre studiosi, “Appunti su Santorso romana”. Tre bronzetti sono però riaffiorati e si possono ammirare nella mostra archeologica didattica di Santorso e, presto, nel Museo di Santorso. Gli autori, dopo avere presentato questi gioielli fotografici, in una nota ammoniscono: “Che questa inedita collezione di foto, serva di stimolo per una ricerca più approfondita sulla veridicità della tradizione secondo cui sulla vetta del monte sarebbe sorto un tempio sacro ad una divinità pagana”.
Ai piedi del monte, nel 1981, venne scoperto anche un vasto villaggio dell’età del Ferro (attorno al V-II secolo a.C.) con la presenza di casette seminterrate, e la tomba di un infante, a conferma del magnetismo ininterrotto sviluppato dal magico monte. Basta fare pochi km e aggirare il monte verso l’imbocco della Valdastico e, sopra a Piovene, scopriremo altrettanta antica antropizzazione: un castelliere del bronzo medio (1500/1300 a.C), casette seminterrate dell’età del ferro, lance in bronzo, preziose ciotole con le anse ” a coma di bue”, spilloni e fibule in bronzo romane, assi e vittoriati ecc.. Nella preziosa “Carta archeologica del Veneto” ci sono ben 7 pagine di segnalazioni di luoghi archeologici nelle pendici del Summano, per un totale di una cinquantina di siti. Un autentico record da guinnes dei primati.
Ovunque tombe e lapidi
II Sommano è una autentica miniera per quanto concerne l’epoca romana: fibule, monete, anche in oro ed argento, crinali in bronzo, spilloni, ciottoli di granito con incisioni votive; lapidi e tombe, scheletri adagiati sulla nuda terra, sono stati rinvenuti ovunque, dagli orti di Santorso, ai campi di Piovene, sino alla ventosa vetta. Solo in parte tali e tanti materiali sono stati segnalati alle autorità, causa l’annosa incomprensione, favorita da una legge del 1939, tra appassionati e Sovrintendenza archeologica.
Solo a Santorso ricordiamo: le tombe, protette da embrici romani, rinvenute a contrà Leve e già citate in un documento del 1291, una decina di tombe a San Carlo di Lesina, poi quelle in località San Cristoforo, le ossa combuste e frammenti di cranio di una probabile necropoli nel Colle del Castello, le tombe lungo la ex linea Ferroviaria Schio- Santorso-Thiene, il sepolcreto rinvenuto nel 1779 presso Cabrelle, la probabile necropoli in località Stradelle. La sacralità è dunque plateale, certa.
Ma che prove abbiamo del tempio “che sorse sulla cima del monte” e della immensa statua del capro dalle coma d’oro che probabilmente sorgeva di fronte al tempio? Innanzitutto esistono alcune lapidi, rinvenute proprio sulla cima del Summano che sono di estremo interesse. “In agro vicentino in Monte Summano prope templum S.Mariae, in lapide albo”, venne ritrovata la lapide del famoso grammatico vicentino Remnio Palemone, citato da Svetonio e Giovenale e vissuto attorno al 30 a.C.
Il Pagello scrisse all’amico Nicolo Volpe asserendo di avere visto con i propri occhi le spoglie di Palemone, rinvenute dai frati Girolimini sulla cima del monte. Il dotto Palemone pare avesse scelto proprio la vetta come luogo eletto per la sua sepoltura; altre lapidi accennerebbero proprio al tempio del Summano che racchiuderebbe l’idolo.
La nobildonna romana, Argentina, colpita dal dolore ai polmoni (pleurite), volle essere sepolta nella cima del Summano presso il tempio di Giano (ma compaiono molte variazioni attorno a questa lapide ed esiste la possibilità che “arx lani” sia riferito ad Arzignano).
Ecco il testo più attendibile della famosa lapide di Argentina, moglie di Q. Metello, iscrizione citata da Manuzio, Trinagio, Marzari, Barbarano, sino al Macca: Metelli Argentilla uxor Summanum visum pergens ad sergiam arcem Iani declinavi tibi lanum primum consule-rem sed laterum dolore confossa perij fato fortasse ut neutrum viderem sed arceianum me obreveret solum.
Sembrano non avere bisogno di tante prove i “politeisti altovicentini”: per loro quella “leggenda” è vera in forma vitale. Non va nemmeno messa in discussione! Parliamo della “setta del Summano” (la gente l’ha conosciuta con questa impropria definizione), un gruppo di “pagani”, rigorosamente anonimi che pubblicano alcune riviste come “Paganitas”, “Luce Politeista”, “Studi politeisti”. Questi neo-pagani, dall’86, ad oggi, hanno innescato una autentica crociata “per restituire il Summano all’antica religiosità pagana ed abbattere l’offesa cruciata, ricostruendo l’antico tempio sacro a Giove”. Hanno scritto ai sindaci di Santorso, Schio, Piovene, al vescovo Nonis: i politeisti chiedono sì l’abbattimento della croce, ma soprattutto vogliono che venga riedificato l’antico tempio sacro a Giove e che vengano tollerati i loro culti pagani.
Plutoni Summano aliisque Diis Stygis
Addirittura il nome di Thiene potrebbe derivare dal tempio, sopratutto dall’aureo capro, o toro. “La storia di Thiene ha stretta attinenza con quella del Summano e chi non conosce bene la vera storia del Summano sin dai primi tempi, non può concepire nemmeno l’immagine della vera origine di Thiene” (A. Giongo, “L’origine di Thiene”, 1914).
Secoli fa, venne recuperata (ma si sono perse le tracce) una lapide con le lettere “T.H.N.”, “scavando le fondamenta di uno di uno dei primi caseggiati della valle del Summano”. Per il Giongo quelle “sacre iniziali” stavano a significare “Taurus honor noster”, ossia “il capro è il nostro dio”. Da quella sigla nacque il nome di Thiene; verrebbe giustificata così anche la presenza dell’h. Questa origine divino-pagana di Thiene e del suo nome è stata fortemente avversata da molti storici, ma della presenza di tale lapide se ne fa accenno, pur con distacco, anche nel qualificato studio di Gabriele De Rosa (Storia di Thiene”, Serenissima editrice 1994) e la teoria viene ripresa in un articolo sul “Giornale di Vicenza” dell’88 dal documentato studioso thienese, Massimo Martini. Padre Macca’ (”Storia del territorio vicentino”, Caldogno 1815), storico e narratore, secondo noi degno di grande rispetto, scrive:”!! cieco gentilesimo, assuefatto già a consacrare le cime dei monti ai falsi suoi numi, consacrò la superiore delle due punte a Plutone, dio dell’Inferno, detto Summan, vale a dire “Summus deorum Manium”, il Sovrano degli dei Mani, ovvero delle ombre. Fu costruito a questa deità un superbissimo tempio, dentro il quale fu eretta la sua statua colla seguente iscrizione: “PLUTONI SUMMANO ALIISQ. DIIS STIGYIS”.
A riprova che la “leggenda” del tempio è “storicamente” radicata, non solo negli animi pagani, ma anche nella cultura cristiana, basta entrare nella chiesa di Santorso. Nella lapide posta nella sinistra della chiesa di Santorso, si legge:” Summano fu Plutone, dio degli Inferi, secundo idolatrie de’ gentili, il cui simulacro era posto su questo monte, onde prese dall’idolo et il popolo vicentino vi sacrificava, per li suoi peccati et per l’anime”.
Giongo, sulle ali di una forte suggestione promanata da questo sacro/pagano monte, scrisse :” II Summano presentava l’aspetto di inospiti selve e balze scoscese, servì ai veneri di sicuro asilo e sulla vetta più alta del monte innalzarono il loro idolo”.
Secondo questo storico dei primi del ‘900, il tempio “adorato in tutta Italia”, da una prima contenuta struttura, venne allargato. Nella porta d’ingresso venne scritto a caratteri cubitali: “Plutoni, Summano, aliisque Diis Stygis” (dedicato a Plutone Summano ed agli dei dello Stige). Tale iscrizione che secondo altri storici ornava invece il basamento della statua dell’idolo, è ritenuta da tutti gli storici vera, autentica. Solamente il Momsen, una autorità in materia di iscrizioni, bollò come falsa tutta la faccenda. Il Barbarano scrisse che il tempio del monte Summano “fu per tutto il mondo celebratissimo e in grande venerazione presso i Gentili, i quali ad esso venivano fino da Roma in pellegrinaggio”.
Il Da Schio, nel 1850 (Vocabolario vicentino) scrisse:”…! pastori chiamano per anche una delle sue vette l’idolo perché forse ivi eravi il simulacro del dio”.
Battista Sainiello nel 1760 narra della venerazione del dio Plutone “e del suo enorme tempio”.
Eusebio Giordano (ristampa del 1626) spiega con precisione :” Il tempio e l’idolo sono posti nel vicentino a 15 miglia lunge dall’antica città, appresso le Alpi”.
Anche il Pigafetta in una relazione del 1580, conferma ” la presenza dell’idolo che si chiamava idolo del Summano”.
Il Castellini parlando di questo idolo, dice che “da tutta Italia et altre provincie, vi concorreva gran numero di persone per haver da lui risposta”
Dal mito alla realtà
C’è una prova archeologica che da sola potrebbe spazzare via molte delle perplessità : “secoli fa venne rinvenuta, proprio sul Monte Summano, la lapide che avrebbe dovuto ornare il basamento della statua dell’idolo del Summano” (Ruitz, Pirocca, Koziovic, 1978). Recava scritto:” Plutoni Summano”, al dio Fiutone Summano. Secondo altri la scritta era:” Plutoni Summano aliisq. dis Stygiis”.
L’iscrizione del basamento dell’idolo venne vista da molti ( ma oggi non si sa più nulla), dal Giordani, dal Manuzio, pure dall’esperto d’iscrizioni, il Momsen che però la collocò tra le spurie.
Chiaro che tale iscrizione “dedicatoria” implicherebbe quantomeno un’ara votiva al dio Summano, od un luogo di culto.
Importantissima l’iscrizione (riportata nella autorevolissima “Carta archeologica del Veneto” del 1989), rinvenuta a Piovene Rocchette nel 1816, come riferisce il Mozzi. L’iscrizione funeraria, su lapide in pietra locale, “venne reimpiegata nelle fondamenta della torre campanaria” e reca scolpite le lettere “M.D”. L’interpretazione delle due lettere è ancor più stimolante: “la presenza della formula D(is) M(anibus) induce a proporre una datazione posteriore alla metà del I secolo d.C.”, si scrive nella Carta archeologica del Veneto. “Agli dei Mani”, quindi, come avevano scritto molti studiosi; iscrizione chiaramente collegata alla religiosità del Summano e ad una probabile ara o tempio nella vetta. Fa certamente sorridere che tale lapide sia oggi cementata dentro un edificio cristiano, quasi a negarne l’esistenza (era però una pratica perseguita fino a 50anni fa), ma finalmente, per quanto non visibile, l’iscrizione non è andata persa, c’è. Esiste sì, ma non si può abbattere un campanile, o la canonica, come altri sostengono, o, nell’incertezza, entrambi. La lapide, in pietra locale venne rinvenuta in un colle sopra a Piovene, quindi nelle pendici del Summano (Sommo degli dei Mani).
Nel 1650, Jacopo Giordani, stanco di “leggere leggende”, o mezze verità sul mitico tempio del Summano, decise di fare degli “scavi presso le fondamenta delle antiche rovine”. Non si sa dove abbia scavato e che cosa rimanesse del tempio nella metà del 1600; don Giordani rinvenne “ossa, ceneri, e medaglie (sta per monete antiche, n.d.r.) molte”. Nel 1812, il Mozzi affermò (”Cenni storici”) di avere visto sia le fondamenta, che parte del tempio.
Il tempio, tutti sono concordi, se mai sia sorto, doveva essere nella gobba di sinistra del monte Summano, la più alta (1299 metri) dove oggi giganteggia la croce. In una antica mappa del 1652 con perizia vengono disegnate le due gobbe del monte e sopra quella di sinistra compare la scritta:” Hic erat olim Summano fanum” (qui un tempo sorgeva il tempio al dio Summano). C’è da dire che proprietario della mappa fu il Giongo che la pubblicò in suo libro. Non si conosce la provenienza. Proprio per installare quel colosso di cemento, nel 1932, in sostituzione di una scrostata croce lignea, si dovette costruire un basamento scavando la cima per ben 6 metri. Il racconto del Rando è preciso ed importantissimo: si tratta della prima vera notizia di uno scavo recente, per quanto non con finalità archeologiche. Questo non inficia le prove in quanto tali, anche se le priva di tutto un “contesto archeologico”: la stra-tigrafia, la profondità, le intrusioni di altre epoche/strati, la posizione. Il mero dato archeologico, però, esiste. Ebbene: “Vennero portate alla luce, ossa di molte varietà di animali, anche ossa combuste (antichi sacrifìci, o meri resti di pasto?) tra cui lupo e cinghiale, medagliette e molti cocci di vaso”, tutto questo nella cima da tutti indicata come “il” sito dell’antico tempio a Zeus. Purtroppo non si sa dove sia finito tale materiale; con le attuali conoscenze archeologiche basterebbe anche un rapido sguardo alla tipologia dei cocci di vaso, per comprenderne l’epoca e forse la destinazione d’uso. Quelli descritti dal Rando probabilmente erano veramente resti di antichi rituali.
Ancora una volta, un velo d’ombra impone il condizionale: potrebbe trattarsi di reperti legati proprio al tempio del Summano, ma esistono anche altre possibilità. Nella favolosa raccolta (privata) del Cibin di Schio, esistono numerosissimi reperti rinvenuti sulla cima del Summano: monete romane e reperti “premonetali”, un “Filippo l’Arabo” d’argento, denti di cervo e di cinghiale traforati, asce cultuali e d’uso in rame, embrici romani bollati, frammenti fittili con sigle pseudo alfabetiche, e decine di vasi, o cocci di vaso che vanno dal 2500 a.C., sino all’epoca romana. Il Cibin è morto e la collezione è impenetrabile: vani i rapporti tra la Sovrintedenza di Padova e gli eredi, per la vendita. Il Rando nella sua “Storia di Chiuppano” cita anche un “tempietto alle Ninfe Auguste, una iscrizione votiva, ora al lapidario vicentino ed un monumento funerario di Caio Vario Prisco”.
Conclusione
Rutz, Pirocca, Koziovic, che non sono certo degli sprovveduti, nel 1978 pubblicarono un testo fondamentale: il già citato “Santorso romana”, l’unico studio che contenesse un capitoletto autonomo, per quanto di due pagine, sul tempio pagano del Summano. Attentissimi al dato documentale ed archeologico, i tre studiosi, per quanto concene “il tempio del Summano”, reputano “che esista una serie cosi numerosa di reperti da non far escludere la presenza di un tempio, od altro edificio pagano, sulla cima del monte Summano”. Questa ci sembra la sintesi più pacata e saggia. E così, a conclusione di questa estenuante ricerca vuoi libresca, vuoi archeologica, siamo tornati al punto di partenza, all’incertezza dell’inizio anche se questo “viaggio” ci ha mostrato molte cose e ci ha notevolmente accresciuti. Nessuna certezza sull’antico tempio e sul capro, o toro dalle coma d’oro massiccio, molti dubbi, ma anche parecchie disarmanti prove. Mai risolutive. Di certo, però, “qualcosa” c’era sulla cima del monte e qualcosa legato al culto, lo si evince dagli scritti, dalle prove e da una millenaria leggenda, stratificata che non può essere sorta così dal nulla. Simeone Zordan (”Da Thiene longobarda, a Padova longobarda”, Duomo ed.) si oppone drasticamente a quasivoglia ipotesi di templi pagani, dei Stigyi & affini, però conclude il suo testo con una riflessione:” E’ pur vero che il Monte Summano è il luogo ove la fantasia popolare si è sbizzarrita più di ogni altra parte”. Chiediamoci il perché di questo primato della leggenda e del Mito, proprio sulla vetta del Summano.
Certo la leggenda è una rivolta ad una storia spesso piatta, grigia, monotona, ordinaria. Al popolo poco piace la realtà storica, mentre colpiscono molto di più i fatti grandiosi, spettacolari, teatrali ed alcuni storici certamente con questa leggenda hanno giocato, ingigantendo le meraviglie del Summano.
Qualcuno ha prospettato che nella cima ci fosse semplicemente un luogo di culto, un locus sacer, un punto sommitale che poteva attrarre genti da tutta Italia, non necessariamente fornito di un grande un tempio. Poteva esserci un piccolissimo saccello, od anche una roccia con una certa strana conformazione, od anche una pianta millenaria, perché no (si legga nelle notizie curiose il cipresso di Santorso del 1850)? Di certo la cima del monte fu abitata e per lungo tempo. Lo attestano i soli rinvenimenti numismatici: le innumerevoli monete scoperte che abbracciano un periodo che va dalla metà del II secolo a.C, a tutto il IV secolo d.C. Il De Bon prospetta che nella cima del monte vi fosse una stazione militare alpina romana, strettamente collegata al famoso castrum scoperto ai piedi del monte (ove oggi sorge il centro commerciale Campo romano). Forse per un certo periodo, prima dell’avvento del Cristianesimo e in parte anche dopo, calcolando attardamenti locali, la cima del monte costituì un punto magico/sacro di preghiera per dei soldati. Forse successivamente il culto locale si estese alla popolazione e si allargò fuori dall’Altovicentino..
E scaviamoci su
E la dura dolomia trattiene ancora i suoi segreti e non li “molla”, ma anche la dura dolomia non può resistere alla nuova archeologia, ai nuovi sofisticati metodi di ricerca. Perché una volta per tutte, non si effettua una seria campagna di scavi nella cima, o nell’avvallamento tra le due cime, per conoscere finalmente il segreto del Summano? Basterebbe solo la volontà materiale: con le foto dall’aereo, dal satellite, con i raggi infrarossi, foto in possesso della Sovrintendenza Archeologica, dell’Università di Padova, del Centro ricerche archeologiche di Superfice diretto da Armando De Guio, già potremmo avere delle notizie importantissime. La prospezione “aerea” è la prima mossa. Ma nessuno si muove! Solamente uno sponsor potrebbe, di colpo, aprire il discorso-Summano; anche la meravigliosa fiaba del Summano, alla fin fine si riduce ad un mero discorso di soldi.
mercoledì 13 maggio 2009
Il palo totem sacro dei Sassoni
Irminsul era la quercia sacra ai Sassoni, albero del mondo, reggeva la volta del cielo e le ...
Irminsul è il pilastro cosmico degli antichi Celto-Germani, l'asse che sorregge il mondo
Occorre ricordare che il cosiddetto paganesimo era vivissimo fino alla metà del Medioevo. Solo nel 772 Carlo Magno fece distruggere con il fuoco l’antichissimo e sacro idolo del sommo Dio “Irminsul”( Irminsul era la quercia cava posta nel santuario, sacra ai Sassoni, albero del mondo, reggeva la volta del cielo e le ...
Irminsul è il pilastro cosmico degli antichi Celto-Germani, l'asse che sorregge il mondo, quindi il fondamento di tutta la manifestazione della Vita)
. Questo termine forse sta a indicare la colonna d’arminio o Herman, il capo dei Cheruschi che in una battaglia della selva di Teutoburgo, nell’Assia. Il 9 d.C. distrusse per intero un esercito romano di 3 legioni, guidato da P. Quitiliano Varo, fermando cosi per sempre la penetrazione romana nel cuore della Germania. L’idolo del Dio “Irminsul” era un enorme tronco d’albero in forma di sacre colonna ,l’albero come il palo, che in tutte le tradizioni veniva innalzato, su di esso venivano scolpite figure o simboli specifici,era ne più ne meno che un totem a difesa e protezione del villaggio o del pagus. Era venerato quale feticcio di fede e di unione nazionale dai Sassoni, ultima popolazione germanica ancora pagana e idolatra . Ci vollero 32 anni di guerra e 18 spedizioni belliche contro la potentissima confederazione sassone,guidata da Witichind, che comprendeva, tra il Reno e l’Elba, nella Germania Centro-Settentrionale, le grandi tribù dei Westfali, engri, Ostfali e Albinigi. Il capo Witichind venne catturato e fu per prima cosa battezzato cristianamente nel 785, ma le ostilità non cessarono e con varie successive insurrezioni, questi popoli tentarono una disperata difesa. Le rivolte furono ferocemente represse con carneficine di inaudita violenza con enormi massacri che gli storici definirono bagni di sangue. I superstiti furono forzatamente cristianizzati nell’804 e tutto il territorio della Confederazione Sassone incorporato nel regno dei Franchi , entrò così a far parte dell’Impero Carolingio.
I Sassoni, organizzati secondo il primitivo e antico costume dei germani non cristianizzati, conservavano la religione Odinica, quella legata a Odino o Wothan, ricca di tradizionali elementi spirito-aminici dell’antico sciamanesimo.
Sul perdurare delle religioni amminico-naturalistiche definite come “pagane”e “paganesimo” in generale ci sarebbe da aprire un grande dibattito. Nei Monti della Lessinia (ubicata pressoché in provincia di Verona) , e come altre zone montane che rimasero isolata. il paganesimo riuscì a sopravvivere e convivere fino alla prima grande Guerra Mondiale che spinse verso un’accelerazione sociale e iniziando quella globalizzazione e uniformità che appiattirà le culture locali ed estirperà definitivamente la spiritualità sciamanica, le feste, i riti e le liturgie di un mondo arcaico che non solo ricercava l’anima degli uomini e nelle cose, ma toccava e riusciva a penetrare negli altri infiniti mondi. Questa società che ci innonda di “beni” quasi sempre inutili se non dannosi, ci induce alla disperazione. Non arriverò a vedere il definitivo cambiamento, ma sono certo che ormai è iniziata una nuova era che rivaluterà lo sciamanesimo vero, non da baraccone, e il ritorno alle religioni dei padri.
lunedì 11 maggio 2009
Evola visto da sinistra
In Evola vi è un altro aspetto molto interessante che si manifesta nella prime e nelle ultime tappe della sua vita. Lo si qualifica a volte come “anarchismo di destra” che è evidente nelle sue opere artistiche di gioventù e soprattutto in “Cavalcare la tigre”. Contemporaneamente la sua posizione antiborghese coerente e permanente lo isola considerevolmente dalla Destra convenzionale occidentale. D’altra parte anche in seno alla Tradizione egli fu sempre attratto dai domini poco consueti che rientrano più o meno nella prospettiva della Via della Mano Sinistra. Indubbiamente, nell’insieme dei suoi scritti è molto saliente ciò che si potrebbe tentare di chiamare la “sinistra” del messaggio evoliano. L’anticonformismo totale verso la realtà moderna occidentale, la contestazione radicale dei valori borghesi avvicinano Evola a certe branche della sinistra. Questo fenomeno non è la manifestazione della sua natura personale. Vi è qui un lato sintomatico estremamente importante. La Rivolta evoliana contro il mondo moderno possiede degli aspetti distruttivi come ogni rivolta, d’altronde. Il suo radicalismo intransigente lo spinge alla rottura con il conservatore abituale che difende per inerzia i valori di ieri contro i valori di oggi. Per Evola lo “ieri” non del tutto ideale. Il suo orientamento va molto più lontano, verso il mito primordiale, verso l’Iperborea perduta, verso la Trascendenza, verso l’Eterno Presente. Questa ricerca dell’assoluto qui e ora obbliga a superare i limiti convenzionali e anche a sgretolare le forme secondarie della Tradizione adattate al kali-yuga. Evola non accetta una parte del Sacro, lo vuole Tutto, immediatamente. Questa Rivolta gli fa prendere posizioni “anarchiche”, contestare la legittimità delle forme tradizionali svuotate di ogni vita. E’ d’altronde la posizione autentica dell’adepto dei Tantra, quella che egli spiega perfettamente ne “Lo Yoga della Potenza”. Ma paradossalmente la stessa antinomia è propria alla corrente della sinistra radicale e la fenomenologia esistenziale ed estetica delle due rivolte, per quanto differenti, le unisce in un certo caso quasi perfettamente. La rivoluzione, la guerra, la crisi, il ribaltamento sociale provocano sempre un trauma profondo che necessariamente obbliga l’essere umano a incontrare la realtà ontologica profonda che supera i cliché profani della vita “normale”. Ernst Juenger, al quale Evola si interessò molto, sviluppò nei suoi romanzi e scritti politici questo problema del reincontro dell’uomo moderno, profondamente alieno, con la realtà superiore nella situazioni di crisi estrema. D’altronde, Evola attraversò egli stesso dei periodi di crisi personale al limite del suicidio. Dunque la sete dell’assoluto è in logico rapporto con le esperienze “negative” e talvolta anche “antinomiche”. Queste considerazioni spiegano anche l’interesse di Evola per certi personaggi giudicati dagli altri tradizionalisti (Guénon, Burkhardt, etc.) nettamente “contro-iniziatici” - Alister Crowley, Giuliano Kremmerz, Gustav Meyrink etc. A sinistra, soprattutto all’estrema sinistra, si ritrova facilmente il medesimo complesso, la stessa passione, la stessa esaltazione dell’esperienza traumatica e nello stesso tempo lo stesso ifiuto del conformismo, la stessa avversione viscerale in rapporto alle norme e alle convenzioni, la stessa rivolta contro l’abituale. D’altra parte, la cultura ideologica della “sinistra rivoluzionaria” non è priva di accostamenti esoterici che a volte sono gli stessi come nel caso dei tradizionalisti e della “rivoluzione conservatrice“. Citiamo a titolo di esempio Theodore Reusse, attivista di sinistra e iniziatore alla massoneria dello stesso Guénon! Il lato “sinistro” di Evola richiama il paradosso politico della Russia attuale dove i neocomunisti, antiliberali fanno fronte comune con i conservatori russo-ortodossi. Cosa che si può anche pensare di certi aspetti del bolscevismo russo storico in cui si sono sviluppate per vie eterodosse e contraddittorie le tendenze profonde della sacralità russo-ortodossa - l’avversione per il mondo occidentale borghese, la ricerca del Regnum, i fattori escatologici, l’esperienza diretta, rivoluzionaria e immediata della Verità. Più ancora, vi erano all’alba della corrente comunista russa accostamenti esoterici estremamente curiosi con i rappresentanti delle correnti spirituali locali ed europee. Si può dire che tra Evola e la Russia esistono non solo le corrispondenze a livello di corrente ideologica “conservatrice”, “di destra”, ma anche certi lati della “sinistra” russa, nella sua dimensione profonda e paradossale, possono essere comparati con gli scritti di Evola e anche chiariti grazie al suo metodo di ricerca della struttura dei fenomeni traumatici. Il fatto stesso che il comunismo abbia vinto nel paese più conservatore e più tradizionalista d’Europa ci obbliga a rivedere gli schemi abituali conservatori a proposito della natura profana e moderna del comunismo, come tappa avanzata della degrado dell’attuale civiltà. D’altronde, le previsioni dei conservatori e contro-rivoluzionari (come Léon de Poncin) concernenti la necessità della vittoria della quarta casta proletaria in tutto il pianeta sono smentite dal trionfo attuale della civiltà borghese (presunta terza casta) nella Russia postsovietica. Lo stesso Evola commise il medesimo errore accettando la posizione radicalmente antisocialista e anticomunista, propria dei conservatori reazionari con i quali, a livello metafisico, egli era in pieno disaccordo, dovuto alla differenza profonda tra la Via della Mano Sinistra che gli era propria e la Via della Mano Destra che (a volte) indirettamente e parzialmente ispira i conservatori convenzionali. In altri termini la “sinistra metafisica” in Evola non ha potuto trovare la manifestazione dottrinale coerente a livello politico e il lato “anarchico” ed “esoterico” restano in qualche modo sovrapposti assai contraddittoriamente alla sua fedeltà alla “reazione” politica. Lo stesso equivoco esiste nelle sue relazioni col fascismo e col nazional-socialismo dove egli criticava l’aspetto politico di sinistra e contemporaneamente tentava di rafforzare l’aspetto “metafisico di sinistra” (insistendo ad esempio sul paganesimo contro le relazioni con il Vaticano). La storia politica degli anni 80-90 mostra che il comunismo non era l’ultima forma di decadenza della caste. Dunque Evola aveva torto nel predire la vittoria dei sovietici e di conseguenza di prendere la posizione radicalmente anticomunista e di non riconoscere il lato paradossale e in qualche modo tradizionale della Rivoluzione. Malgrado il suo interesse particolare per “L’Operaio” di Junger, Evola ha falsamente identificato, seguendo la logica della Destra non rivoluzionaria, le caste tradizionali con le classi della civiltà occidentale. A questo proposito, si può richiamare l’avvertimento estremamente importante di George Dumezil riguardante il fatto che nella società tradizionale indoeuropea, dunque ariana, i lavoratori appartengono alla terza casta e non alla quarta. Oltre a ciò, i mercanti, (cioè i proto-capitalisti) non appartengono del tutto al sistema delle caste in tale società e tutte le funzioni di distribuzione dei beni e del denaro sono stati appannaggio dei guerrieri, degli kshatryas. Ciò significa che la classe dei mercanti non corrisponde assolutamente alla struttura della società ariana ed è storicamente sovrapposta ad essa con la mescolanza culturale e razziale. Dunque la lotta antiborghese dei socialisti possiede implicitamente la dimensione tradizionale e indoeuropea, cosa che spiega perfettamente le tendenze “antigiudaiche” (addirittura antisemite) di un gran numero di teorici socialisti a partire da Fourrier, Marx e fino a Stalin. Questa considerazione mostra la giustificazione dell’elemento socialista (e pure nazional-comunista) nelle correnti della Rivoluzione Conservatrice - specialmente in Spengler, Sombart, van den Bruck, Junger e fino a Niekisch. E’ fuori di dubbio che con questo ambiente tedesco d’anteguerra Evola aveva ottime relazioni intellettuali, cosa che ahimè, non lo ha aiutato a sfumare le sue posizioni e a rettificare le sue vie dottrinali e tradizionaliste. Questa contraddizione in Evola è notevole se si confrontano “Orientamenti” e “Gli Uomini e le Rovine” da un lato, e “Cavalcare la Tigre” dall’altro. “Evola di sinistra” non è ancora scoperto e riconosciuto. Ma ancora una volta - la Russia e la sua storia conservatrice e rivoluzionaria, paradossale e rivelatrice, antica e moderna ci aiuta a comprendere Evola nelle sue idee esplicite e soprattutto il senso implicito del suo messaggio che rimane da scoprire e assimilare. Non solamente in Russia, ma in questo ultimo aspetto anche in Occidente.
Su GIULIANO IMPERATORE
Nella trasmissione televisiva di venerdì 17 giugno 2005 sui templari (Canale 5, h. 23,40) emergeva la seguente domanda: come mai nella Basilica di Acerenza - famoso luogo che assieme a Banzi e a Forenza formava un importante triangolo geografico al tempo dei templari - al posto della croce c'è la statua dell'imperatore romano Giuliano l'Apostata?
La domanda è rimasta senza risposta. Però è stata almeno formulata. E questo fatto non è solo segno di vita del pensiero, ma anche il verificarsi di una lucidissima e massimamente concreta preveggenza di Rudolf Steiner, fatta in clima di prima guerra mondiale con le seguenti parole di una conferenza del 1917: "Viviamo in un'epoca che non si riuscirà a superare in modo sano, se non si comprenderà in modo nuovo che cosa mai volesse uno spirito come Giuliano l'Apostata"(1).
In genere si parla di Giuliano in modo pedantescamente cattolico, cioè in quanto avversario dei cristiani. Ma col passare di questo tempo di malattia del pensiero (pensiero debole, o quasi morto), e nella misura del suo progressivo risanamento, si scoprirà sempre più che molti cosiddetti apostati, eretici, o non conformi alle dottrine confessionali, furono in realtà mossi da reale spirito evolutivo cristiano.
"Prepara in ogni città numerosi ospizi" - scriveva Giuliano l'Apostata in una lettera ad Arsacio, gran sacerdote della Galazia - "affinché gli stranieri possano godere della nostra filantropia, cioè non solo i nostri correligionari, ma anche tutti gli altri che ne hanno bisogno... Perché sarebbe una vergogna, visto che nessuno dei giudei deve andare a mendicare, e che i galilei senza Dio [così Giuliano chiamava i cristiani] danno da mangiare non solo ai loro mendicanti, ma anche ai nostri, che la nostra gente dovesse rimanere senza assistenza davanti agli occhi di tutti".
Questo "apostata" era rimasto talmente impressionato dalla disposizione alla carità dei "galilei senza Dio" da volere a tutti i costi cercare di imitarli. Un simile fatto è paragonabile a quello in cui un rinnegatore di una certa idea, poniamo la sovranità monetaria, si mettesse a imitare l'agire di coloro che cercano di attuarla attraverso il finanziamento della giustizia contributiva o "tzedakà". Sarebbe un po' come se manipolatori di capitali come Ciampi, Fazio, Prodi, ecc., adottassero il "denaro a tempo" per un sistema economico favorevole all'uono (sabato per l'uomo) imitando coloro che negli anni '20 e '30 avevano concepito il cittadino come dovrebbe in realtà essere: azionista del patrimonio inventivo e produttivo del proprio Paese(2)!
Ma torniamo a Giuliano l'Apostata. L'interiorità di Giuliano intuiva che i problemi del male e del peccato originale, e dunque dell'incarnazione dell'entità Cristo nell'umanità di Gesù di Nazaret come risoluzione ad essi, dovevano essere affrontati in modo più profondo. Egli avrebbe voluto perciò "cercarne la soluzione in un'iniziazione persiana che poi intendeva trasferire in Europa" (ibid.) continuando così la spiritualità del persiano Manes (o Mani), 216-277 d.C., convertitosi ad una disciplina di vita, che vedeva come scopo dell'uomo il separare in se stesso l'io divino dall'io demoniaco. Però nella spedizione persiana, Giuliano l'Apostata cadde assassinato, e tale assassinio avvenne - come è percepibile alla luce della storiografia moderna - "per mano di un seguace dei cristiani costantiniani" (ibid.), quindi della religione cristiana "di Stato".
[Ovviamente, i sudditi della tradizione cattolico-politica della menzogna non possono che essere detrattori di ogni ricercatore di fatti storici non conformi alla storiografia di regime. Vedi per esempio l'affermazione del "suddito" Richard Knight che afferma "Mamma mia!!! Qua proprio non ci siamo!!! Ma questo Nereo Villa si è bevuto il cervello???".
Dall'opera di Giuliano Kremmerz
kremmerz in - La Morte-
: « io credo alla resurrezione della potenzialità del pensiero pitagorico. - La Pizia, il Pitone, la Spira elicoidale che prende nascenza nell'astrale dell'Italia vetusta e assurge all'imperio della coscienza universa, - e credo a questa missione pitagorica italica come il segno di un rinascimento filosofico, scientifico e artistico. (...)
La fine di un mondo può essere la morte di tutta la rancida vecchiaia, sommersa da un ringiovanimento di luce e di pensieri che, sorti dai sepolcreti fatidici, riprendono la missione già anticipata, e rinnovano, rigenerano idee e visioni del mondo esteriore».
sabato 9 maggio 2009
Il serpente e la sirena
Pieve di S. Pietro a Gropina Sirena
"Il mistero è sotto casa!"
Con una frase da giallo, Ernesto de Martino descriveva le atmosfere magiche dei miei paesi lucani (così vicini alla sua austera università nel cuore di Napoli) dove, al calar della sera, le nonne raccontavano ai bambini storie di magia nera, di fate buone, di trucchi per allontanare il malocchio, di riti del Sabato Santo o del Natale.
Che mi rimane di quell'infanzia immersa in una mitologia tutta speciale? Il preziosissimo ricordo, e una strana forma di leggero amore che mi porta a curiosare tra queste leggende, come a riavvicinare il mio mondo razionale in cui tutto è o morto o chiaro, a quel magico, a quella vita nascosta in ogni oggetto. Ha un nome, questo: nostalgia...
Forse succede anche a voi, ora che forse non andate piu' a caccia della solitudine misteriosamente esotica delle vostre splendide campagne, di capitare in una vecchia pieve, e guardarne il mistero, incuriositi, dolcemente riverenti, come forse lo siete per il grosso seno delle vostre nonne, dove ancora si nascondono immagini primitive, le prime che la vostra fantasia di bambini ha creato sull'onda delle loro fiabe.
Forse sto fantasticando, ma mi sembra di aver letto questo amore nelle pagine che Silvio Bernardini, scrittore e documentarista, ha offerto alla silenziosa maestà delle pievi toscane. Un amore forse nato da una passeggiata alla pieve di Corsignano in una sera estiva, chissà... Il libro si intitola "Il serpente e la sirena. Il sacro e l'enigma nelle pievi toscane" e vorrei parlarvene, perchè l'ho trovato davvero bello: l'interpretazione razionale si univa all'emozione, come succede ad un bambino quando, da grande, capisce la logica dietro allo scherzo sepolto nella memoria che la nonna gli sottoponeva negli anni della sua infanzia...
Ma comunque, oltre alla cifra poetica, trovo nel libro anche argomentazioni interessanti, a cui poi mi sento particolarmente vicina, per curiosità ed interesse, argomentazioni di cui vi proporrò un breve assaggio.
Le pievi sono un fenomeno di cultura contadina che attraversò l'Italia nel bel mezzo dei secoli bui, tra il VII secolo e l'anno 1000. Queste piccole chiese diventarono un centro di gravitazione per piccole comunità contadine, che si riconoscevano nel messaggio evangelico. Tuttavia, in un periodo storico in cui le comunicazioni e i contatti erano difficili, esse assorbirono le tradizioni locali. Questo, in particolare in Toscana. Silvio Bernardini ha esaminato molte delle pievi toscane, scoprendo dietro alle ristrutturazioni e ai rimaneggiamenti, con sorpresa, un linguaggio del sacro del tutto "sui generis", spesso in totale contrasto con la dottrina cattolica ortodossa, trasmesso da ogni decorazione e dettaglio all'interno della chiesa e basato essenzialmente su quattro simboli:
1) il serpente
2) la vite
3) varie rappresentazioni falliche
4) sirene bicaudate, la cui posizione e la cui analisi rivelano che dietro a questo simbolo c'è in realtà la donna nella sua funzione di madre e custode della sapienza.
E poi spirali, alberi di vita, maschere magiche...
Secondo Kereny, questi quattro simboli erano in realtà caratteristici delle "religioni dionisiache", fiorite nell'area del Mediterraneo, i cui capisaldi erano i culti degli antenati (di cui il serpente è il tramite), il ciclo di vita e morte e del ruolo che in questo hanno l'uomo e la donna (di cui i miti di Dioniso e Demetra sono rappresentazione), la trasmissione della sapienza agricola, di cui le donne sembrano essere state portatrici, la Dea Madre, che è poi la Terra, che è poi la donna, la necessità di un rapporto di riverente armonia con la natura. Una cultura, questa, che affonda le radici direttamente nella tradizione etrusca, e che fu cancellata quando, con l'anno 1000, le città assoggettarono il contado, distrussero villaggi e case, bruciarono molte di queste chiese contadine e ristrutturarono con linguaggi idonei alla nuova autorità politica quelle rimaste. Di questa cultura non è rimasta traccia negli scritti ufficiali, perchè miseramente perdente e non scritta. Ma vive, tutt'ora, nei miti e nelle tradizioni che si animano ancora intorno a queste pievi. Silvio Bernardini si sforza di ricostruirla, con un lavoro a metà tra l'etnografia, la storia dell'arte e la psicologia delle religioni. Ne nasce un viaggio affascinante ed esotico tra gli archetipi della nostra cultura, in un mondo in cui tutto è magico, ma tutto ha un significato, e l'orologiaio cieco non esiste: esiste solo una madre, una natura dal sapore benevolo, sereno - un'atmosfera lontana dalla celebrazione della sofferenza e del dolore tipico del simbolismo religioso successivo - dove sapienza, nutrimento, amore materno, mistero, morte e vita sono concetti continui, intrecciati dal loro essere natura e vita nella natura.
A me questo libro è piaciuto molto, mi ha raccontato teorie antropologiche interessanti, ed allo stesso tempo mi ha fatto sentire la dolcezza di un caldo affetto per queste chiese millenarie, ancora in piedi, come rispettate dal tempo. Mi propongo di andare a visitare la pieve di Corsignano quando mi recherò di nuovo da quelle parti, magari dopo aver colmato un po' della curiosità che questo libro mi ha messo addosso con qualche altra adeguata lettura...
Purtroppo ho trovato poche foto su Internet che possono farvi capire di che il libro esattamente parla. Spero che quelle segnalate vi possano dare un'idea.
Teresa
Dettagli del libro:
"Il serpente e la sirena. Il sacro e l'enigma nelle pievi toscane"
di Silvio Bernardini
2005, Editrice Don Chisciotte,
Via D. Alighieri, 51a, 53027 S. Quirico d'Orcia (SI)
www.donchi.com
lunedì 4 maggio 2009
I templari adoravano l'immagine di Cristo
Il cranio che sembra sia della Maddalena. Forse un possibile "Bafomet" templare
CITTA' DEL VATICANO : I TEMPLARI ADORAVANO LA SINDONE
07 Aprile 2009 -
«L'idolo per cui furono condannati era Cristo»
CITTÀ DEL VATICANO - Ora lo sappiamo: i Templari, in effetti, adoravano un
«idolo barbuto». Però non era Bafometto, come volevano gli inquisitori che
li processarono per arrivare a sciogliere nel 1314 l'ordine più potente e
illustre del medioevo cristiano, il «grande complotto innescato nel 1307 dal
re di Francia Filippo IV il Bello». E non era neanche un idolo, in verità,
per quanto senza dubbio fosse barbuto: l'oggetto della loro venerazione era
la Sindone, il telo di lino che secondo la tradizione avvolse il corpo di
Gesù e ne reca impressa l'immagine. Furono i Cavalieri a custodire in gran
segreto la Sindone nel secolo e mezzo in cui se ne perdono le tracce, dal
saccheggio di Costantinopoli del 1204 alla ricomparsa in Europa a metà del
Trecento. Si tratta di argomenti sui quali fioccano le bufale e il 99 per
cento di ciò che si racconta, Umberto Eco docet, è «spazzatura».
Ma qui la fonte è più che affidabile: lo scrive l'Osservatore Romano,
anticipando alcune pagine de «I templari e la sindone di Cristo», il nuovo
libro di Barbara Frale che il Mulino pubblicherà entro l'estate. L'autrice è
una giovane e serissima ricercatrice dell'Archivio segreto vaticano che da
anni studia e scrive dei Templari. Attingendo ai documenti del processo,
cita tra l'altro la testimonianza della «prova d'ingresso», nel 1287, di «un
giovane di buona famiglia del meridione francese», Arnaut Sabbatier: «Il
precettore condusse il giovane Arnaut in un luogo chiuso, accessibile ai
soli frati del Tempio: qui gli mostrò un lungo telo di lino che portava
impressa la figura di un uomo e gli impose di adorarlo baciandogli per tre
volte i piedi».
Nel 1978 fu lo storico di Oxford Ian Wilson, ricorda la studiosa, il primo a
sostenere la tesi che il misterioso «idolo» barbuto dei Templari fosse in
realtà il telo rubato dalla cappella degli imperatori bizantini nel 1204,
durante la quarta crociata, e che i Cavalieri l'avessero custodito in
segreto. Ora Barbara Frale spiega di aver trovato «molti tasselli mancanti»
a sostegno della teoria. Fonti inedite che spiegano anche le ragioni
dell'adorazione e della segretezza. «I Templari si procurarono la sindone
per scongiurare il rischio che il loro ordine subisse la stessa
contaminazione ereticale che stava affliggendo gran parte della società
cristiana al loro tempo: era il miglior antidoto contro tutte le eresie»,
scrive. «I catari e gli altri eretici affermavano che Cristo non aveva vero
corpo umano né vero sangue, che non aveva mai sofferto la Passione, non era
mai morto, non era risorto». Che l'avessero trafugata i Templari o fosse
stata comprata, doveva rimanere celata: sui responsabili del saccheggio
pendeva la scomunica di Papa Innocenzo III. Ma era una reliquia potente e ne
valeva la pena: «L'umanità di Cristo che i catari dicevano immaginaria, si
poteva invece vedere, toccare, baciare. Questo è qualcosa che per l'uomo del
medioevo non aveva prezzo».
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