sabato 12 luglio 2014

Santuari cristiani su santuari pagani

Capo Colonna: dal culto pagano di Hera a quello di Maria Theotokos


                                                                                     Pasquale Attianese

A 12 km circa da Crotone, sul promontorio oggi chiamato Capo Colonna, assolato ed arido d’estate, flagellato dai venti e dai marosi nella stagione invernale, é situato l’antico tempio di Hera Lacinia. In realtà del venerando santuario greco è superstite, purtroppo, ben poca cosa: una sola colonna di stile dorico-arcaico e poche rovine rose ed erose dal tempo inesorabile che passa su tutte le umane cose. Ed è un vero peccato, in quanto la distruzione di tutti gli edifici pubblici, sacri e privati presenti nell’antichità greca e romana, é andata sempre più incrementandosi per mano di quell’incredibile creatura che osa definirsi raziocinante: vale a dire l’uomo. Prova ne sia che leggendo qua e là tra le cronache medioevali, vi si trova che il tempio era intatto fino al principio del 1500. Ma Don  Pedro di Toledo, governatore di Crotone per conto di Carlo V, non avendo a sua disposizione pietra per edificare il castello e rafforzare il porto, ritenne molto opportunamente e, aggiungiamo noi malauguratamente, aiutato in questo da alcuni nobili del tempo, di servirsi per i suoi fini di riutilizzare i blocchi della costruzione greca e di quelle di parecchie altre rovine esistenti nella Crotone dell’epoca. I recenti scavi sono serviti a riportare alla luce molte meraviglie, tra le quali l’ormai famosissimo diadema aureo, rinvenuto tra le rovine del cosiddetto edificio B, a pochi passi dalla colonna, e sotto pochi centimetri di terra.  Tutto ciò ha contribuito a dare al promontorio una sacralità di primo ordine, che non solo era già preesistente all’arrivo dei coloni greci, ma si è via via sempre più rafforzato passando dal culto pagano a quello cristiano.
  E’ interessante in ogni caso, anche se necessariamente per sommi capi, esaminare in che modo si è passati dal culto per una divinità dell’Olimpo greco, alla particolare venerazione dei Crotonesi antichi e moderni per la Madonna del capo, definita Odigitria ( = che indica la retta via) e, ancor meglio, “Theotokos” ( = genitrice di Dio ). Un autore latino, Servio, ci viene incontro per quanto riguarda l’origine del tempio pagano ( in “Ad Aeneados”, III, 552 ) quando scrive : “Si dice che il tempio di Giunone Lacinia venne chiamato cosi dal nome del re che lo aveva fatto edificare, secondo altri dal ladrone Lacinio, che lì Ercole aveva ucciso e dopo aver purificato l luogo, edificò il  tempio”.
   Un altro autore greco, Diodoro Siculo, narra: “ Herakles spintosi con i buoi verso l’Italia, si dirigeva lungo il litorale e, dopo aver ucciso Lacinio che gli aveva sottratto alcuni capi di bestiame, colpì mortalmente l’amico Kroton, anche se non volontariamente. Pentito ed amareggiato lo seppellì con grandi onori, allestendo una magnifica tomba. Predisse poi agli abitanti del luogo che colà, nei tempi a venire, sarebbe sorta un’illustre città con lo stesso nome del morto”.( Diodoro Siculo di Agirio, lib. IV, 24,7) .
  Dai brani riportati di Servio e Diodoro Siculo si evince subito che l’origine del tempio sia collegata con il mito di Herakles, quello stesso che tanta parte ha avuto nella storia della Magna Graecia e, più in particolare, di Crotone. E’ chiaro, però, che l’origine del santuario non può essere ascritta ad Eracle, anche se nella leggenda vi deve essere per forza un piccolo nucleo di originaria verità.
   Una testimonianza più attendibile la si rinviene in Lycofrone, l’autore dell’Alexandra. In essa viene enunciato un fatto che potrebbe far risalire all’origine storica  del tempio. Questo poeta ellenistico ci fa capire che preesisteva a quello di Hera un culto più antico, autoctono, anteriore alla venuta dei coloni greci, dedicato ad una dea “ Portatrice di armi”. E’ evidente che tale culto fosse indipendente dalla città di Crotone. Vale a dire: i coloni capeggiati da Miscello di Ripe, ecista di Crotone, lo trovarono già presso gli abitanti del posto e credettero bene lasciarlo intatto, sovrapponendogli, però, una divinità dell’Olimpo Greco, appunto Hera, considerata la madre di tutti gli dèi. Considerato altresì che il tempio era distante da Crotone, era necessario difenderlo e fu per tale motivo che  nel VI e nel V  sec. av. Cr. venne rinforzato in maniera adeguata.  Il riconoscimento e l’identificazione di questo culto si può fissare ai primi decenni del VI secolo av.Cr. , quando, cioè, pare sia stata decretata l’erezione del tempio monumentale e di una conveniente e solida cinta di mura protettive.
  Grandissima era la considerazione del tempio presso tutti i popoli limitrofi e non solo quelli. Ed ogni anno nel mese di Maggio, si teneva l’adunanza di tutti popoli della lega Italiota. Ma sentiamo cosa ci dice Tito Livio, storico romano, nell’Opera “Ab Urbe condita”, lib. XXIV, 3, 3-7) :”Il nobile tempio, più illustre della stessa città, distava sei miglia, santo per tutti i popoli intorno. Un bosco sacro, cinto da una fitta foresta e da alti alberi di abete, ebbe nel mezzo rigogliosi pascoli, dove ogni genere di bestiame sacro alla dea pascolava senza la guida di alcun pastore; separatamente le greggi, secondo la loro specie, tornavano di notte alle rispettive stalle, giammai violati dalle insidie delle fiere e nemmeno dalla frode degli uomini. Perciò, con i grandi proventi di quel bestiame venne fusa e consacrata una colonna d’oro massiccia. Il tempio divenne inclito non solo per la santità, ma anche per le ricchezze. E vi attribuiscono alcuni miracoli, come per lo più avviene per luoghi tanto insigni. E’ fama che nel vestibolo del tempio vi fosse un altare la cui cenere nessuno vento avrebbe potuto muovere.” Anche Plinio il Vecchio ( in “Naturalis Historia” lib. II -107) riferisce il medesimo particolare.  L’Interpolatore di Servio ( in “Ad Aeneados”, III, 52) riferisce un altro fatto strano che succedeva al Capo Lacinio :” In questo tempio si dice che avvenisse questo di miracoloso e cioè se qualche fedele avesse inciso il proprio nome con un ferro su una tegola, quella scrittura sarebbe rimasta tanto a lungo quanto fosse durata la vita di chi aveva scritto.”
  Ma sentiamo ciò che dice il grande Cicerone nel “De Divinatione”, I, 24,48 : “Celio scrive che Annibale, volendo portar via la colonnina d’oro che era nel tempio di Giunone Lacinia, l’avesse fatta bucare ed avendola trovata solida, stabilì di prenderla. Nella quiete della notte vide Giunone che gli prediceva di non attuare il suo proposito e lo minacciava che se avesse fatto altrimenti, sarebbe stata sua cura fargli perdere anche l’altro occhio col quale vedeva bene. Questa visione non fu tradita da quell’uomo intelligente. Pertanto con quell’oro che aveva fatto bucare, fece fondere una giovenca che collocò in cima alla colonna”.
  Ancora Cicerone, nel “ De Inventione”, II, I,I, narra :” I Crotoniati, allora, vollero arricchire di pitture famose il tempio di Giunone, che veneravano particolarmente. Così chiamarono Zeusi di Eraclea, pagandolo a caro prezzo. Costui dipinse tutti i muri del tempio”.  Altrove viene riferito il particolare che il grande maestro, avendo in mente di dipingere Elena di Troia, avesse scelto per modelle cinque bellissime fanciulle della città e di ognuna di esse prese la parte migliore del corpo.
  Come si vede, dunque, tra le poche fonti riportate, ma tante altre lo confermano, il tempio di Capo Colonna rivestiva non solo funzione massima di culto, ma anche storica. Si tramanda che il duce Cartaginese, nella seconda guerra punica, quando stava per tornarsene a Cartagine, si sia lungamente fermato presso il promontorio e Tito Livio (“ Ab Urbe condita” lib. XXVII, 46, 16) scrive :” Il comandante dei Punici trascorse un’estate presso il tempio di Giunone Lacinia e qui dedicò alla dea un altare sul quale, in lettere greche e latine, narrò le sue imprese”.

  Tralasciando di parlare delle tante spoliazioni subite dal luogo sacro, vi è da dire che anche quando i Romani presero possesso di Crotone , nel 196 circa av. Cr., il tempio continuò ad essere tenuto in altissima considerazione, anzi i Duumviri che reggevano il Municipio di Crotone, abitavano proprio sul Capo. Il grande santuario venne rinforzato con marmi di Luni e tutto il recinto rinforzato in epoca repubblicana con muri ad “Opus reticulatum”.  Il culto della dea pagana Hera, identificata dai Romani con Giunone, venne soppiantato dalla venerazione per la Madonna negra in epoca Bizantina e da qui diventata Maria, madre di Gesù, in epoca cristiana. Volendo meglio puntualizzare questa Ipostasi ( = sovrapposizione di culti ), è necessario aggiungere che sotto la chiesetta attuale del Capo, durante gli scavi di pulizia della fornace attigua e, più precisamente, nella parte a strapiombo sul retro, nel 1993, si rinvenne l’abside della primitiva chiesa sottostante, che insisteva su una stanza romana con muri ad opus reticulatum di età repubblicana. Tale costruzione attesta in modo inoppugnabile che il culto della Madonna di Capo Colonna era  molto sentito anche in epoca medioevale tra il V ed il VII sec. d. Cr.

  Dovendo fornire anche l’origine del culto cristiano, mi corre l’obbligo di dare altre notizie più recenti. La tradizione cattolica tramanda che S. Luca era molto abile a tracciare immagini  ed in moltissimi posti è possibile rinvenire  una raffigurazione della Santissima Vergine  Madre del Signore attribuita a S. Luca.  Una di queste immagini il Santo dipinse nei nostri luoghi e, secondo l’agiologia popolare, proprio a Capo Colonne . E’ la figura di Maria di Nazareth, nel sublime atto materno di donare al Divino Figliolo l’alimento della vita. Il volto non era ancora ben delineato, perché San Luca voleva dare allo sguardo una profonda espressione di vita, di soavità e di mistero. Un sonno profondissimo lo colse accanto al suo lavoro e allorché si risvegliò egli vide con sommo stupore che gli occhi ed il sorriso della Santa Vergine erano già compiuti proprio come egli pensava e voleva. Si inginocchiò e pregò, perché quell’impronta non era opera umana, ma divina. Il neofita cristiano, Dionigi l’Areopagita raccolse la Sacra Immagine e la pose sul trono del tempio che aveva visto per secoli svolgere il culto della dea pagana ormai in disuso. La poneva, quindi, a custodia e protezione delle anime e della città più vicina al capo Lacinio, vale a dire Crotone. Ma questi lidi, in tempi più tristi, furono oggetto di continue scorribande saracene, avide di preda e rabbiosamente contrarie ad ogni simulacro cristiano. La Santa Immagine della Madonna, rapita dai miscredenti, resiste ad ogni tentativo di distruzione, facendo acuire la rabbia. Decidono, quindi, di dare alle fiamme il dipinto, ma le fiamme nulla possono contro la Sacra raffigurazione, se non quello di affumicarla solamente. Insolentiti da questo fatto, gli infedeli buttano a mare il quadro, ma le onde fecero approdare il dipinto nella città di Crotone, dove da allora ebbe altari ed onori. Questa tradizione, anche ai nostri giorni, non si è mai incrinata. Si è mantenuta intatta nei secoli. Le madri crotoniati di un tempo erano solite narrare ai figli :”Com’Essa vinse le fiamme e la rovina a cui volevano dannarla, così Crotone, protetta da Lei, ha sempre vinto tutte le rovine ! “
  Volendo fornire qualche ragguaglio storico più oggettivo non abbiamo, purtroppo, alcun documento che ci possa dar lumi sull’origine del quadro. La figura è sicuramente di origine bizantina, specie nelle parti meglio conservate e di fattura genuina: la testa della Santa Vergine fino al sommità del petto, il volto del S. Bambino e l’insieme della sua figura. Il resto mostra le tracce di chiari rifacimenti posteriori. La mano destra, che dovrebbe sostenere con l’avambraccio il corpo del Bambino, ha una posizione innaturale. Il braccio nemmeno si suppone, data la posizione della mano. Il manto dalle spalle ai piedi è una sola macchia scura, alla quale, sul davanti, è tracciato l’orlo più chiaro che, nelle volute, dovrebbe seguire l’andamento delle pieghe del drappeggio del manto. Non vi è alcuna traccia di doratura. In tutta la figura, oltre i toni carnicini scuriti e quella linea di giallo offuscato, appaiono i toni rossi della veste del Bambino. Sotto l’azione di luce  bianca violenta, guizzano riflessi verdi e rossi, qua e là sul manto. Manca il fondo, che, dal più lontano ricordo tramandato, è stato una lamina metallica, di rame dorato dapprima e poi d’argento com’è attualmente. Il dipinto non è su tavola, ma su tela a trama assai grossa, come si poté verificare allorché  si appose la preziosa corona. Allora fu necessario consolidare tutto il dipinto, rafforzando con tela ed altri accorgimenti l’intera parte posteriore.  Le lingue metalliche, attorno alla figura, che testimoniano le fiamme da cui fu avvolta l’Immagine ad opera dei Saraceni, furono sovrapposte in epoche successive, ma non sono tracciate sul dipinto: esse vogliono essere testimonianza del miracolo. A dire del dott. Raffaele Lucente, grande studioso crotonese degli anni ‘30, non si può ritenerla opera originale del primo periodo del cristianesimo, né sembra conservata com’era in origine. Infatti le pitture mobili bizantine sono tutte su tavola e comunque dipinte con tecnica diversa da quella che appare dal nostro sacro quadro nelle attuali condizioni.  Si sa che nel XII secolo, esattamente tra il 1000 ed il 1300 giungevano fino a noi, commerciate dall’Oriente, tavole dipinte, a soggetti sacri. Le invasioni saracene dei nostri territori iniziarono nel IX secolo, verso l’anno 890 susseguendosi nelle varie epoche.
  In un periodo non precisabile, al Capo Lacinio genti immigrate dall’Oriente portarono con loro una sacra immagine della Madre del Redentore, opera originale bizantina. Sul promontorio costruirono un saccello, assai semplice, che aveva anche funzione di asilo. In effetti la chiesetta, formata da un vano centrale, con due annessi laterali all’esterno, a scopo di rifugio, aveva la forma tipica dell’architettura semplice orientale. Tutti e tre i vani avevano il tetto a cupola emisferica. In qualche incursione, gli invasori oltre al saccheggio, presero di  mira le sacre immagini, distruggendo ed incendiando il piccolo santuario. La sacra tavola, manomessa e danneggiata, ma difesa dai Cristiani locali, fu trasportata a Crotone, dove fu messa al sicuro; per opera di qualche esperto ed ingegnoso artista, venne trasportata  con sapienti accorgimenti su letto di grossa tela rafforzata da mastici e poi completata così come si presenta nelle attuali condizioni. Perciò il dipinto è un abilissima trasporto della Immagine, che invece avrebbe dovuto essere a mezzo busto, reso più grande con il completamento della figura in piedi. Infatti la traccia del drappeggio non è riferibile allo stile bizantino. Non si deve nemmeno escludere che il quadro, nel corso del tempo, abbia subito successivi ritocchi o restauri, per le avarie certamente manifestatesi e dovute alla pittura eseguita con mezzi il più delle volte inadeguati. Quindi, accettando tutti i dati fin qui forniti, si ricava che il dipinto è un’opera bizantina restaurata ( oppure apografata) nel XV secolo. Quello che è certo che nel XVI secolo era già venerata.  Né ci possono essere di aiuto gli archivi monastici o quelli della Curia, questi ultimi, infatti, furono certamente distrutti dall’incendio che devastò l’Episcopio e la Cattedrale nel XVI secolo, così come ci viene attestato nei Reali diplomi esistenti nell’archivio di stato in Napoli.
Questa carenza di fonti storiche, giova a tener sempre viva ed eguale la tradizione leggendaria, tanto cara ai fedeli Crotonesi e del circondario. Perciò la Sacra Opera rimane testimonianza di vicende remote, avvolte nel mistero, ma sature di misticismo e di fede. Al cuore degli umili e dei credenti è manifesto segno di protezione divina. E questo stato di fatto viene annualmente dimostrato, nel mese di Maggio, dall’imponente e solenne pellegrinaggio della terza Domenica del mese, durante il quale decine di migliaia di persone si raccolgono in preghiera sotto il quadro della Madonna negra, ma bellissima e taumaturga.


Crotone, 6 Maggio 1997

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