Alessandro Costantini*
Si Bondye vlé!: «Se Dio vuole». È la frase che punteggia, accompagna spesso i dialoghi in creolo degli haitiani. In creolo, perché è il creolo la vera lingua nazionale, la lingua materna della stragrande maggioranza degli abitanti dell’isola caraibica: non il francese, che pure assieme al creolo è la lingua ufficiale del Paese. Si Bondye vlé! può esprimere la sottomissione al destino o anche, nell’interpretazione di alcuni, un senso acuto della Provvidenza; per altri infine è una semplice formula di scongiuro per allontanare la cattiva sorte. Invece, si direbbe proprio che il Bondyé non sia esattamente il nostro «Buon Dio», come si sarebbe tentati di tradurre a prima vista. Di «Bon Dieu» parlavano sempre i missionari agli schiavi neri haitiani, per spingerli ad accettare una sorte che nulla aveva di buono: e se la lingua comune degli schiavi di allora e degli haitiani di adesso – il creolo – ha recepito la parola Bondyé per indicare la Divinità, l’Essere Supremo, il significato che gli ha attribuito non prevede la qualità reale e concreta della bontà.
È un Dio lontano, troppo lontano e troppo grande per occuparsi delle cose di quaggiù; un altro proverbio haitiano precisa del resto che «la matita del Buondio non ha la gomma»: cioè che quanto è stato scritto in cielo deve accadere comunque, quaggiù, e non può essere cambiato. È un Dio, insomma, cui non vale la pena di rivolgersi nel bisogno. Questa lontananza dell’Essere Supremo, per la spiritualità della religione tradizionale nazionale, è stata mirabilmente rappresentata nel più famoso romanzo haitiano: Signori della Rugiada (Gouverneurs de la Rosée, 1944) di Jacques Roumain, in cui fin dalla prima pagina troviamo: «la vecchia Delira (...) allora ripete: moriremo tutti, e chiama il Buondio. Ma è inutile, perché ci sono talmente tante povere creature che invocano il Buondio con tutta la loro forza, che ne esce un gran rumore fastidioso e il Buondio lo sente e grida: Maledizione, ma cos’è tutto questo casino? E si tura le orecchie. Questa è la verità, l’uomo è abbandonato».
L’Essere supremo nel vodù è chiamato Grand Maître, alla lettera «Grande Signore», cioè Signore Supremo, Onnipotente; tra lui e gli uomini ci sono però altre entità, a loro modo pure esse divine, anche se subordinate all’Essere Supremo: i loa olwa. È un intero Pantheon di divinità «minori» chiamate anche «angeli», «spiriti», «misteri», ma che in realtà sono le uniche a cui ci si rivolge concretamente; sono state create da Dio e il loro compito è quello di venire in aiuto agli uomini, di realizzare le loro preghiere: per il bene, generalmente, ma anche in taluni casi per il male.
È questo lo sfondo, il quadro generale dentro cui esiste e opera ad Haiti la religione del vodù, con i suoi fedeli, gli iniziati (hunsi di vario grado), i luoghi del culto (hunfo), le numerose e differenti cerimonie sacre, le sue credenze: una religione non centralizzata, senza un’ortodossia o un Libro (essendo fondamentalmente orale), che vive radicata sempre in una comunità raccolta attorno al suo capo religioso (gli hungan e le manbo), che cumula in sé le funzioni di sacerdote, guaritore, esorcista, mago, regista delle cerimonie.
Fin dagli inizi della colonizzazione francese di Haiti, gli schiavi neri sono stati oggetto delle attenzioni della Chiesa cattolica. La legge che regolamentava la schiavitù, il famoso Code Noir, promulgato da Luigi XIV nel 1685 e che riguardava Saint-Domingue (l’odierna repubblica haitiana) e le Antille francesi, era esplicito su questo punto: fin dall’inizio (articoli dal 2 al 9), il Code Noir prescriveva l’educazione degli schiavi nella stessa fede del sovrano francese ed era tutto improntato al rispetto della fede cattolica, di cui prescriveva l’insegnamento agli schiavi.
L’educazione religiosa degli schiavi era la giustificazione ideologico-teologica della schiavitù stessa. Anche se veniva ricordato che lo schiavo nero portato nelle colonie era – in teoria – già schiavo al momento del suo acquisto da parte del negriero, e non un uomo libero che il buon cristiano non avrebbe ridotto in schiavitù, la giustificazione ufficiale era quella religiosa; l’africano deportato, a ricompensa di una vita miseranda di fatiche, dolori e priva di speranza, in schiavitù avrebbe ricevuto il dono della fede: avrebbe potuto abbandonare la sua condizione di pagano e assicurarsi così la felicità ultraterrena dopo la morte.
Allo schiavo veniva dunque offerta e praticamente imposta la religione cattolica: ed essa rivestiva per lui un sicuro interesse, più di quanto importasse al suo padrone o di quanto questi potesse gradire i discorsi di fratellanza e uguaglianza nella fede. La religione del padrone risultava interessante, almeno in una certa misura, perché agli occhi dello schiavo appariva sicuramente potente, efficace, più delle credenze che facevano parte del suo retaggio africano. Prova ne era il fatto che i suoi dei nulla avevano potuto per proteggere lui, lo schiavo, mentre la religione del padrone aveva assicurato a quest’ultimo la vittoria. Tuttavia, invece di abbracciare la nuova religione, molti schiavi rimanevano all’interno delle credenze portate dall’Africa, ma integrandole con quanto di superiore, di più potente, la religione dell’uomo bianco sembrava offrire: è così che nasce il vodù haitiano e, analogamente, le altre grandi religioni sincretiche afro-americane: la santeria a Cuba e il candomblé in Brasile.
Il vodù è vissuto come «il sistema della forza», scrive Rénald Clérismé: «per il fedele del vodù vivere significa appropriarsi di tutto quanto è forza». Ecco allora il vodù integrare nelle sue cerimonie quanto trova nel cristianesimo o nel cattolicesimo che sia utile a rinforzare le sue credenze e ad arricchire i suoi riti: sacramenti (battesimo, matrimonio, Eucarestia, messe dei morti), preghiere (litanie), culto dei santi, calendario delle ricorrenze religiose (il 2 novembre si celebrano i loa della morte; durante la Quaresima anche gli oggetti del culto vodù vengono coperti da un drappo) e così via. Questi aspetti apertamente sincretici sono in genere gestiti con l’ausilio di uno pseudo-prete, il pè-savann («padre-savana»), in grado di leggere da un messale o da un breviario, per lo più un ex-sacrestano o ex-chierichetto. Il pè-savann dice preghiere cattoliche, dispensa benedizioni, asperge con acqua benedetta: è una figura che fa la sua comparsa nelle campagne haitiane tra il 1804 e il 1860, cioè tra la data dell’Indipendenza di Haiti (e della conseguente cacciata dei bianchi) e quella del Concordato tra il Vaticano e lo stato haitiano.
Che cos’è, insomma, il vodù? si chiedeva Alfred Métraux, il grande antropologo, autore di uno studio sulla religione haitiana (1958) che resta tuttora fondamentale. È «un insieme di credenze e di riti di origine africana che, strettamente connessi e mescolati con pratiche cattoliche, costituiscono la religione della maggior parte dei contadini e del proletariato urbano della Repubblica nera di Haiti. I suoi adepti gli chiedono quello che gli uomini hanno sempre chiesto alla religione: dei rimedi ai loro mali, la soddisfazione dei loro bisogni e la speranza in una vita oltre la morte». Laënnec Hurbon, suo maggior studioso attuale (e sacerdote cattolico haitiano), osserva che «nel vodù abbiamo a che fare con una esperienza religiosa autentica, con un linguaggio culturale valido come qualsiasi altro linguaggio e che soddisfa il praticante del vodù nel suo tentativo di comprensione delle cose di questo mondo e nella sua ricerca del senso da dare all’esistenza umana». Geneviève Calame Griaule commenta: «il vodù è un sistema coerente di relazioni e di corrispondenze simboliche che costituisce una spiegazione dell’universo». E ancora l’antropologo haitiano Louis Maximilien può scrivere (1945): «Accanto ad alcune vestigia di un culto animista e della magia – questa, sfortunatamente fin troppo conosciuta –, è presente nel vodù un sistema organico che appartiene alla tradizione delle grandi religioni, che presenta una disciplina della spiritualità capace di condurre l’uomo verso la sua evoluzione divina, nella rinuncia a sé per mezzo della comprensione e dell’amore del prossimo, al fine di raggiungere la serenità della superiore saggezza che avvicina costantemente all’essere supremo».
Bibliografia
- Métraux, Alfred, Il vodu haitiano, Torino, Einaudi, 1971, 386 p.
- Deren, Maya, I cavalieri divini del vudù, Milano, Il Saggiatore, 1959 e 1997, 378 p.
- Hurbon, Laënnec, Les mystères du vaudou, Paris, Gallimard, 1993, 176 p.
- Hurbon, Laënnec, Dieu dans le Vaudou haïtien, Paris, Payot, 1972, 269 p.
- Planson, Claude, Vaudou, un initié parle, Paris, Éds. J'ai lu, 1975, 346 p.
- Maximilien, Louis, Le vaudou haïtien. Rites Radas-Canzo, Port-au-Prince, Imprimerie de l’État, 1945, 225 p.
- Damoison, David – Dalembert, Louis-Philippe, Vodou! Un tambour pour les anges, Revue Autrement – Collection Monde, n. 137, mars 2003, 158 p.
* L’autore è docente di Letterature e Culture dei paesi francofoni all’Università Ca’ Foscari Venezia
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