lunedì 5 maggio 2014

La tragedia e le considerazioni in 40 anni di giochi riguardanti la strage di Piazza Fontana


D'Ambrosio (a sinistra) con l'ex procuratore di Milano Borrelli 
da Guido Salvini ricevo e volentieri pubblico:
 
IL PROCURATORE AGGIUNTO E ALTRE MITOLOGIE DI PIAZZA FONTANA 

Infelice la terra che ha bisogno di eroi
Bertolt Brecht – Vita di Galileo 
 

Gli onori entusiastici tributati a Gerardo D’Ambrosio dal mondo giudiziario e dal mondo politico al momento della sua scomparsa non devono far dimenticare il ruolo di contenimento da lui avuto quando, a metà degli anni ’90 a Milano l’Ufficio Istruzione, e non la Procura di cui egli era Aggiunto, aveva ripreso le indagini sulla strage di Piazza Fontana. 

Non entro certamente nel giudizio, non mi compete, sui meriti e sull'impegno profuso da Gerardo d'Ambrosio in Mani Pulite e in altre situazioni di rilievo che hanno contrassegnato una lunga carriera. L’hanno già fatto altri. Ma della sua presenza, o assenza, nelle indagini degli anni ‘90 sulla strage, per completezza storica, qualcosa è il caso di dire. Per qualcuno si potrebbe anche farne a meno, ma provo a farlo.

Del suo ruolo in quegli anni sono stato testimone diretto e vittima. Non so in quale misura il poco interesse di D’Ambrosio per l’idea stessa che le indagini su Piazza Fontana fossero, dopo quelle degli anni ’70, riaperte a Milano e per di più da un ufficio diverso da quello in cui aveva un posto di comando nascesse da motivi personali - come dire “ dopo quello che ho fatto io non c’è più niente di buono da fare” – e quanto da ragioni più profonde di strategia politico-giudiziaria. 

Provo a mettere in fila i fatti anche se l’azione partita dall’interno della magistratura, dalla Procura di Venezia a quelle di Milano e di Bologna con il CSM come “braccio militare” per togliere di mezzo il Giudice Istruttore che le aveva riprese in mano e con la conseguenza obiettiva di disinnescare buona parte delle potenzialità del lavoro che da solo stava svolgendo, meriterebbero un saggio di storiografia giudiziaria e non un semplice articolo.

I fatti sono questi, senza aggiungere nulla e anzi, con un po’ di autocensura, togliendo qualcosa almeno per prudente autotutela. 

Nel 1992-1993 ho cercato di coinvolgere d’Ambrosio più volte, informandolo delle novità che via via e sempre più velocemente stavano emergendo su Piazza Fontana  e sulla strategia che l’aveva preceduta e seguita. Gli ho fatto molte volte visita, ho lasciato nel suo ufficio al quarto piano l’intera copia degli interrogatori che Vinciguerra stava rendendo ma nel congedarmi ricevevo di ritorno solo fastidio ben percepibile. I verbali nella loro custodia gialla, che conservo ancora, erano rimasti sul tavolo vicino alla  finestra dove il mio maresciallo li aveva appoggiati e, anche davanti a qualsiasi mio tentativo  di spiegare che il fronte degli ex-ordinovisti  e degli ex-uomini dei Servizi si stava aprendo e forse sfaldando  la risposta era sempre la stessa “ sono tutte cose che avevo già scoperto io”. Fine dell’incontro.

Forse questo è ancora solo il frutto di una gelosia personale per il lavoro svolto in passato, ormai più di 20 anni prima, di una volontà di “paternità” delle indagini su quella strage, paternità non superabile dal tempo, da quanto di nuovo poteva emergere né in alcun altro modo. E la mancanza di interesse si può giustificare con la distrazione dovuta ad impegni immediatamente più produttivi come Mani Pulite. Ma solo in parte. 

Ma non finisce qui.

All'inizio degli anni ‘90, contatti personali e loro scarsi risultati a parte, a D’Ambrosio arrivano da me e dal Giudice Istruttore di Venezia Carlo Mastelloni, con trasmissione formale, abbastanza atti su piazza Fontana, verbali di Digilio, Vinciguerra ed altro, da portare, più che per volontà per forza di cose, ad aprire presso di lui un fascicolo sulla strage. Ma il nuovo fascicolo non muove un passo, rimane in un armadio e il Procuratore Aggiunto, senza compiere un solo atto istruttorio, quattro anni dopo, siamo nel 1995, lo spedisce in archivio. Eppure sono proprio gli anni in cui qualcuno aveva cominciato a parlare, ordinovisti e anche l'ex ufficiale del SID cap. Labruna, “protagonista” delle prime indagini degli anni ’70.

Un tempo un comportamento simile,  atti in archivio senza alcuna iniziativa, sarebbe stato bollato con un brutto termine che evoca mettere un fascicolo sotto qualcosa d’altro. Ma così è andata e per gli increduli, l'ho scritto nel mio libro Office at Night, il numero del fascicolo morto bambino è 7618\91. 

Ma dopo il marzo 1995, con il deposito della prima ordinanza del Giudice Istruttore, non si può più far finta di niente. L’ordinanza porta infatti al rinvio a giudizio di alcuni componenti del gruppo La Fenice, l’articolazione milanese di Ordine Nuovo, e dalle sue 400 pagine si comprende con chiarezza che le indagini stanno facendo breccia sull’ambiente, da sempre chiuso, degli ex–ordinovisti e forse dei Servizi segreti americani che, insieme ai nostri, li hanno utilizzati e protetti. Si parla in quell’ordinanza  dei primi elementi nuovi su piazza Fontana, dei timers usati per la strage, degli attentati preparatori di Trieste e Gorizia, dell’ingente dotazione di esplosivi della quasi sconosciuta cellula di Mestre in contatto con Milano, delle coperture ricevute dalla cellula di Padova, sino a togliere di mezzo una fonte che voleva “parlare”, dei contatti via via più intensi con il SID rivelati dalle nuove testimonianze del vecchio cap. Labruna, dei Nuclei di Difesa dello Stato, dei collegamenti con il Golpe Borghese.   

Il Giudice Istruttore chiede, in questo scenario che evolve ogni giorno, il sostegno, la collaborazione, la discesa in campo anche della Procura. 

In un Ufficio inquirente che è ormai privo di memoria storica, che non conosce quasi nulla degli ultimi 20 anni di indagini svolte in tante sedi sull’eversione di destra in Italia, che non ha nel suo archivio nemmeno la copia delle sentenze su Piazza Fontana, la scelta dei Capi cade su un sostituto alle primissime armi, da poco arrivato in Procura. E soprattutto non troppo incline alla collaborazione. Per un paio di mesi assiste agli interrogatori del Giudice Istruttore. Poi forse qualcuno immagina che si può presentare all’esterno una bella indagine ma fatta con il lavoro altrui e senza chi ne è stato l’autore.

E’ una collaborazione vissuta a denti stretti, destinata a durare poco. E capita l’occasione fortunata per infrangerla e insieme cercare di far scomparire il Giudice Istruttore grazie ad un trasferimento per ”incompatibilità ambientale” chiesto al CSM e di utilizzare le sua carte e i suoi atti come se fossero un processo “ nuovo” iniziato e condotto dalla Procura. 

Nella primavera del 1995 la corrispondenza dell’ex-reggente per il  Triveneto di Ordine Nuovo Carlo Maria Maggi è sottoposta ad intercettazione da parte del Giudice Istruttore. Viene così acquisita e fotocopiata la bozza di un suo esposto diretto al Ministro di Giustizia con cui Maggi, stretto dal progredire delle indagini sulle responsabilità del suo gruppo nelle stragi, lamenta di aver subito “pressioni”, in realtà semplici inviti a collaborare, da un ufficiale del R.O.S. durante colloqui investigativi che comunque aveva liberamente accettato. 

Tanto il Giudice quanto la Procura, che ne riceve copia, giudicano l’esposto irrilevante, un mero espediente difensivo di un imputato in difficoltà, destinato ad essere avviato al cestino da chiunque lo legga. E così anche il Ministro di Giustizia, - all’epoca Filippo Mancuso del PDL, certo non sospetto di grandi simpatie per i magistrati inquirenti e le loro indagini - che infatti non prende alcuna iniziativa.

Ma qualche mese più tardi a Venezia il dr. Felice Casson ne riceve una copia. E’ l’occasione propizia per risolvere il suo storico dissidio[1]con il Giudice Istruttore di Milano che ha fatto venire alla luce, lui e non la Procura di Venezia che li aveva in casa, tanti elementi nuovi sul ruolo centrale della cellula mestrino-veneziana nella progettazione delle stragi, depositi di esplosivi e attentati preparatori compresi.

Soprattutto l’indagine milanese ha fatto evaporare il teorema caro alla Procura veneziana e tanto propagandato sulla stampa secondo cui i NASCO e gli uomini di Gladio avrebbero avuto un ruolo nella strage di Peteano e negli altri più gravi attentati.  Legittimità o meno di un’organizzazione segreta come  Gladio a parte, è infatti  emerso che né Vinciguerra né altri erano in contatto con essa e sono invece venuti alle luce, grazie alle testimonianze raccolte dal Giudice, i Nuclei di Difesa dello Stato, l’effettiva struttura eversiva formata da civili e da militari.

Ma per intervenire, con un’azione che ha sopratutto l’effetto perverso di lanciare una ciambella di salvataggio a Maggi e agli altri ordinovisti veneti “accerchiati” dai progressi delle indagini del Giudice Istruttore, serve almeno una compliance milanese.

In ottobre Milano è preavvisata dell’azione che, destinata ad essere subito rivelata dalla stampa veneziana “amica”,  dovrà colpire il Giudice  e mettere fuori gioco il lavoro di indagine che, dal racconto di Vinciguerra a quello di Siciliano, da Digilio all’elettricista di Freda Tullio Fabris è riuscito e riesce ancora ad aggiungere tanti tasselli sulla storia dell’eversione nera e delle complicità di cui ha goduto. In quei giorni il sostituto di D’Ambrosio fa la spola tra Milano e Venezia e scompare come d’incanto dagli interrogatori fissati dal Giudice Istruttore.

A fine mese il bluff del dr. Maggi, noto tra l’altro nel suo ambiente come abile giocatore di poker, ottiene il suo obiettivo, l’assist è raccolto e il PM di Venezia  iscrive nel registro degli indagati in un’indagine per terrorismo stragista[2] il Giudice, che non era nemmeno presente ai colloqui con Maggi, e l’ufficiale del R.O.S.

Nel giro di pochi giorni la Procura tronca ogni contatto con il Giudice Istruttore, il sostituto si rende irreperibile, ne cerca il suo completo isolamento. Contemporaneamente “dimette” senza preavviso  dalle indagini il R.O.S. e ne allontana i suoi uomini privandosi così dell’unica struttura investigativa che sa muoversi nell’intricato e quasi impermeabile mondo dell’eversione di destra. E da quel momento, non a caso, le indagini che la Procuracerca di continuare non muoveranno più un passo in avanti. Un effetto forse che la Procurastessa, nel momento in cui aveva aderito all’azione di Casson, non era stata nemmeno in grado di prevedere. 

Partono poi, con i pretesti più vari, dalla Procura di Milano e da quella di Venezia le lettere al CSM per sollecitare il rapido trasferimento, in pratica l’esilio, del Giudice Istruttore  da Milano per incompatibilità ambientale. Operazione non riuscita ma che, con la pendenza a Palazzo dei Marescialli del procedimento per anni e anni, ne soffoca almeno per metà le sue indagini. 

Di certo l'azione di Casson avrebbe avuto il fiato corto se non avesse trovato sponda a Milano. E infatti avvengono omissioni di cui si è sempre preferito tacere.

Nell'estate del 1995 la Procura di Milano aveva ereditato la prosecuzione delle intercettazioni, anche ambientali, che avevo iniziato nei confronti di Maggi e degli ex-ordinovisti vicini a Zorzi e ancora presenti a Mestre. Il contenuto delle conversazioni, via via  registrate, non lascia alcun dubbio. Maggi non ha subito alcuna pressione, è tutto inventato con un esposto fasullo e strumentale, presentato anche dietro un lauto compenso di Delfo Zorzi dal Giappone, un bluff  riuscito anche oltre ogni aspettativa che era rivolto a rallentare indagini e a mettere “i giudici l’uno contro l'altro”. Soprattutto serviva a  suscitare l'interesse di Casson che vedeva le sue indagini su Gladio oscurate dalle indagini del Giudice Istruttore di Milano.

Un'operazione di inquinamento eterodiretta, lo scrive in un suo rapporto la stessa Digos di Venezia che segue gli ascolti  per la Procura di Milano. 

Se trasmesse da Milano alla Procura di Venezia, come avrebbe dovuto essere sin dall'autunno 1995, avrebbero fatto cadere in un attimo come un castello di carte l'indagine di Casson contro di me e l'ufficiale del R.O.S. ma l'adesione della Procura milanese all'iniziativa di Casson le rende imbarazzanti, meglio tenerle nel cassetto.

Nessuno, a maggior ragione, m'informa. Apprendo per caso il contenuto delle conversazioni confessorie di Maggi e degli uomini di Zorzi da un articolo de Il Gazzettino del luglio 1996 che ne riporta qualche passaggio.

Scrivo a D'Ambrosio[3] chiedendogli di trasmettere subito a Venezia le intercettazioni che provano la manovra per screditare le mie indagini, che da un anno sono state delegittimate davanti a imputati e testimoni esattamente come speravano gli ordinovisti.

Nessuna risposta. Insisto. Scrivo anche al Presidente del Tribunale di Milano. Bisogna arrivare a metà novembre 1996 perché D'Ambrosio mi risponda con una letterina di poche righe. Attesta che le intercettazioni sono state trasmesse a Venezia, anche se con molto ritardo, nel giugno 1996. Dovrebbero essere quindi in copia nel processo di Venezia.

Ma è un falso che unisce mittenti e destinatari. Solo una parte, non quelle in cui parla Maggi, sono state inviate e nessuna di esse è entrata nell'indagine di Casson contro di me.

Lo scoprirò nel 1998 quando gli atti veneziani saranno depositati. Per mandarle io, dopo averne fatto copia grazie ad un difensore di parte civile, al Pubblico Ministero che a Venezia nel frattempo ha preso il posto di Casson.

Bastano pochi giorni e a Venezia, il Pm e il Gip, sulla base delle intercettazioni finalmente arrivate e delle altre testimonianze che hanno fatto crollare la frottole di Maggi, archiviano l' “indagine” contro di noi. Per di più con lodi per il lavoro fatto sull'eversione ordinovista.

Ma la verità arriva fuori tempo massimo. E’ ormai il dicembre 1998, le mie indagini si sono concluse per scadenza dei termini all'inizio di quell'anno e per quasi tre anni risultati e potenzialità sono state dimezzate dall'azione di interferenza veneziana e di chi a Milano l’ha sostenuta. 

Tornando alle indagini, quelle vere, ogni novità su Piazza Fontana, se nasce extra ecclesiam, continua in quegli anni a far poco piacere.

Nel marzo del 1996 Edgardo Bonazzi, estremista di destra a lungo in carcere con gli ordinovisti ma non coinvolto nelle trame stragiste, sceglie di dissociarsi e  chiede di parlare con l'ufficiale del R.O.S.  che da anni segue le mie indagini e quelle della Procura di Brescia. Una nuova testimonianza arricchisce così il quadro. Bonazzi parla de La Fenice di Rognoni, del ruolo di Zorzi, dei timers di Freda, di depositi di esplosivi, dei collegamenti con il golpe Borghese, delle confidenze ricevute in carcere sull'esecuzione delle stragi.

Mando copia dei verbali alla Procura di Milano. D’Ambrosio risponde[4] con una nota non di soddisfazione ma ancor più che  infastidita decisamente ostile. Bonazzi avrebbero dovuto interrogarlo loro e non avrebbe dovuto essere sentito dall’ ufficiale del R.O.S. che la Procuraha “dimesso” nel 1995, da un giorno all'altro, dalle indagini. Ma il Procuratore Aggiunto non scrive che, reciso il rapporto con l'unica struttura investigativa che aveva un patrimonio di conoscenze sull'eversione di destra e riusciva a metterlo a frutto, né lui né i suoi sostituti hanno saputo portare alle indagini alcun atto importante. L'indagine aperta in Procura vive infatti  quasi solo del lavoro altrui e questo non è nemmeno gradito.

Cerco di rispondere invitandolo alla collaborazione nell'interesse del risultato comune, a por fine alla “guerra” che fa solo la fortuna degli ordinovisti che invece tra loro fanno gioco di squadra. Non serve a nulla, non vedo e non sento nessuno. In Procura rimangono inavvicinabili. Però ricevono, quasi ogni giorno, i miei verbali. 

All'inizio del 1997 la Commissione Stragi, per conoscere, nei limiti del segreto, quanto di nuovo le è utile per  stendere la sua relazione, dopo aver sentito me e altri colleghi di  diverse città, convoca anche D’Ambrosio e il suo sostituto [5]. Taccio  sull'audizione di quest'ultimo che, almeno nella sua parte qualificante, è quasi solo una sequenza di attacchi personali contro di me e gli investigatori del R.O.S e non credo che una Commissione bicamerale l'avesse convocata a Roma per sentire una requisitoria senza contraddittorio. Ma d'Ambrosio non è da meno. Racconta ben poco di quanto può interessare la Commissione, si limita rievocare le sue indagini degli ’70, certo già note a chi lo ascolta. 

In compenso attacca a fondo il Giudice Istruttore, delegittima in pubblico il suo lavoro[6] pur avendo presenziato ad un solo suo interrogatorio in tanti anni e nemmeno per intero. In pratica colpisce un uomo già a terra, per il quale il suo potente ufficio ha sollecitato il trasferimento per “incompatibilità ambientale”.

Per fare ciò trasforma stranamente in atti provenienti da Catanzaro, sede in cui su piazza Fontana non si indaga più da 15 anni, quelli arrivati dal Giudice Istruttore di Milano e dal Giudice Istruttore Mastelloni di Venezia nel 1991 e che avevano dato origine al fascicolo finito in archivio. Si mostra un insolito e tardivo sostenitore della competenza di Catanzaro, affermando che le indagini che stava facendo il Giudice Istruttore dovevano invece essere svolte in quella lontana sede in cui nei bui anni ‘70 era stato dirottato il processo. Afferma, circostanza mai sostenuta nemmeno dai difensori degli imputati, che il Giudice Istruttore compie atti nulli e che possono “nuocere” e  “inquinare”, senza una parola invece sulle centinaia di verbali che il suo Ufficio ha ricevuto e sta ricevendo da lui e sta utilizzando.

Afferma, davanti ad un'osservazione un po' stupita dal presidente Pellegrino che invece ha apprezzato i risultati del Giudice Istruttore, che tra il lavoro dei due uffici non ci sono nemmeno “connessioni” come se il fascicolo aperto in Procura nel 1995 non fosse composto quasi per intero da atti che vengono da quel Giudice e come se testi e imputati non fossero gli stessi.

Attribuisce alla sua Procura il recente ritrovamento dell'archivio dell'Ufficio Affari Riservati occultato a Roma in una caserma di via Appia, archivio invece venuto alla luce grazie alle ricerche del consulente del Giudice Istruttore, lo storico Aldo Giannuli.

Soprattutto critica con forza l'ipotesi stessa che nel progetto che ha portato alla strage di piazza Fontana e negli eventi della strategia della tensione possa esservi stato, anche solo nel ruolo di osservatore interessato, l'intervento dei Servizi segreti statunitensi: il Giudice Istruttore, dice, “guarda lontano per non vedere vicino”, come se guardare alle stragi nel loro contesto internazionale fosse una deviazione dello sguardo e si potesse cancellare con una battuta il racconto di Digilio sulla “cobelligeranza” in Veneto tra gli ordinovisti e gli agenti delle basi militari statunitensi.

Come se quelle che in modo semplicistico si possono chiamare “pista interna” e “pista esterna” fossero in opposizione e non si ponessero invece in rapporto di complementarità. Come alla fine, in anni più recenti, dal suo esilio in Sud-africa, ha riconosciuto anche il gen. Maletti : i Servizi segreti italiani, di cui era stato uno dei responsabili, non si muovevano all'epoca se non d'intesa con quelli del potente alleato atlantico.

Non so se le parole di D’Ambrosio fossero in rapporto di causa\ effetto o solo in piena assonanza con alcune sensibilità politiche del momento. Di certo, sin dall'inizio della sua carriera egli era più che buoni rapporti, saltando anche il “passaggio” di Magistratura Democratica, con funzionari della federazione milanese del PCI. E una carriera seguita, non dimentichiamolo, per ben due legislature da un seggio di senatore per il PD.
 
Quello che ricordo bene è che nella fase tra il 1994 e il 1996 il quotidiano L'Unità era tra quelli che trattava nei suoi articoli quasi con sufficienza le nuove indagini su piazza Fontana ripartite a Milano e mostrava di dar credito e fingeva di non capire il significato delle iniziative di Casson. Ed era stato proprio un componente del CSM scelto dai DS, il prof. Giovanni Fiandaca a mettere la sua firma sotto l'atto di accusa per incompatibilità ambientale contro di me, cioè sul tentativo di farmi trasferire con la forza lontano da Milano.

Forse in quel momento una possibile verità sulla strage di piazza Fontana non era più politicamente spendibile. Nel 1996 infatti l’ex-PCI era entrato per la prima volta nel governo e probabilmente non aveva interesse a rivangare il passato e soprattutto a confrontarsi con un'indagine nella quale si cominciavano a scoprire i rapporti esistiti tra Ordine Nuovo e gli alleati statunitensi, cioè il soggetto dinanzi al quale l’ex-PCI si stava legittimando come credibile forza di governo in Italia.

Ciò non escludeva, nemmeno quel momento, la politica è anche questo, che piazza Fontana potesse ritornare, anche se a indagini concluse, un cavallo di battaglia.

Infatti 4 anni dopo, nel 2000, il gruppo DS alla Commissione Stragi con una lunghissima relazione subito resa pubblica  condividerà in modo quasi entusiastico e farà propri i risultati e gli scenari delle mie indagini. Un recupero tardivo dettato dal fatto che, paventando la sconfitta alle vicine elezioni politiche, sconfitta che infatti si verificherà, di nuovo piazza Fontana poteva tornare utile nello scontro politico.

Chi è arrivato sino a  queste righe può sentirsi urtato da quanto ha letto. Collide con narrazioni consolidate,  i cattivi Servizi, gli inquirenti solo bravi, in cui i ruoli di ciascuno, chi cercava e chi non cercava la verità, sono ben definiti e indiscutibili. Queste righe rivelano episodi ignorati, su cui si è sempre taciuto, pongono dubbi che sembrerebbero improponibili. 

Prima di rifiutare per principio qualcosa di diverso da quanto ha sempre sentito, di diverso dalla “verità organizzata”, rifletta però chi legge su quanto ha scritto un grande pensatore indiano del secolo scorso “la verità è una terra senza sentieri”. Tutto il resto viene di conseguenza.

Questa è la storia. Il resto, reso verità ufficiale e immutabile dalla sproporzione di forze tra chi scrive e il pensiero unico e il politicamente corretto del mondo dell’”informazione”, è quasi solo apologia. 

Non sarebbe giusto dimenticare il lavoro di D'Ambrosio nella prima indagine, condotto nella non facile situazione degli anni ‘70, sarebbe cadere nello stesso errore che egli ha fatto con me, senza vantaggi per nessuno e in danno della verità. D’Ambrosio ha avuto, soprattutto, il merito di far venire alla luce l'intreccio tra l’agente del SID Guido Giannettini e la cellula ordinovista di Padova. Ricordando però quanto,  anche di più e prima di lui, hanno fatto i magistrati veneti Stiz e Calogero.  Solo grazie alle loro indagini a Treviso e a Padova è stata imboccata la pista di Freda e Ventura. Sono stati quasi dimenticati perché non hanno goduto, o forse non voluto, meno platea e meno pubblicità rispetto alla piazza milanese ma senza di loro per Piazza Fontana sarebbe stato giudicato solo  Pietro Valpreda. 

Per D'Ambrosio l'indagine milanese degli anni ‘90 sulla strage, quella che anche senza condanne ha dato una definitiva paternità storica e politica alla strage, non è mai esistita o quasi. Non le ha dedicato nemmeno una riga nel suo libro di memorie La Giustizia ingiusta”pubblicato nel 2005 dopo aver lasciato la magistratura ed essere passato alla politica né in una delle sue centinaia di interviste alla stampa, tra cui le tante sull’Unità al suo agiografo Ibio Paolucci. 

Io al contrario, anche per lasciare memoria di quanto avvenuto, quella “memoria” di cui si parla tanto e anche a sproposito, ho scritto e non poco, e non lo avrei fatto in modo così netto e mio rischio se non fosse vero, degli ostacoli, autentici massi, posti da alcune Procure sulla strada delle indagini su Piazza Fontana e anche , di riflesso, delle indagini riaperte negli anni ’90 sulle altre stragi. 

L’ho chiamato, addirittura, “autodepistaggio”, fatto dalla magistratura in danno di sé stessa o, meglio, della verità.

E ho parlato del ruolo, non secondario, di Gerardo D’Ambrosio nel mio saggio  pubblicato nel volume collettivo “Piazza Fontana, 43 anni dopo” edito da Mimesis nel 2012 e nel mio libro“Office at night, appunti non ortodossi di un Giudice ” uscito nel 2013.

Anche per chiedere, tanti anni dopo il fischio finale dell’arbitro che ha chiuso la partita, una risposta, una spiegazione del suo comportamento. 

Non l’ho avuta  e non l’avrò mai.
 

Guido Salvini

già Giudice Istruttore a Milano

Guido Salvini

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