L’epidemia di danza del 1518
Cinquecento anni fa a Strasburgo imperversava una strana mania. A
centinaia, i cittadini sono stati costretti a ballare per giorni,
apparentemente senza motivo e come in trance, fino all’incoscienza, o,
in alcuni casi, alla morte
Su un palco costruito frettolosamente
vicino all’affollato mercato dei cavalli di Strasburgo, decine di
persone ballano al ritmo di trombe, tamburi e corni. Il sole di luglio
batte sulle loro teste mentre saltano qua e là, girano in tondo e
piroettano follemente. Da lontano potrebbero sembrare i protagonisti di
un carnevale, ma un esame più attento rivela una scena decisamente più
inquietante: le loro braccia si flagellano e i loro corpi sono in preda a
spasmodiche convulsioni. I vestiti sono stracciati e le facce,
distrutte, grondano sudore. I loro occhi sono come di vetro, appaiono
assenti. C’è del sangue che scorre copioso dai piedi gonfi agli stivali
di pelle e sugli zoccoli di legno. Non si tratta di ballerini ma di
“coreomaniaci”, persone interamente possedute dalla mania della danza.
Si trattò della cosiddetta coreomania, una vera e propria mania che
tormentò la città di Strasburgo per oltre un mese a metà dell’estate del
1518. Conosciuta anche come “peste danzante”, fu la più fatale e meglio
documentata delle oltre dieci epidemie simili scoppiate lungo il Reno e
la Mosella sin dal 1374. Ci sono numerose testimonianze dei bizzarri
eventi che si svolsero durante l’estate, diffuse in documenti dell’epoca
e cronache raccolte nei decenni e nei secoli successivi.l medico e
alchimista Paracelso visitò Strasburgo otto anni dopo la peste e rimase
affascinato dalla malattia. Secondo il suo Opus Paramirum, in
concordanza a varie cronache, tutto è iniziato con una donna. Frau
Troffea aveva iniziato a ballare il 14 luglio nell’angusta strada
acciottolata fuori dalla sua abitazione. Per quel che si sa non aveva
alcun accompagnamento musicale, ma semplicemente “cominciò a ballare”.
Ignorando le suppliche di suo marito di cessare, la donna continuò per
ore, fino a quando il cielo non si offuscò e lei crollò per la
stanchezza. La mattina dopo si alzò di nuovo sui piedi gonfi e iniziò a
ballare senza lamentare né fame né sete. Il terzo giorno, molte persone –
ambulanti, portinai, mendicanti, pellegrini, sacerdoti e suore –
godevano dell’empio spettacolo. La mania possedeva Frau Troffea da
quattro o sei giorni, finché le autorità, spaventate, la mandarono a
Saverne, a trenta miglia di distanza. Lì avrebbe potuto essere curata
presso il santuario di Vito, il santo che si credeva l’avesse maledetta.
Ma alcuni di coloro che avevano assistito alla strana esibizione
avevano già cominciato a imitarla, e nel giro di pochi giorni più di
trenta coreomane (afflitte da coreomania) erano già in movimento, alcune
così monomane che solo la morte avrebbe avuto il potere di fermarle.
Man mano che cresceva il numero di cittadini afflitti da questa
insolita piaga, più disperato diventava lo sforzo delle istituzioni per
controllarla. Il clero la riteneva opera del vendicativo San Vito, ma i
consiglieri ascoltavano piuttosto la corporazione dei medici, che
dichiarava la danza “una malattia naturale, che deriva dal sangue
surriscaldato”. Secondo la teoria umorale, gli afflitti dovevano di
conseguenza essere salassati. Ciononostante i medici raccomandarono
invece il medesimo trattamento che venne applicato in passato per le
vittime di questa stessa bizzarra patologia: dovevano ballare finchè non
fosse passata. Una cronaca del sedicesimo secolo, scritta
dall’architetto Daniel Specklin, documenta l’attività del consiglio. Ai
falegnami e ai conciatori fu ordinato di trasformare le sale della loro
corporazione in piste da ballo temporanee, e di “allestire piattaforme
nel mercato dei cavalli e del grano” accessibili al pubblico. Per
mantenere i malati in movimento e accelerare il loro recupero, decine di
musicisti vennero pagati per suonare tamburi, violini, tubi e corna,
con ballerini sani per apportare un ulteriore incoraggiamento. Le
autorità speravano di creare così le condizioni ottimali perché la danza
si esaurisse.
Il piano fallì miseramente. Essendo più inclini a una
spiegazione soprannaturale che medica, infatti, la maggior parte degli
spettatori vide nei movimenti frenetici delle danze una dimostrazione
della grandezza della furia di San Vito e non non considerandosi esenti
dal peccato, furono moltissimi a ritrovarsi attratti dall’assurda mania.
La cronaca della famiglia Imlin, per esempio, riporta che nel giro di
un mese la peste aveva colpito ben quattrocento cittadini.l consiglio
tornò sui suoi passi e ordinò di abbattere i palchi. Se i coreomaniaci
devono proprio continuare i loro movimenti inquietanti, che lo facciano
di nascosto. Il consiglio andò molto oltre vietando quasi tutti i balli
e bandendo la musica in città fino al settembre successivo. Certo, non
si trattava di un provvedimento da poco per una comunità per cui la
danza comunitaria era il centro della cultura dell’epoca – dai ballerini
che eseguivano i loro passi con eleganza nella cosiddetta bassadanza,
ai contadini carichi di birra che usavano saltellare per sfogare
l’ebrezza. Sebastian Brant, un cancelliere di Strasburgo autore de La
nave dei pazzi (1494), precisò che esisteva un’eccezione al divieto: “Se
qualcuno desidera ballare a matrimoni o alle celebrazioni della prima
Messa, in casa, può farlo usando esclusivamente strumenti a corda, ma si
raccomanda alla sua coscienza di non usare tamburelli e tamburi”. Gli
archi, quindi, erano considerati meno pericolosi, meno propensi a
stimolare la mania rispetto alle diaboliche percussioni noltre il
Consiglio ordinò che le persone più colpite fossero raggruppate in carri
e portate fino al santuario di San Vito dove inizialmente era stata
curata Frau Troffea, la prima a essere considerata infetta da questa
strana “peste”. I sacerdoti collocano i coreomaniaci, che
presumibilmente saranno ancora lì, convulsi come dei pesci spiaggiati,
sotto a una scultura in legno di San Vito, misero anche delle piccole
croci tra le mani e sulle scarpe rosse di sangue dei danzatori
indemoniati. Sulle scarpe, e persino sotto le suole, spruzzarono acqua
santa e dipinsero croci con ’olio consacrato. Questo rituale, svolto in
un’atmosfera densa di incenso e di incantesimi recitati in latino,
ottenne l’effetto desiderato: la notizia raggiunse presto Strasburgo e
molte altre persone furono inviate a Saverne per essere perdonate da
Vito. Nel giro di una settimana il flusso di pellegrini sofferenti si
era ridotto a pochi individui. La peste danzante, che durava da oltre un
mese, da metà luglio fino a fine agosto o inizio settembre, si era
esaurita. All’apice dell’epidemia morivano ben quindici persone al
giorno e se un bilancio esatto non è noto rimane il fatto che, se le
stime fossero corrette, il tasso di mortalità giornaliero avrebbe potuto
toccare svariate centinaia di deceduti.
Ma se non era colpa di un
santo vendicativo o del sangue surriscaldato, che cosa causò la peste
danzante? Secondo Paracelso, la maratona di Frau Troffea era uno
stratagemma per mettere in imbarazzo suo marito, il signor Troffea: “per
rendere l’inganno il più perfetto possibile, e dare davvero
l’impressione della malattia, saltò e cantò, rendendo il tutto più
umiliante per il marito”. Apparentemente, una volta notato che il trucco
aveva successo, anche altre donne cominciarono a ballare per
infastidire i mariti, stimolate da pensieri “liberi, lascivi e
impertinenti”. Questo tipo di mania danzante fu classificato da
Paracelso come Chorea lasciva (causata da desideri voluttuosi, “senza
paura o rispetto”), simile alla Chorea imaginativa (causata dalla
fantasia, “per rabbia e giuramenti”), e alla Chorea naturalis (una forma
molto più mite, motivata da cause corporali). Sebbene il celebre
iconoclasta Paracelso abbia il merito di aver posto la causa della
malattia nella mente dei coreomaniaci piuttosto che in cielo, egli era
così misogino che oggi la sua diagnosi appare quantomeno ridicola.
Diversi storici moderni hanno sostenuto che le piaghe danzanti
dell’Europa medievale furono causate dalla segale cornuta, una muffa
psicoattiva che si trova sui gambi di segale umida. La muffa può causare
convulsioni, sobbalzi e allucinazioni – una condizione nota anche come
St. Anthony’s fire . Tuttavia, lo storico John Waller ha sfatato
l’ipotesi della segale cornuta nel suo brillante saggio sulla peste
danzante, A Time to Dance, a Time to Die (Un tempo per ballare, un tempo
per morire) pubblicato nel 2009. Sì, la segale cornuta può causare
convulsioni e allucinazioni, ma limita anche l’afflusso del sangue alle
estremità: chi viene avvelenato dalla segale non è assolutamente in
grado di ballare per diversi giorni di fila.
La spiegazione di
Waller della peste danzante emerge dalla sua profonda conoscenza
dell’ambiente materiale, culturale e spirituale di Strasburgo del
sedicesimo secolo. Lo studioso apre il suo libro con una citazione da A
History of Madness in Six-century Germany (1999) di H.C. Erik Midelfort:
Le follie del passato non sono entità granitiche che possono essere
estratte dalle loro cave senza alcun mutamento, per essere sottoposte ai
nostri microscopi moderni. Sono, forse, più simili alle meduse, che
muoiono e si disidratano quando vengono rimosse dall’acqua del mare.
Secondo Waller, i poveri di Strasburgo sono stati colti da un’epidemia
di danza isterica. Innanzitutto, c’era un precedente: ogni peste
danzante europea tra il 1374 e il 1518 si era verificata nei pressi di
Strasburgo, lungo il confine occidentale del Sacro Romano Impero. Poi ci
sono delle condizioni ambientali: nel 1518 i cattivi raccolti,
l’instabilità politica e l’arrivo della sifilide avevano indotto uno
stato collettivo di estrema angoscia nella popolazione. Questa
sofferenza venne somatizzata e manifestata come una danza isterica. Le
persone possono essere straordinariamente suggestionabili e così fu
sufficiente una ferma convinzione nella vendetta di San Vito per
renderla reale e concreta. “Le menti dei coreomaniaci erano rivolte
verso l’interno”, scrive Waller, “gettate nei mari violenti delle loro
paure più profonde”.
un altro modo per chiarire la peste danzante è
considerare i casi di trance contemporanea: nelle culture di tutto il
mondo, compreso il Brasile, il Madagascar e il Kenya, nei periodi di
estremo stress le persone entrano in trance deliberatamente, spesso
durante delle cerimonie. Una volta in trance, la loro percezione del
dolore e della stanchezza è molto limitata. Waller descrive la
diffusione della peste danzante come un esempio di contagio psichico, e
fa un parallelo con l’epidemia di risate incontrollabili che ha travolto
una regione della Tanganica (l’odierna Tanzania) nel 1963. Successe che
una coppia di ragazze di una scuola locale furono contagiate dalle
risate, gli amici vennero contagiati cominciando a ridere anche loro,
fino a quando i due terzi degli alunni ridevano e piangevano in modo
incontrollato e l’intera scuola dovette chiudere i battenti. Ma una
volta a casa, gli alunni “infettavano” le famiglie e ben presto interi
villaggi erano afflitti dalle risate isteriche. I medici registrarono
diverse centinaia di casi, che duravano in media una settimana. Proprio
così, una settimana intera di risate.
Naturalmente, le piaghe
danzanti hanno un altro parallelo contemporaneo – la cultura rave. Anche
se di solito non ci sono i piedi sanguinanti e le richieste di aiuto
dei coreomaniaci del sedicesimo secolo, e anche se a volte ricopre un
ruolo l’effetto di sostanze stupefacenti, non è raro per i frequentatori
dei rave ballare per giorni interi, con brevi pause, rinunciando al
sonno e al cibo, a volte muovendo i piedi a ritmo, altre volte invece
saltellando a caso. Se una di queste persone – magari per via di una
“pozione magica del ballo” – venisse trasportata sul palco del mercato
equestre della Strasburgo di mezzo millennio fa, potrebbe non sentirsi
così fuori luogo. Anzi....
traduzione italiana di un articolo precedentemente uscito su Public Domain Review)
di Ned Pennant-Rea
1)Particolare di un’incisione del 1642 di Hendrik Hondius, tratta dal
disegno di Pieter Breughel del 1564 che ritrae i malati di un’epidemia
di danza che si verificò a Molenbeek in quell’anno.
2)Particolare della pittura basata sul disegno di Pieter Breughel di un’epidemia di danza che avvenne a Molenbeek nel 1564.