domenica 26 dicembre 2010
Il natale festa pagana
Le radici pagane del Natale
di Elena Savino jubal editore
Del sole
Per inspiegabile che sembri, la data di nascita di Cristo non è nota. I vangeli non ne indicano né il giorno né l’anno […] fu assegnata la data del solstizio d’inverno perché in quel giorno in cui il sole comincia il suo ritorno nei cieli boreali, i pagani che adoravano Mitra celebravano il Dies Natalis Solis Invicti (giorno della nascita del Sole invincibile).
- Nuova enciclopedia cattolica dell’Ordine Francescano (1941) -
Nel corso della ricerca di informazioni e documenti riguardanti le origini pagane del Natale, quello che stupisce è che la data del 25 dicembre, prima di diventare celebre come “compleanno di Gesù”, sia stata giorno di festa per i popoli di culture e religioni molto distanti tra loro, nel tempo e nello spazio.
Le origini di questi antichi culti vanno ricercate in ciò che è “principio” della vita sulla terra e che “dal principio” è stato oggetto di culto e di venerazione: il sole.
Agli albori dell’umanità, esisteva un ricco calendario di feste annuali e stagionali e di riti di propiziazione e rinnovamento.
I popoli nel periodo primitivo della loro esistenza erano intimamente legati al “ciclo della natura” poiché da questo dipendeva la loro stessa sopravvivenza. Al tempo, la vita naturale appariva indecifrabile, incombente, potente espressione di forze da accattivarsi; era un mondo magico. L’uomo antico si sentiva parte di quella natura, ma in posizione di debolezza. Per questo, attraverso il rito, cercava di “fare amicizia” con questa o quella forza insita in essa.
Al centro di questo ciclo c’era l’astro che scandiva il ritmo della giornata, la “stella del mattino” che determinava i ritmi della fruttificazione e che condizionava tutta la vita dell’uomo. Per quest’ultimo, temere che il sole non sorgesse più, vederlo perdere forza d’inverno riducendo sempre più il suo corso nel cielo, era un’esperienza tragica che minacciava la sua stessa vita. Perciò, doveva essere esorcizzata con riti che avessero lo scopo di evitare che il sole non si innalzasse più o di aiutarlo nel momento di minor forza.
È proprio partendo da questa considerazione che possiamo individuare le origini dei rituali e delle feste collegate al solstizio d’inverno.
Durante queste feste venivano accesi dei fuochi (usanza che si ritrova nella tradizione natalizia di bruciare il ceppo nel camino la notte della vigilia) che, con il loro calore e la loro luce, avevano la funzione di ridare forza al sole indebolito.
Spesso questi rituali avevano a che fare con la fertilità ed erano quindi legati alla riproduzione. Da qui l’usanza, nelle antiche celebrazioni, di danze e cerimoniali propiziatori dell’abbondanza e in alcuni casi, come negli antichi riti celtici e germanici, ma anche romani e greci, di accoppiamento durante le feste.
Del solstizio d’inverno
Il termine solstizio viene dal latino solstitium, che significa letteralmente “sole fermo” (da sol, “sole”, e sistere, “stare fermo”).
Se ci troviamo nell’emisfero nord della terra, nei giorni che vanno dal 22 al 24 dicembre possiamo infatti osservare come il sole sembra fermarsi in cielo, fenomeno tanto più evidente quanto più ci si avvicina all’equatore. In termini astronomici, in quel periodo il sole inverte il proprio moto nel senso della “declinazione”, cioè raggiunge il punto di massima distanza dal piano equatoriale. Il buio della notte raggiunge la massima estensione e la luce del giorno la minima. Si verificano cioè la notte più lunga e il giorno più corto dell’anno.
Subito dopo il solstizio, la luce del giorno torna gradatamente ad aumentare e il buio della notte a ridursi fino al solstizio d’estate, in giugno, quando avremo il giorno più lungo dell’anno e la notte più corta. Il giorno del solstizio cade generalmente il 21, ma per l’inversione apparente del moto solare diventa visibile il terzo/quarto giorno successivo. Il sole, quindi, nel solstizio d’inverno giunge nella sua fase più debole quanto a luce e calore, pare precipitare nell’oscurità, ma poi ritorna vitale e “invincibile” sulle stesse tenebre. E proprio il 25 dicembre sembra rinascere, ha cioè un nuovo “Natale”.
Questa interpretazione “astronomica” può spiegare perché il 25 dicembre sia una data celebrativa presente in culture e paesi così distanti tra loro. Tutto parte da una osservazione attenta del comportamento dei pianeti e del sole, e gli antichi, pare strano, conoscevano bene gli strumenti che permettevano loro di osservare e descrivere movimenti e comportamenti degli astri.
Per fare un esempio, a Maeshowe (Orkneys, Scozia) si erge un tumulo datato (con il metodo del carbone radioattivo) 2750 a.C. All’interno del tumulo c’è una struttura di pietra con un lungo ingresso a forma di tunnel. Questa costruzione è allineata in modo che la luce del sole possa scorrere attraverso il passaggio e splendere all’interno del megalite, illuminando in questo modo il retro della struttura. Questo accade al sorgere del sole e al solstizio d’inverno.
Delle origini comparate del Dio Sole
Pur non avventurandoci in comparazioni religiose che richiederebbero accurati studi, pena l’apparire ridicoli, diremo comunque che il 25 dicembre è associato al giorno di nascita o di festeggiamento di personaggi divini risalenti anche a secoli prima di Cristo.
Per citarne alcuni:
Il dio Horus egiziano
I mosaici e gli affreschi raffiguranti immagini di Horus in braccio a Iside ricordano l’iconografia cristiana della Madonna col bambino, tanto da indurci a credere che in epoca cristiana, per ovvi motivi, alcune rappresentazioni di Iside e Horus, spesso raffigurato come un bambino con la corona solare sul capo, furono probabilmente “riciclate”.
Il dio Mitra indo-persiano
Con buona pace della Gatto Trocchi, quello di Mitra fu il culto più concorrenziale al cristianesimo e col quale il cristianesimo si fuse sincreticamente. A proposito, anche Mitra era stato partorito da una vergine, aveva dodici discepoli e veniva soprannominato “il Salvatore”.
Gli dei babilonesi Tammuz e Shamas
Nel giorno corrispondente al 25 dicembre odierno, nel 3000 a.C. circa, veniva festeggiato il dio Sole babilonese Shamash. Il dio solare veniva chiamato Utu in sumerico e Shamash in accadico. Era il dio del Sole, della giustizia e della predizione, in quanto il sole vede tutto: passato, presente e futuro.
In Babilonia successivamente comparve il culto della dea Ishtar e di suo figlio Tammuz, che veniva considerato l’incarnazione del Sole. Allo stesso modo di Iside, anche Ishtar veniva rappresentata con il suo bambino tra le braccia. Attorno alla testa di Tammuz si rappresentava un’aureola di 12 stelle che simboleggiavano i dodici segni zodiacali.
È interessante aggiungere che anche in questo culto il dio Tammuz muore per risorgere dopo tre giorni.
Dioniso
Nei giorni del solstizio d’inverno, si svolgeva in onore di Dioniso una festa rituale chiamata Lenaea, “la festa delle donne selvagge”. Veniva celebrato il dio che “rinasceva” bambino dopo essere stato fatto a pezzi.
Bacab
Era il dio Sole nello Yucatan; si credeva che fosse stato messo al mondo dalla vergine Chiribirias.
Il dio Sole inca Wiracocha
Il dio sole inca veniva celebrato nella festa del solstizio d’inverno Inti Raymi (festeggiata il 24 giugno perché nell’emisfero sud, essendo le stagioni rovesciate, il solstizio d’inverno cade appunto in giugno).
Ovviamente i primi citati in questa rapida carrellata devono aver influito alquanto nella creazione del cristianesimo che, ricordiamolo una buona volta, non fu creato da Cristo. Riguardo invece ai culti solari precolombiani è interessante notare come i tempi e i simboli del sacro siano comuni a civiltà così distanti fra loro. Questo dovrebbe far sorgere più spesso il sospetto di un’origine comune delle religioni tramite uno studio comparato delle stesse alla ricerca del significato della vita. Invece, ottusamente ci si continua ad adagiare su fedi antropomorfiche dogmatiche e più o meno esplicitamente intolleranti nei confronti delle altre.
Le radici pagane del Natale
di Elena Savino - Jubal editore
giovedì 23 dicembre 2010
Un libro mai più ristampato
Jesus Rex di Robert Graves traduzione di Adriana Dell'Orto. - Milano : Tascabili Bompiani, 1986. - 485 p. ; 19 cm. - (Tascabili Bompiani. Narrativa ; 401)
Esiste anche un'altra edizione curata dal Club degli Editori limitata.
Nonostante ci sia un buon interesse per questo romanzo storico nessun editore si è mai preso la briga di ristamparlo. Certo è che i racconti storico teologici di questo testo danno sicuramente fastidio. Non voglio aggiungere altro. Sicuramente lo potete ancora trovare nelle biblioteche. E allora leggetelo ne vale la pena.
domenica 19 dicembre 2010
Verona e affari sporchi!
Verona. Si parla di mafia in Commissione urbanistica. Controllano i politici o i magistrati?Si torna a parlare di mafia a Verona. Lo si fa questa volta (e per la prima volta) in un contesto particolarmente sensibile all’argomento: la Commissione urbanistica del Comune di Verona. Lo spunto è venuto da due lavori giornalistici ben fatti: un’inchiesta di Michele Marcolongo sul tema delle grandi opere nel veronese e un’intervista di Francesca Lorandi con il procuratore capo Mario Giulio Schinaia (Vedi Verona In numeri 25 e 27 di dicembre). A tirare in ballo la malavita organizzata in Commissione urbanistica è stato il presidente del Comitato contro il collegamento autostradale delle Torricelle Alberto Sperotto, che tra i vari pericoli connessi alla mole di lavori pubblici in cantiere nel veronese vede anche quello di possibili infiltrazioni mafiose. Ecco le sue dichiarazioni riportate oggi dai giornali locali: “Sperotto cita il procuratore Schinaia: «La mafia a Verona c’è e investe nelle grandi opere». Si faccia un comitato di controllo come a Milano per l’Expo, perché in provincia di Verona si stanno disegnando opere per 20 miliardi di euro”. La risposta di Enzo Flego (Lega Nord) non si fa attendere: «Tocca alla magistratura e alle forze dell’ordine vigilare». Su questo botta e risposta facciamo due considerazioni. a) In Commissione urbanistica c’è gente chiamata a prendere decisioni che muovono ingenti quantità di denaro e se qualcuno viene a dirti (non perché se lo inventa ma perché legge i giornali) che forse è il caso di mettere in piedi una rete di protezione contro la ’ndrangheta non puoi cavartela dicendo che sono affari della Magistratura. b) La seconda considerazione è che proprio dalle colonne del nostro giornale la Magistratura veronese ha detto l’opposto. Citiamo le parole del Procuratore capo Schinaia (Verona In 27 di dicembre, pagina 25): “L’autorità amministrativa ha il potere discrezionale per capire quali sono le opere pubbliche da fare. E nella struttura amministrativa ci sono centri di controllo che sovraintendono la regolarità delle procedure. La Magistratura non può controllare la regolarità di ogni opera: questo è compito della politica”. Si mettessero d’accordo, viene da dire. E comunque la Commissione urbanistica non sottovaluti il pericolo mafia semplicemente rimuovendolo o minimizzando. Anche per non passare dalla parte del torto per gravi inadempienze.
Giorgio Montolli
Saramago il caino!
Josè Saramago aveva aperto un blog dove scriveva costantemente, mantenendo così il contatto diretto con i suoi lettori. Dalle sue pagine aveva anche contestato il premier italiano Silvio Berlusconi per la sua politica[5]. In seguito a tale articolo, la casa editrice Einaudi (Gruppo Mondadori[6]) annunciò che non avrebbe pubblicato la raccolta dei suoi scritti sul blog denominata Il quaderno, che sarà comunque edita in Italia, ma a cura di Bollati Boringhieri[7]. L'opera di Saramago è oggi pubblicata in Italia da Giangiacomo Feltrinelli Editore.
nel 2009, con l'uscita del suo ultimo romanzo Caino, Saramago si trovò a polemizzare con la chiesa cattolica portoghese, criticando la Bibbia, poiché descrive un Dio -vendicativo, rancoroso, cattivo, indegno di fiducia-.
Il Vaticano non perdona nemmeno dopo la morte avvenuta ieri (il 18 giugno 2010)di Josè Saramago
L'attacco a fondo arriva proprio dall'Osservatore romano, in un articolo apparso oggi intitolato "L'onnipotenza (presunta) del narratore".
Josè Saramago - scrive il quotidiano del Papa - "è stato un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo". Affermazioni biliose che non si addicono alla presunta carità cristiana, almeno nei giorni immediatamente successivi alla morte e con queste parole pesanti. Saramago è acccusato di aver scelto "lucidamente" di autocollocarsi "dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano".
Invece di occupuparsi di salvare le anime ora il Vaticano pretende anche di sconfinare nella grossolana critica letteraria, dando giudizzi affrettati e inopportuni su questo grande scrittore ormai consacrato alla storia.
lunedì 6 dicembre 2010
Questa è l'immagine di Guido Lupo Maria De Giorgio, pseudonimo "Havismat"(1890-1957)Uomo di grande sapere. Rene Guenon lo scelse come unico continuatore dell sua OPERA, quasi ad assumerlo come unico discepolo accettato!
E' doveroso sottolineare che Guido ebbe con Evola una controversia che arrivò in sede legale. Questo fu l'ultimo "rapporto" che De Giorgio ebbe con qull'Julius, ben personificato con la sua "caramella" uomo sempre carico di se stesso, del suo sapere ma anche della sua ignoranza come nella prefazione che ebbe a scrivere per un saggio di Bachofen. A mio avviso Evola aveva un "io egoico" pochissimo controllato! La destra più retriva ha trovato in questa persona, per certi versi, il saccente che era abiatuato a prendere delle grandi cantonate.
Ma sicuramente De Giorgio aveva le carte in regola per tentare l'ascesci mistica, che deve essere completamente staccata dal potere per liberare l'anima, sacra e santa, che esiste in ogni essere specialmente nell'uomo!
Aveva COMPRESO le intenzioni della "Divina Commedia" e ne sottolineo il potere iniziatico e mistico. Un cammino vero e proprio che sfociava nelle stelle e nell'amor che le legava agli uomini e all'infiniamente piccolo come all'immensità del cosmo eliminando il tempo e la contingenza.
San Francesco è suo Fratello!
venerdì 3 dicembre 2010
Per capire l'esoterismo
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Il labirinto di bosso di Villa Valsanzibio nel comune di Battaglia terme (PD)
Esoterismo e Tradizione
di
Pietro Nutrizio
Tratto da Rivista di Studi Tradizionali n.1, Ottobre - Dicembre 1961
Che molte parole vadano ai giorni nostri perdendo a poco a poco il loro significato legittimo e originario e che molte altre l'abbiano perso già da tempo, è questo un fatto che non sfugge ai più sensibili dei nostri contemporanei. L'uso che di questi termini si fa correntemente, invece che a una necessità d'ordine intellettuale, obbedisce ormai soltanto più alle esigenze di una superficiale (ma non per questo meno pericolosa) «suggestività», o addirittura non rappresenta più che una comoda acquiescenza ad abitudini di cui non si vede la ragione di sbarazzarsi, quando non siano, per molteplici ragioni, a bella posta intrattenute. Un tale stato di confusione, che è linguistica soltanto al livello degli effetti e le cui radici si immergono profondamente nella mentalità contemporanea, è il primo degli ostacoli che incontra sul proprio cammino chi voglia tentare un serio scambio d'idee in un qualsiasi ambiente. In uno scambio di questo genere le parole sono il veicolo delle idee, il loro supporto sensibile, se così si può dire, ed è evidente che la mancanza di una intesa preventiva sul valore dei termini usati deve immancabilmente condurre, come minima conseguenza, a dei malintesi che sono poi sempre difficili da sradicare. Gli argomenti che ci proponiamo di trattare, come del resto si può vedere dal titolo del frontespizio, non hanno con i problemi particolari della linguistica che una relazione molto blanda; tuttavia pensiamo che sia opportuno accennare in primo luogo a questa necessità di chiarezza del linguaggio, perché ciò ci permetterà di non ritornare continuamente a giustificare l'insistenza con cui ci soffermeremo a chiarire, tutte le volte che se ne offrirà l'occasione, quale sia il senso che noi diamo ad alcune parole nel corso di questa breve nota e, beninteso, lungo gli articoli e le traduzioni che compariranno in questa rivista. Dicevamo che la confusione delle parole e l'incertezza del loro uso hanno cause profonde, aggiungeremo che questa confusione, come tante altre, ha per noi il significato d'un segno; al modo con cui certi stati patologici si rivelano all'occhio del medico attraverso una serie di sintomi, così la mentalità d'un ambiente è rispecchiata da un insieme di manifestazioni esteriori di cui il linguaggio fa parte. Quando certe realtà non intervengono più a sostenere, se così si può dire, i termini che di esse costituivano come la veste esteriore, è allora che comincia il processo di degenerescenza di questi ultimi, simile a quello che deve aver portato alla situazione attuale. Un tale processo si effettua per gradi ed ha inizio a partire dalle realtà intellettuali la cui sparizione in un determinato ambiente produce l'effetto che in un edificio avrebbe la caduta d'una pietra di volta, permettendo alla confusione d'insinuarsi in campi sempre più vasti senza incontrarvi la resistenza che soltanto dall'alto avrebbe potuto opporglisi. Non è quindi strano che siano proprio le parole un tempo più ricche di significato ad averlo perduto per prime e più completamente, anzi è perfettamente spiegabile, ed è altrettanto evidente che proprio ad esse bisogna prima di tutto restituire il contenuto legittimo se si vuole in qualche modo contribuire alla ricerca di quella chiarezza che si impone come prima meta a quanti al giorno d'oggi non se la sentano di lasciarsi semplicemente sommergere dal caos che li circonda. Le parole che costituiscono il titolo di questo nostro articolo introduttivo sono appunto due tra le più abusate, e il cui significato reale pare essere stato, almeno nell'Occidente moderno, completamente dimenticato da diversi secoli; sembra anzi, a giudicare dalle immagini che oggi suscitano nei nostri contemporanei, che una lenta campagna sia stata condotta contro di esse, a partire da una data epoca. Il risultato ottenuto è stato differente nei due casi, questo è vero, ma bisogna tenere conto della diversità dei due contenuti: se «tradere», il verbo latino la cui sostantivazione è stata trasportata integralmente nell'italiano, si può adattare a qualsiasi oggetto, di natura anche esteriore, «esoterismo» è certamente un vocabolo molto più imbarazzante, poiché implica un termine di paragone, essendo termine di paragone esso stesso. Esoterico (e cioè interiore, nascosto) era detto l'insegnamento che talune scuole greche impartivano ai discepoli che erano giunti ad accedervi; esoterica era la dottrina che si trasmetteva in questi centri intellettuali, e di essi tutto quel che trapelava all'esterno era un adattamento, in questo caso filosofico, che veniva ad assumere, rispetto alla dottrina interiore, il ruolo di un «exoterismo», vale a dire di qualcosa di esteriore. Questa dottrina filosofica, esteriore od exoterica, implicava dunque la dottrina e l'insegnamento interiori come qualcosa che la produceva e la garantiva allo stesso tempo, ed aveva quindi nei suoi confronti un ruolo subordinato; è forse questa una delle ragioni per cui in un'epoca così superficiale come la nostra, in cui la realtà è stata ridotta ad una fantasmagoria di movimento e di immagini, evocare un termine che richiama qualcosa di profondo e di realmente esplicativo è, come dicevamo, particolarmente imbarazzante. Prima di tutto può far venire in mente a troppi che le spiegazioni che la scienza fornisce della realtà non siano sufficienti, e poi, quando questo dubbio sia accettato come valido, può porre qualcuno nell'alternativa di cercare qualcosa che si è accorto di non avere, e qualcun'altro nella triste condizione di riconoscere che, per quanto faccia, non ha nulla da dargli. «Tradizione», dicevamo, è invece meno compromettente; e infatti se la parola «esoterismo» è praticamente scomparsa dal vocabolario - o permane solo più sulle labbra di qualche eccentrico, o peggio, in cerca di un «successo» intellettuale a buon mercato - di usanze, costumi, credenze tradizionali si sente ancora parlare relativamente sovente. A parte che anche in questi casi l'aggettivo ha assunto una sfumatura ambigua, sovente di sprezzo per le cose a cui viene applicato, specialmente nella sua modificazione «tradizionalista», non è certo di questo tipo di tradizione che noi intendiamo occuparci; il fatto è che in realtà, e malgrado le apparenze, questa parola, nelle accezioni che corrispondono ai suoi significati più profondi e più legittimi, in altri termini più intellettuali, è scomparsa anch'essa, e ciò che di essa rimane, salvo rare eccezioni, è proprio soltanto più una veste sonora che si presta a dipingere certe manifestazioni di senilità mentale sopportate ancora, bontà sua, dallo «spirito progressista» moderno. A noi interessa l'unica vera Tradizione, la quale è strettamente in relazione con l'esoterismo e perciò con l'intellettualità pura. Abbiamo accennato all'esoterismo di certe scuole greche, del quale tutto quello che si sa è che sia esistito, ma questo concetto d'una dottrina al cui insegnamento soltanto pochi possono accedere e il cui scopo ultimo è la conoscenza sempre più profonda della realtà, era diffuso presso tutti i popoli dell'antichità, anche in Occidente, ed è ancora conosciuto attualmente in Oriente. Tale restrizione dell'insegnamento a un'élite, per definizione poco numerosa, non è né un capriccio né tanto meno obbedisce a ragioni di «predominio» o di «egoismo», come il sentimentalismo occidentale è sempre tanto incline a pensare quando si trovi in presenza d'un ordine gerarchico legittimo ed efficiente. Imprestando a tutte le epoche e a tutti i popoli la propria mentalità e le proprie reazioni psicologiche, nonché la propria mancanza di principi, da cui in definitiva derivano tutte le altre manchevolezze, gli Occidentali moderni sono presi dal panico quando vengono in contatto con la realtà sotto una qualsiasi delle sue manifestazioni, e in perfetta buona fede, almeno nella maggioranza dei casi, trovano iniquo ed illegittimo che non sia buono per tutti ciò che è buono per qualcuno. Meno empirici (anzi assolutamente non empirici, e quindi rigorosamente scientifici, per usare un'altra parola di cui si è ampiamente travisato il senso normale) ed estremamente realistici, gli antichi sapevano che esistono differenze tra gli uomini, ed è proprio in questa coscienza della diversità delle condizioni attraverso le quali passa l'umanità, differenziandosi nello spazio e nel tempo, che ha le sue radici profonde il concetto di Tradizione. Non avrebbe infatti nessun senso parlare di qualcosa che si trasmette di epoca in epoca se non si attribuisse a ciò che era all'inizio una superiorità su quanto si potrà trovare in seguito. Ed è infatti proprio questa la realtà riposta sotto il termine di Tradizione: l'esistenza d'uno stato umano originario caratterizzato da condizioni intellettualmente diverse da quelle delle epoche posteriori e in cui l'uomo era in rapporto cosciente con l'intelligenza cosmica e con il suo Principio, e la possibilità, per individualità che ne posseggano le qualificazioni, di ricostruirlo per se stessi effettivamente, risalendo in qualche modo il ciclo fino alle sue origini; i mezzi da mettere in opera a questo scopo e la dottrina, riflesso mentale dello stato di ordine e di conoscenza che caratterizzavano questa epoca scomparsa, sono il contenuto di questa trasmissione, nonché l'insieme delle leggi esteriori destinate a mantenere l'ambiente e gli esseri umani in armonia con le leggi cosmiche, di cui esse non sono che una particolarizzazione e una applicazione, e le scienze speciali, applicazioni anch'esse della dottrina puramente metafisica all'ordine contingente. In tutte le civiltà normali è presente tale idea di un compito di importanza primordiale per l'uomo, che non si può adempiere senza un aiuto che risalga all'origine stessa dell'umanità, simbolicamente e letteralmente. La concezione biblica dell'Eden altro non è che la raffigurazione di questa realtà, e a tal proposito nulla si potrebbe citare di più chiaro nel suo simbolismo che questo passo di Ciuang-Tsé: «...Dono del Cielo è la natura ricevuta alla nascita. Compito dell'uomo è di cercare, partendo da quel che sa, d'apprendere quel che non sa; di mantenere la propria vita fino alla fine degli anni assegnatigli dal Cielo senza abbreviarla per colpa propria. Saper ciò ecco l'apogeo. E quale sarà il criterio di queste asserzioni la cui verità non è evidente? Su cosa riposa la certezza di questa distinzione del celeste e dell'umano nell'uomo?... Sull'insegnamento degli ‘Uomini Veri’. Da essi proviene il ‘Vero Sapere’» Quel Vero Sapere che, espresso in forme diverse per un adattamento alle diverse condizioni di tempo e di luogo è, come dicemmo, presente al fondo di tutte le civiltà tradizionali, detenuto da un'élite che lo amministra e lo trasmette, in obbedienza a leggi cicliche da essa conosciute, ad individualità che per la propria costituzione psichica e fisica sono in grado di trarne profitto sviluppando le proprie virtualità e risvegliando le proprie facoltà intellettive più profonde, al fine di diventare a loro volta Uomini Veri e di mettersi in contatto cosciente con gli Stati superiori del proprio essere. Non pretendiamo certo con queste poche considerazioni di aver reso conto nella loro complessità degli argomenti che formeranno l'oggetto dei nostri studi; la nostra unica intenzione è stata di dare un'idea dei soggetti che si troveranno trattati in questa rivista, ma più che altro del punto di vista da cui essi saranno presi in considerazione. Si tratta di un punto di vista insolito per i nostri giorni, ed è per questa ragione che ci è parso utile insistere un po' su certe distinzioni linguistiche; sappiamo per esperienza come sia difficile e faticoso uscire dal cerchio chiuso dei pregiudizi e delle opinioni correnti, il più delle volte intellettualmente insignificanti, e ci rendiamo conto che quest'inerzia mentale è particolarmente favorita dalla confusione verbale a cui accennavamo all'inizio. È facile screditare dottrine e punti di vista, soprattutto quando danno fastidio, servendosi di quattro parole ben aggiustate e completamente prive di significato; l'unico mezzo per prevenire e controbattere questo metodo spiccio, e purtroppo al giorno d'oggi efficace, di... analisi («spirito critico» è detto il mobile di tale particolarissimo modo d'agire) è di fornire, a chi possa esserne interessato, gli elementi perché possa trarre da se stesso conclusioni e giudizi. Questo abbiamo intenzione di fare in queste pagine, fornendo traduzioni di testi tradizionali, ripubblicando articoli già apparsi altrove e di cui il pubblico italiano non è, salvo rare eccezioni, venuto a conoscenza, ed infine illustrando e chiarendo nei limiti delle nostre possibilità punti non ancora trattati, sempre ed esclusivamente alla luce della Dottrina tradizionale, al di fuori della quale ogni spiegazione è per noi illusoria ed ogni tentativo di approfondimento, vano.
I Celti un popolo inventato
Riporto un articolo ripreso da Rex-Pubblica, titolato:
I Celti, un popolo inventato
di Mario Moiraghi.
Nell'insieme lo trovo molto interessante e che ci apre
nuove conoscenze sicuramente da approfondire, in ogni caso saggio
interessante e stimolante
Negli anni fra il 1100 e il 1200 si diffuse per l'Europa il mito del Santo Graal. Studi effettuati sulla storia e sulla letteratura di quei tempi hanno permesso di rivedere in modo radicale l'intera materia, documentandone un'origine orientale, d'area persiana, con l'aggiunta di un protagonista di primo piano, Parsifal, tratto invece dalla figura di un santo toscano: Galgano di Montesiepi.
Rinviando al testo completo su questo argomento, si riportano alcuni passaggi significativi, che trattano il problema della connessione fra Galgano e la presunta cultura celtica.
Gli studiosi del Santo Graal si affannano, da oltre otto secoli, a dimostrare che tutto cio' che riguarda la Tavola Rotonda deriva dall'antica tradizione dei Celti. Nelle misura in cui Galgano viene accostato, seppure in tono dimesso e subordinato, alla Materia di Bretagna, non puo' mancare la tentazione di coinvolgerlo nelle saghe del Nord.
Accostarsi all'argomento "Celti" apre un importante interrogativo su cosa fossero realmente i Celti e sulla loro esistenza storica. Affrontiamo il problema per gradi e partiamo dal presupposto che essi siano realmente esistiti, con un proprio corredo di cultura, di simboli e di manifestazioni storiche.
Si fa notare, da piu' parti, che la località di Montesiepi, dove sorge l'eremo di San Galgano, allude forse ad un luogo sacro, cinto da siepi, nascosto ai profani, che non potevano partecipare ai riti segreti. Questa tradizione di recintare luoghi sacri (si prosegue a sostenere) era tipicamente celtica. Ne deriverebbe il fatto che la roccia, dove fu piantata la spada del santo, potrebbe essere il centro di un antico culto sacro, probabilmente celtico.
Quanto la tesi sia labile o insufficiente e' dimostrato dal fatto che tale consuetudine appartiene alle usanze di tutti i popoli. Persino il vocabolo italiano "paradiso" derivando dal persiano "pairi - daeza" o "giardino cintato" riconduce a questa usanza diffusa anche in oriente.
Ma la presunta pista celtica presenta ulteriori elementi.
L'antico nome di Montesiepi era Cerboli, che ricorda il Cervo, animale sacro ai Celti, identificato con il dio Cernumno, coinvolgendo anche il vicino paese di Cerbaia. Anche in questo caso e' difficile non notare che un Parco dei Cervi e' caro perfino alla tradizione buddista e non e' prerogativa indiscussa dei celti.
Nei pressi di Montesiepi esiste poi la localita' di Brenna con radice affine a Bran, eroe celtico, o a "brenna", sacrificio rituale di annegamento della vittima celebrato, si dice, dai Druidi.
Qualcuno sostiene anche che i cerchi formati da pietra bianca e cotto rosso, sulla volta della Rotunda, sono 48 e ricordano le decorazioni circolari celtiche, aggiungendo in via marginale che questi cerchi potrebbero essere connessi con una rappresentazione delle "onde di forma", ovvero di radiazioni negative e positive emesse da una struttura architettonica.
Non lontano dalla Rotunda, si nota ancora una vistosa croce celtica, scolpita nella pietra, elaborata o rielaborata in tempi recenti, che campeggia in un prato, ben visibile dalla strada contigua.
Si vuole ad ogni costo individuare qualcosa di celtico, insomma, in questo luminoso angolo di Toscana.
In realta' anche il collegamento fra cultura celtica, da una parte, e Galgano o il Graal, dall'altra, deve essere rivista da un'angolazione differente.
La possibile presenza dei cosiddetti Celti, nonche' dei simboli e della presunta cultura celtica nell'etrusca Toscana non dovrebbe suscitare grande sorpresa. Il transito e il trasferimento di elementi culturali o artistici fra le regioni dell'Europa medievale e' cosa nota e accettata. Anche la suggestiva chiesa di sant'Antimo, non lontanissimo da Chiusdino, presenta tracce grafiche appartenenti a quella categoria di "nodi" conosciuti come celtici.
Trovare elementi o tracce di questo genere in giro per l'Europa, fra le fiabe irlandesi, nelle decorazioni di un portale romanico, nelle poesie di Aquitania, nelle leggende bretoni, come quella del Graal, non dovrebbe essere motivo di sorpresa ma neppure prova di appartenenza alla tradizione celtica, con il relativo bagaglio di riti magici o sanguinari. Difficile ritenere che nella cristianissima chiesa di sant'Antimo si celebrassero riti celtici, con sacrifici di animali, sulla base della presenza di nodi celtici su qualche portale laterale della chiesa stessa.
Potremmo anche spingerci piu' in la', non escludendo che, sotto il racconto di Dionigia (si tratta della madre di Galgano e si riportano le frasi da lei pronunciate nel processo di canonizzazione n.d.r.), si celi veramente una traccia di riti pagani e, perche' no?, di tradizione celtica.
- Figlio mio, il freddo e' eccessivo, la fame intensa, il luogo quasi inaccessibile: come vi andremo?
"Come ci avvicineremo, figlio mio, a quel luogo inaccessibile perche' cintato e interdetto a chi non appartiene alla setta che vi pratica i suoi culti?"
Tutto cio' potrebbe avere un senso e una spiegazione, se non fosse invece assodato che i Celti, come tali, non sono mai esistiti.
Pur essendo una questione non strettamente legata al presente testo, il problema dell'esistenza dei Celti consente importanti considerazioni.
Occorre premettere, paradossalmente, che un elevatissimo numero di storici e letterati antichi parla dei Celti. Vale la pena elencarne qualcuno:
* Ecateo di Mileto (540 - 475 a.C.)
* Erodoto (490- 424 a.C.)
* Platone (428 - 348 a.C.)
* Aristotele (384 - 322 a.C.)
* Teopompo (378- 300 a.C)
* Eforo (sec. IV a.C.)
* Diodoro (sec. IV a.C.)
* Callimaco (320 - 240 a.C.)
* Polibio (205 -120 a.C.)
* Poseidonio (135 - 50 a.C.)
* Giulio Cesare (102 - 44 a.C.)
* Strabone (63 a.C. - 20 d.C.)
* Tito Livio (59 a.C.- 17 d.C.)
* Properzio (47a.C - 16 d.C.)
* Cassio Dione (155 - 235 d.C.)
* Avieno (sec IV d.C.)
A dispetto di tutti costoro, non e' difficile dimostrare che i Celti non esistevano, come nazione o come popolo, e che quelli che venivano chiamati Celti, comunque, non sapevano di esserlo.
"Una donna vissuta nel Dorset, nel IV secolo a.C., un sacerdote pagano irlandese, del II secolo a.C., un guerriero dei Belgi, nel I secolo a. C., un bambino della corte di Hywel Dda, nel 950, un allevatore delle Highlands scozzesi, nel XVI secolo d.C., si sarebbero altamente meravigliati di essere definiti Celti." (1)
Per indicare un popolo o una nazione o qualunque altro aggregato di persone, il termine "celti", come usato dagli scrittori sopra elencati, ha una validita' etnica poco differente dal termine "barbari", o "infedeli", o "gentili", o qualunque altro termine usato per indicare una vaga accozzaglia di persone ritenute "aliene" ma non precisamente identificabili.
Il nome, anzitutto, non ha un'origine sicura e definita. Quella grande nebulosa di gente di cui stiamo parlando veniva definita col nome di Celti, ad occidente, e di Galati, ad oriente. L'uno e l'altro nome condividevano con la parola "Galli" la presenza di due lettere, K-L oppure G-L.
Cio' ha spinto gli esperti a far derivare i loro nomi da una antica radice indoeuropea kal- (sanscrito kalayati) non lontana dall'italiano calare, nel senso di arrivare, oppure dalla radice gal-, che in greco e' associata al latte e alle cose bianche (italiano Galassia). (2)
Ci troviamo in un campo piuttosto vasto di significati che va da invasori a uomini bianchi, con infinite possibilita' intermedie.
Una rapida ricognizione sulle loro caratteristiche permette di affermare, quantomeno, che:
* non possedevano caratteristiche fisiche comuni: alcune popolazioni "celte" erano alte, alcune basse, alcune bionde, altre castane;
* non possedevano caratteristiche linguistiche comuni, se non quelle riscontrabili nel comune ceppo indoeuropeo e riscontrabili anche nel greco, nell'ebraico, nell'assiro babilonese, nel persiano, nel sanscrito o nel latino, non lasciarono tracce che si possano definire letterarie;
* non avevano religioni, divinita', miti comuni, omogenei e condivisi: si sono riscontrate, in area "celtica", oltre quattrocento divinita';
* non possedevano espressioni artistiche stilisticamente ben definite: i reperti archeologici (Hallstatt, La Tène, Golasecca,…) dimostrano al piu' che le popolazioni locali subivano l'effetto della diffusione e della imitazione fra un popolo e l'altro;
* non c'e' accordo neppure sull'elenco di tribu' o gruppi che possano essere inclusi o esclusi dal gruppo celtico: si dibatte ancora se Iberi, Aquitani, Liguri, Veneti e perfino Germani (tanto per fare qualche esempio) sono da considerare "celti" o meno;
* Il complesso dei costumi popolari e delle usanze comprendeva la gamma piu' completa di funerali (cremati, sepolti diritti, sepolti in posizione fetale, dati in pasto agli avvoltoi,…); alcuni bevevano vino, altri no; alcuni si opposero ai Romani, altri no; alcuni curavano l'estetica, altri no.
Se consideriamo poi che non avevano per nulla coscienza di appartenere alla grande nazione celtica, vera o presunta, dovremmo domandarci: puo' essere definito "celta" (o qualunque altra cosa) un popolo sparso che non lo e', non sa di esserlo e non ha nessun interesse per la questione?
Anzitutto Sorgono spontanee, a questo punto, due questioni:
* Su quali presunte prove e' stato costruito l'intero castello dei Celti e della loro unita' etnica?
* A parte le affermazioni generiche degli autori sopra elencati, chi e' stato autore e creatore di quei Celti in cui oggi molti credono?
La prima domanda puo' ricevere una rapida e sommaria risposta: le prove sono state in parte falsificate e in parte basate su indubbie radici culturali comuni, che certamente sono condivise dai presunti Celti ma anche da tutti gli altri popoli dell'area europea ed asiatica.
È noto agli studiosi che l'intero arco geografico che va dall'Indo alla Penisola Iberica, spaziando dal Mediterraneo al Mare del Nord, condivide comuni tratti culturali, definiti indoeuropei.
Lo testimoniano una infinita' di elementi storici, artistici, archeologici e, soprattutto, linguistici.
Lo si ritrova, ad esempio, nella parola latina Veritas, italiano Verita', che contiene la radice indiana Rt-, in antico persiano Arta; oppure nella parola latina Nomen, italiano Nome, inglese Name, persiano Namah.
Anche il nome di Parigi trova le sue radici nell'assiro babilonese Parisu, luogo che separa, mentre la parola Mago ha le sue origini in una radice indiana Mak- da cui il tedesco Machen, fare, e l'analogo inglese Make. (3)
Il flusso e la circolazione dei popoli e delle idee, fin dai tempi preistorici, ha provocato una sensibile e documentabile diffusione di elementi comuni dall'Indo all'Europa, fino alle isole europee, Inghilterra, Irlanda e Islanda. Al di la' di ogni possibile fenomeno di migrazione di massa e di invasione violenta, la naturale trasmigrazione delle idee e dei modelli di vita e' rintracciabile e documentabile in modo abbastanza preciso.
In altre parole, al di la' delle Alpi, oltre i confini del mondo greco o romano, qualcuno esisteva e si muovevano popoli, fossero Celti o altri, che condividevano le comuni radici indoeuropee.
La seconda domanda (chi ha creato i celti?) esige una risposta piu' complessa, che qui si cerchera' di sintetizzare in un breve cenno su cio' che e' avvenuto in Irlanda, in Scozia, in Galles ed in Francia. Notiamo anzitutto, come elemento comune, che fino alla fine del primo millennio d.C. non esistono in Europa significativi processi di formazione delle identita' nazionali, nelle forme e nei modi che oggi ci permettono di parlare di etnicita'. Unica realta' in qualche modo unificante e identificante e' l'Impero Romano, con la sua cultura e la sua progressiva conquista. Disgregato l'Impero Romano e attenuatesi le scorrerie di popoli provenienti da est, all'inizio del secondo millennio incominciano a formarsi le prime aggregazioni nazionali in senso moderno, anche sotto la spinta di quei re o signori che intendevano definire e consolidare un proprio regno.
Questo processo, che subira' un ulteriore importante sviluppo e consolidamento nei secoli XVII, XVIII, XIX, esigeva anche che i membri di una certa "nazione" avessero una chiara percezione del concetto di Noi e del concetto di Altri, magari Nemici.
Il rapporto con il passato romano, che era stato portatore di civilta', venne in qualche modo rinnegato e vissuto con una ostilita' culturale ostentata. In ogni caso, per potersi dare un'identita', occorreva distinguersi da quella cultura unificante e totalizzante che da troppi secoli era costituita dal mondo latino e romano. Occorreva spezzare con decisione questo rapporto (pur conservandone tutti i vantaggi pregressi) che veniva avvertito come un cordone ombelicale troppo a lungo tollerato. Occorreva ricostruire una propria autonoma storia, anche a costo di falsificare la Storia. E la confusa nebulosa celtica era un'occasione da non lasciarsi sfuggire.
In Francia, sul finire del primo millennio, si era ormai perduto lo slancio europeista di Carlo Magno, che aveva inseguito improbabili progetti culturali estesi a tutto il continente, con l'aiuto di Alcuino da York.
In un contesto segnato dal sorgere di regni e signorie, giunse all'improvviso un racconto orientale, forse persiano, dal possibile nome di Parsifal Namah, la Storia di Parsifal. Il racconto, debitamente tradotto, suscito' eccitata curiosita' nelle piccole corti europee in formazione, che avrebbero voluto anche loro essere raffinate, colte e mature come le corti persiane dell'epoca. Chrétien de Troyes si incarico' della riscrittura del racconto, a favore della corte di Aquitania, e cerco' probabilmente di dare maggior corpo alla figura del protagonista, cogliendo al volo la storia della vita di un personaggio di cui raccontavano i pellegrini giunti dalla Toscana, un certo Galgano. E al protagonista del racconto persiano furono fatti vestire i panni del santo toscano. Qualcuno (Wolfram vn Eschenbach) avrebbe avuto da ridire, ma intanto il gioco era fatto: l'area bretone si era costruita un suo modello e un suo aggancio con un presunto passato. Con l'aiuto dei Cistercensi e il consenso della Chiesa.
Ridimensionati i Cistercensi e cancellati i Templari, troppo sovranazionali per i tempi nuovi, la Francia si sforzo' di riaffermare e consolidare la propria identita' e la propria preminenza, tentando perfino di trasferire il papato ad Avignone.
Alle soglie del periodo romantico l'abate Paul Yves Pezron, nel 1730, interpretando la volonta' francocentrica scrisse un'opera che, ai nostri fini, risulta rivoluzionaria e fondamentale: l'Antichita' della Nazione e della lingua gallica. In quest'opera i Celti, cioe' i Galli, cioe' i Franchi, cioe' i Francesi presero decisamente corpo, facendo risalire la propria genealogia a Gomer,figlio di Japhet, figlio di Noe', genealogia nella quale trovano posto anche i Titani, Saturno, Urano, gli Spartani.
I Galli - Celti sono cosi' diventati nos ancetres, i nostri antenati in tutti i sensi e con tutti i crismi, e l'operazione continuera' durante la rivoluzione, poi con Napoleone I e Napoleone III, giungendo fino all'attuale classe politica, che continua ad incentivare il consolidamento del filone celtico. E Roma aveva perso qualunque diritto di paternita' culturale, conquistando il solo titolo di invasore imperialista.
Sul Galles gravava una situazione complessa, legata ad una serie di elementi che avrebbero influito non poco sulla cultura ufficiale.
Il primo elemento e' costituito dal gia' citato Goffredo o Geoffrey di Monmouth. Si tratta di una figura storica di incerta origine, che parla di se stesso come Gaufridus, o Galfridus, o Gaufrido de Monemuta, che l'abilita' degli studiosi ha tradotto in un piu' rassicurante Geoffrey de Monmouth, assegnandogli nazionalita' gallese.(4) Goffredo, o chi per lui, si era appunto inventata una tradizione gallese(5), facendo derivare il nome dei Britanni da un Bruto preistorico, piacevolmente affine a quel Bruto che aveva accoltellato Cesare.
In secondo luogo, agli inizi del 1700, lo scritto di Paul Yves Pezron aveva attratto l'attenzione di Edward Lhuyd, uno studioso di Oxford, che sognava una possibile derivazione della lingua gallese da un ipotetico, affascinante celtico. E su questa ipotesi aveva scritto pagine che avevano lasciato traccia nel pensiero locale, sostenendo che i Gallesi discendessero dai Britanni e questi, a loro volta, dai Celti.
Si era poi aggiunto, nel 1849, un altro testo, oggi ritenuto fondamentale, composto a cura di Lady Charlotte Guest. Si trattava di una antologia di racconti medievali gallesi, alla quale l'autrice diede il nome di Mabinogion, spesso citata perche', fra le sue pagine, si individuano racconti e figure che potrebbero avere analogie con quelle di cavalieri della Tavola Rotonda.
Lady Guest faceva parte di un gruppo di appassionati cultori della materia, che diedero forma o rivitalizzarono un'immagine gallese storica e folcloristica fittizia ma affascinante.
In questo ambiente si materializzarono:
* il mito della discendenza da Noe'; (6)
* la definizione dell'abito delle streghe; (7)
* l'identificazione fra druidi e bardi; (8)
* il tentativo di costruire o ricostruire una antica lingua gallese. (9)
Nell'ambito di queste attivita' culturali si cerco' di dare configurazione e consistenza anche alla figura di re Artu'.
L'Irlanda godeva di una situazione particolare, decisamente invidiabile.
Gli irlandesi avevano alle proprie spalle una tradizione culturale di tutto rispetto. Si raccontava che nel suo territorio si fossero succedute almeno sei antiche dinastie di eroi. Le due ultime, fondamentali per la storia locale, erano i Thuata de Danaan (la tribu' della dea Danaan) e i Goidels, veri antenati degli odierni irlandesi.
In questo ambiente erano emerse alcuni mitici campioni, come Fionn e Cu Chulainn. (10)
Queste leggende, riprese poi nei secoli seguenti, davano una certa indipendenza e sicurezza di se' alla cultura irlandese, rendendo meno pressante la ricerca di un collegamento con ipotetici Celti, tantopiu' se invasori.
I monaci irlandesi, pur filtrando le leggende con la visione cristiana, ebbero un ruolo decisamente fondamentale nel recupero delle tradizioni locali. Lontani da Roma, isolati nella magia dei loro monasteri, fornirono un prezioso contributo alla cultura della loro terra ma anche a quella di tutta l'Europa e del mondo intero, raccogliendo preziose tracce di antichita', elaborando meravigliosi codici miniati, inviando ovunque i loro messaggeri spirituali: Columcille, Colombano, Gallo e altri, che lasciarono consistenti tracce di se' dalle isole britanniche al sud dell'Italia, raggiungendo anche l'Islanda, la Groenlandia e il nord America.
Furono loro, fra l'altro, a perfezionare e diffondere quelle preziose forme artistiche, legate alla decorazione dei codici, che oggi vengono percepite come stile celtico.
Le vicende storiche che seguirono, soprattutto i difficili rapporti con la vicina Britannia, stimolarono ripetutamente l'orgoglio locale, anche nel periodo romantico del secoli XVII e XIX, cercando di dare consistenza alla presunta identita' celtica di quest'isola.
Un discorso a parte meriterebbe la questione dei druidi, sull'esistenza dei quali si costrui' una serie di teorie sostanzialmente inesatte o false, dando loro ruoli, riti ed abiti di cui non esistono testimonianze oggettive, prima del secolo XVIII.
La Scozia non fu da meno. Fino al settecento essa era rimasta la parente povera, nel complesso delle regioni britanniche. In qualche modo emarginata dal sud gallese o inglese, era vagamente connessa con la vicina Irlanda. Non possedeva e non condivideva tradizioni di grande importanza.
Fu cosi' che nei secoli XVIII e XXI ebbero luogo due fenomeni:
1. quello che si puo' chiamare un trafugamento delle tradizioni, a danno dell'Irlanda;
2. la rielaborazione artefatta di un complesso di elementi locali, tali da rendere la tradizione scozzese autonoma e dotata di un proprio folclore esclusivo.
Il risultato di queste operazioni puo' essere cosi' sintetizzato:
* vennero raccolte ballate irlandesi e trasferite nell'ambiente scozzese, dando corpo alla figura del presunto bardo Ossian; (11)
* furono inventati il kilt e i relativi colori dei clan scozzesi, operazione comunque compiuta dopo il 1700; (12)
* fu definitivamente affermata la radice celtica (o presunta tale) degli scozzesi.
L'operazione fu in qualche modo legittimata dai sovrani inglesi, dall'ambiente militare (che adotto' kilt e cornamuse) e dalla nazione intera, che fu coinvolta in eventi politici, militari e culturali basati, appunto, su kilt e cornamuse, nonche' su clan, tartan, plaid ed elementi di folclore relativi.
Pochi oggi, in Gran Bretagna e in tutto il mondo, dubitano della genuinita' e dell'antichita' di queste presunte tradizioni.
Al di la' delle creazioni fantastiche di tempi piu' o meno recenti, non possiamo che ripeterci la domanda gia' formulata: puo' essere definito "celta" un ipotetico antico popolo, disperso su un intero continente, che non ha elementi di identita' solidi e comuni, non sa di esserlo e, comunque, non ha nessun interesse per una propria identita' nazionale o soprannazionale, se non quella occasionale e strumentale, prodotta da qualche sussulto nazionalistico o politico?
Note:
(1) lo spunto e' tratto, con qualche modifica, da S. James - I Celti popolo atlantico op. cit. pag 18.
(2) Si puo' controllare quanto affermato su opere come L.Rocci - Vocabolario Greco Italiano - Ed. Dante Alighieri
(3) Gli esempi sono esposti con in modo semplificato. Sarebbe necessario, piu' correttamente, riferire in merito agli studi fatti in rapporto al sanscrito e al suo ruolo nella civilta' indoeuropea, ma l'argomento esula dal presente testo. Si veda, ad esempio. G. Semeraro - Le origini della cultura europea - Firenze 1984 - Ed Olschki, oppure H.J. Stoerig - Abenteuer Sprache - Berlino 1987.
(4) Cfr. G. Agrati M.L. Magini (a cura di) - Merlino, l'incantatore - Ed Mondadori 1996, pag. 348
(5) Come si e' detto, si veda Prys Morgan - La caccia al passato gallese in eta' romantica - in L'invenzione della tradizione - Torino 2002 - Ed.Einaudi
(6) Vedi il citato Prys Morgan, pag 67
(7) ibid pag. 79
(8) ibid. pag. 62
(9) ibid. pag. 70
(10) Vladimir Grigorieff - Les mythologies du monde entier - Marabout Alleur 1987 Ed.It. Armenia pag. 119
(11) Hugh Trevor Roper - La tradizione delle Highlands in Scozia - in: L'invenzione della Tradizione op.cit. pag21 e segg.
(12) Ibid. pag. 23
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