martedì 17 dicembre 2024

CIPPO ETRUSCO CON FULMINE


Proveniente dell'Abbazia di Sant'Antimo (Museo Archeologico di Montalcino)

Si tratta di un cippo etrusco realizzato in trachite del peso di 31 chilogrammi con una altezza di 39 centimetri ed un diametro massimo di 30. Il pezzo, integro, si presenta come un grosso ciottolo, con una forma ovoidale schiacciata e rastremata verso il basso, dov’è percorso da un solco orizzontale largo circa 1 centimetro che delimita la parte in vista, accuratamente levigata, da quella scabra non in vista che veniva inserita originariamente in una base di pietra andata perduta. La superficie appare lucida per l’accurata levigatura. Il dorso, nel senso della larghezza, è decorato da una folgore stilizzata a rilievo, simile ad una freccia con due punte alle due estremità rivolte verso il basso, fiancheggiata ai lati della sommità da due piccole losanghe, anch’esse in rilievo. 
Il cippo in trachite insieme ad un altro cippo analogo, oggi scomparso e noto solo da una foto eseguita quando il pezzo si trovava presso il Castello della Velona vicino a Castelnuovo dell’Abate, proviene dall’Abbazia di Sant’Antimo. I cippi erano inseriti in due lastre di marmo bianco di riutilizzo, al lato della porta settentrionale dell’Abbazia, detta porta dei Catecumeni ; vennero successivamente asportati dalla parete dell’Abbazia, intorno al 1870, in occasione dei grandi restauri a cui il monumento fu sottoposto. Nel 1892 sappiamo che le due pietre erano già presenti nel vicino Castello della Velona, allora di proprietà della nobile famiglia Rossini - Martelli. Da allora, dei due pezzi non abbiamo più notizia fino agli anni cinquanta del XX secolo utilizzati come alari per il focolare di un camino del Castello di Velona, nel 1969 quando la Soprintendenza Archeologica per la Toscana procedette al recupero fu tuttavia ritrovato soltanto un cippo, quello che stava originariamente alloggiato nella nicchia destra della parete dell’Abbazia.




Il cippo esposto databile al IV-III secolo a.C., rientra in una tipologia nota realizzata con pietre dure (come la diorite, la trachite, il basalto e la serpentina) diffusa in tutta l’Etruria, per lo più interna con significativa concentrazione nell’area volsiniese e con tutta probabilità in relazione ad aree di culto dedicate a divinità ctonie. L’iconografia del fulmine che presenta il cippo di Montalcino è quella classica che rimanda agli esempi noti sugli specchi etruschi di IV e III secolo a.C. In base alla morfologia i cippi etruschi sono stati distinti in due tipi. Un tipo A generalmente di piccole dimensioni con spigoli stondati ed un gruppo B di forma ovoide rastremato in basso. Il gruppo B è distinto a sua volta in due tipologie in base alla sua funzione: destinazione, che presenta generalmente una iscrizione del defunto e una anepigrafe, con o senza decorazione. Il cippo di Montalcino rientra nella tipologia B con decorazione; ad oggi risultano in questa tipologia quattro esemplari provenienti da Orvieto, uno da Bolsena, uno da Sinalunga, uno da Pisa e uno da Perugia.

Questi cippi nell’immaginario etrusco dovevano essere considerati come pietre di origine celeste precipitate a terra dai fulmini, che talvolta vi venivano rappresentati, divenivano essi stessi simulacri aniconici divini e quindi oggetti di culto. Le provenienze di questi cippi quando sono note rimandano infatti ad aree sacre con spesso la presenza di un santuario. Per quanto riguarda i cippi murati nell’Abbazia di Sant’Antimo possiamo quindi ipotizzare che non lontano dal monastero esistesse un luogo sacro per gli etruschi della zona e che secondo una prassi ben documentata di persistenza di culto cristiano in luoghi di culto etrusco, vi si sarebbe sovrapposta l’abbazia romanica.

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domenica 15 dicembre 2024

Il disprezzo, del cristianesimo, verso le radici pagane dell'Occidente




- L'ipocrisia del cristianesimo quale goffo tentativo di camuffare ciò che è sempre stato, quale atto di superiorità e disprezzo verso il passato. Pagani eravate e pagani siete soltanto che lo avete scordato grazie alla menzogna dei preti che nega persino ciò che è ovvio alla vista.
In foto una delle tante processioni alla madonna e di seguito un passo da Tacito da De origine et situ Germanorum, capitolo 40.
«Dopo i Longobardi vengono Reudigni, Auioni, Angli, Varni, Eudosi, Suardoni e Nuitoni, tutti ben protetti da fiumi e foreste. Non c'è nulla di importante da dire riguardo a questi popoli tranne il fatto che tutti adorano Nerthus, che rappresenta la Madre-Terra. Credono che lei si interessi degli affari degli uomini e che li guidi.
Su un'isola nell'oceano si trova un bosco sacro in cui si trova un santo carro coperto da un drappo. Solo a un sacerdote è permesso di toccarlo. Egli è in grado di sentire la presenza della dea quando si trova nel santuario, e la accompagna con grande riverenza mentre si muove sul carro trainato da tori.
Si festeggia ovunque quando decide di fare l'onore di presentarsi. Nessuno va in guerra, nessuno usa armi, si vive in pace e quiete finché la dea, avendone avuto abbastanza della compagnia degli uomini, viene infine riaccompagnata dallo stesso sacerdote presso il suo tempio. Dopodiché il carro, il drappo e, se mi credete, la divinità stessa fanno il bagno in una misteriosa vasca.
Questo rito viene svolto da schiavi che, appena finito il compito, vengono affogati nel lago. In questo modo il mistero viene mantenuto, e rimane la beata ignoranza riguardo al suo aspetto, concesso solo a chi è destinato a morire.» -

La potenza umana

 Il nome di Amar Bharati sussurra nei circoli spirituali come una leggenda, non solo in India ma in tutto il mondo. Immagina questo: alzare il braccio per cinque minuti. Sembra impossibile, vero? Ora immagina di farlo non per minuti, non per ore, ma per 50 anni. Incredibile, ma vero. Il braccio teso di questo Sadhu indiano ha sfidato il tempo stesso, un monumento vivente alla sua devozione al Signore Shiva. La sua ragione? Un appello per la pace nel mondo, un voto silenzioso radicato in una fede incrollabile. Ciò che è iniziato come un atto personale di resa è diventato un mistero per tutti coloro che lo hanno incontrato, un simbolo enigmatico di resistenza, sacrificio e una forza spirituale che trascende i limiti della volontà umana.



Il mistero da sempre e per sempre insondabile che ci attornia

 “Nessun fiume contiene più uno spirito, nessun albero è più il principio vitale di un uomo, nessun serpente l’incarnazione della saggezza, nessuna grotta la dimora di un grande demone. Nessuna voce parla più all’uomo dalle pietre, dalle piante e dagli animali, né lui, credendo che lo possano sentire, parla più con loro. Il suo contatto con la Natura è cessato, e con esso la profonda energia emotiva che questa connessione simbolica forniva…”

Carl Gustav Jung


venerdì 13 dicembre 2024

I grandi movimenti del Medioevo

 In passato, i pellegrini che percorrevano sentieri si salutavano in latino con il saluto: Ultreia, che significa "continua ad andare, vai oltre". La risposta in latino era Et Suseia, che significa "vai più in alto". Questo è il nostro cammino da seguire... Ultreia, Et Suseia...



giovedì 12 dicembre 2024

San Paolo dalla demolizione del tempio pagano per eccellenza a Roma

 Questa statua di san Paolo si trova nella Cappella Cesi, chiesa di santa Maria della Pace, a Roma. Sarà anche bella, sarà anche ben fatta e ben accompagnata da altri decori.... ma non è altro che un blocco di marmo scolpito proveniente del Tempio di Giove Giunone e Minerva sul Campidoglio! Tutta la cappella proviene probabilmente dal sito pagano di cui ora non restano che pochi basamenti nascosti.



martedì 10 dicembre 2024

Forse tempio che custodiva il fuoco sacro

 Ka'ba-ye Zartosht, o cubo di Zoroastro, è un'affascinante struttura rettangolare in pietra a gradini situata all'interno del complesso di Naqsh-e Rustam vicino al villaggio di Zangiabad nella contea di Marvdasht, Fars, Iran. Probabilmente mausoleo e tempio del fuoco sacro dell'arcaica religione iranica



ROMA – IL TARENTUM UNA DELLE PORTE DEGLI INFERI


Non so quanti di voi sanno che a Roma ci fosse una delle porte degli inferi, questo almeno secondo gli antichi romani che popolavano la città diciamo, meno di due decenni dopo la morte di Cristo. Io, devo dire la verità non lo sapevo e ne sono venuto a conoscenza da poco e ho pensato che questo viaggio lo potevamo fare insieme.


Questo ingresso agli inferi si trovava del Terentum o Tarentum che dir si voglia, che a sua volta era in Campo Marzio, zona piuttosto vasta che occupava l’ansa del Tevere poco prima dell’isola sacra estendendosi fino alle attuali Piazza del Popolo e Piazza Navona.
Il Terentum è una località assai poco conosciuta a noi non addetti ai lavori e di cui siamo a conoscenza per dei documenti del 17 dc che ci dicono che si trovasse in “extremo Campo Martio”, dove si tennero i Ludi Terentini, in seguito divenuti Ludi Seculares tenendosi una volta ogni, più o meno, cento anni.
Lo storico Valerio Massimo del I secolo dc, ci narra che questi ludi ebbero origine dal capostipite di una antichissima gens maior del patriziato romano Volusus Valerius, giunto a Roma dalla Sabina al seguito di Tito Tazio per sanare le relazioni tra Romani e Sabini mediando tra costui e Romolo.
I suoi figli si ammalarono di peste ed egli si rivolse ai Lares. Il racconto prosegue e lui udì, proveniente dal bosco, una voce che gli ordinava di portare i figli lungo il Tevere fino al Tarentum e di far bere ai figli dell’acqua attinta dal fiume presso l’ara di Dis e Proserpina. Valesio eseguì e i figli caddero in uno sonno che riuscì a guarirli: in sogno videro una divinità maschile che ordinava loro di immolare vittime nere e di celebrare giochi notturni in tre notti consecutive.
Intenzionato a costruire lui stesso un altare, Valesio cominciò a scavare e trovò già pronto un altare a Dis e Proserpina, precedente occultato dai Romani affinché nessun non-Romano potesse trovarlo.
L’altare del racconto dello storico romano, come testimoniato dall’archeologo, ingegnere e cartografo, Rodolfo Lanciani, fu ritrovato nell’inverno del 1886 durante i lavori di sbancamento di Corso Vittorio Emanuele II in una zona tra la Vallicella e le rive del Tevere vicino San Giovanni dei Fiorentini, mentre lo studioso era però in America.
Tieni presente che questa zona all’epoca era una macchia vuota topograficamente parlando, una terra ignota secondo le mappe della città di Roma, perché il Terentum è mistero dall’inizio alla fine.
I rapporti degli operai addetti allo sbancamento parlano in maniera vaga del ritrovamento di cinque o sei muri paralleli, costruiti in conci di peperino, di gradini in marmo al centro di questo singolare monumento, di porte con stipiti ed architravi in marmo, che immettevano negli spazi tra i sei muri paralleli e, infine, di una colonna istoriata con fogliame.
Racconta lo studioso:
“Al mio ritorno a Roma, nella primavera del 1887, ogni traccia del monumento era scomparsa sotto Corso Vittorio Emanuele. Interrogai i capomastri, gli operai; consultai i registri delle imprese; ogni giorno visitavo i cantieri ancora attivi su ogni lato del Corso per la costruzione dei palazzi Cavalletti e Bassi: infine esaminai la “colonna istoriata con fogliame” che, nel frattempo era stata trasferita nel cortile del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio.
Questo frammento di marmo, l’unico sopravvissuto agli scavi, mi ha dato la chiave per risolvere il mistero. Non era una colonna, era un “pulvinus”, o capitello, di un colossale altare marmoreo, degno di essere paragonato, per dimensioni e valore artistico, all’Ara Pacis scoperta sotto Palazzo Fiano, nonché a quella degli Antonini scoperta sotto Monte Citorio ed ad altre strutture monumentali simili.
Non ci fu allora esitazione nel determinare la natura delle scoperte fatte a Corso Vittorio Emanuele: era stato trovato un altare e questo altare doveva essere quello consacrato a Dis e Proserpina, dal momento che nessun altro altare è menzionato nella storia nel versante nord occidentale del Campo Marzio.
I disegni che illustrano la mia tesi, provano che l’altare si innalzava su una base di 10 mq, circondata su tutti i lati da tre o quattro gradini marmorei; che la base e l’altare erano circondati da tre setti murari posti ad un intervallo di 10 m l’uno dall’altro e che sul lato est della piazza scorreva l’ euripus, o canale, largo circa tre m e mezzo, profondo un m e venti e delimitato da blocchi di pietra, la cui pendenza verso il Tevere era di 1:100”.
Il Terentum era stato individuato con certezza nonostante del preziosissimo materiale degli scavi non sia rimasto praticamente nulla e sappiamo anche che il nome deriva proprio da quello della pozza di fumante acqua sulfurea sita in quella “vallicella”.
Ecco quindi dove era l’ingresso degli inferi che molti avevano erroneamente collocato presso Piazza dell’Oro, molto più vivina alle sponde del Tevere.
Ora però sarai curioso di sapere dove si trova oggi questa porta degli inferi. La tavola 14 del Lanciani ce la indica, e il toponimo “vallicella” è sopravvissuto fino ai nostri giorni in quella che oggi è comunemente indicata a Roma come Chiesa Nuova davanti a Piazza dell’Orologio, visibile sempre in quella tavola.
La Chiesa Nuova è in realtà la Chiesa di Santa Maria in Vallicella e qui, comincia un’altra storia perché Roma è un sovrapporsi di luoghi, storie e misteri che sembrano non finire mai.
Siamo nel VI, quando del Terentum e della sua porta infernale che doveva trattarsi di una grotta ancora esistevano e dovevano essere luoghi malsani e terrificanti. Con il consolidarsi del cristianesimo si diffonde la pratica di trasformare i luoghi di culto pagani, in luoghi di culto cristiani. Ci pensa Papa Gregorio Magno, sul finire del VI secolo, a decidere di mettere una sorta di tappo sul Terentum facendo costruire il primo nucleo della Chiesa di Santa Maria in Vallicella, nella zona dove oggi sorge la Chiesa Nuova.
Le leggende narrano che i cristiani chiusero l’ingresso alla grotta dove si accedeva all’altare di Dite e Proserpina e la inondarono niente po’ di meno di acqua benedetta, ma la fantasia popolare vuole che gli spiriti maligni andarono via solo quando ettolitri di vino allagarono il luogo. Tieni presente che l’utilizzazione del vino è intesa come sangue dell’uva, in stretto rapporto con il sangue e di conseguenza con il sacramento cristiano.
Gli osti però devono aver approfittato della leggenda, perché nella zona fiorirono osterie dove si vendeva il “liquido” scaccia diavoli. Una buona scusa per bere vino.
Di questo primo nucleo del VI non sappiamo molto, ma considerate altre situazioni simili di Roma ho buoni motivi per credere che fu l’inizio della cancellazione del Terentum dalla memoria storica dei romani, operazione che a me sembra sia andata a buon fine.
Le prime notizie storiche certe che abbiamo su questa chiesa, le troviamo in una bolla di Papa Urbano III del 14 febbraio 1186 dove è denominata come Santa Maria in Vallicella, come parrocchia dipendente da San Lorenzo in Damasco e che quindi doveva preesistere a questa data.
Poi la ritroviamo nel XIII secolo ma con il nome di Chiesa della Natività della Madonna, mentre dal XIV secolo al XVI sarà Santa Maria in Puteo albo dal nome della contrada che a sua volta lo aveva preso da un’antica “vera di pozzo” in marmo bianco. Non mettevi paura, la “vera di pozzo” altro non era che una balaustra che impediva di caderci dentro (puteale).
Dobbiamo però arrivare fino al 1574 per avere un momento di gloria, quando accade che un affresco della Madonna del tipo della Nicopeia collocato sul muro esterno di una “locale della stufa” ovvero un bagno pubblico, venga colpito per sfregio da un sasso. Inutile dire che cominciò a sanguinare e inutile dire che diventò subito oggetto di culto per i romani e comunque alla fine lo abbiamo detto.
Si decise allora di staccarlo da un muro probabilmente poco consono per una reliquia, per essere affidato al rettore della vecchia chiesa medioevale di santa Maria in Vallicella che però stava ormai sprofondando nel terreno. Lo ricordi ancora che tipo di luogo era il Terentum?
Solo un anno dopo Papa Gregorio XIII affida a Filippo Neri ed ai suoi preti la piccola e fatiscente chiesa medioevale di S. Maria in Vallicella, a due passi da S. Girolamo e da S. Giovanni dei Fiorentini, erigendo al tempo stesso con la Bolla “Copiosus in misericordia Deus” la “Congregatio presbyterorm saecularium de Oratorio nuncupanda” ovvero l’accanto Oratorio di San Filippo.
Se non sei romano probabilmente non ti rendi conto di dove si trova questo grande complesso che comprende in un unico bocco, l’Oratorio di San Filippo Neri e la Chiesa Nuova, ovvero la Chiesa di Santa Maria in Vallicella. Siamo tra Corso Vittorio Emanuele II e via del Governo Vecchio e il complesso da le spalle a Piazza dell’Orologio, toponimo presente sulla Tavola 14 del Lanciani.
Se dai un’occhiata alla Tavola ti rendi conto che sorge esattamente sul Terentum e per renderti conto delle dimensioni possiamo aggiungere che oltre alla Chiesa di Santa Maria in Vallicella, vennero inglobate anche le chiese di Santa Elisabetta a Pozzo Bianco e santa Cecilia a Monte Giordano.
Una volta finita la costruzione della Chiesa Nuova (il cui nome ufficiale, non mi stancherò mai di ripetere, è Santa Maria in Vallicella) affresco miracoloso venne dapprima ricollocato nella cappella di destra, poi in quella di sinistra e alla fine nell’altare Maggiore affidando la realizzazione della Pala centrale e dei due dipinti laterali a Peter Paul Rubens, sì, proprio al pittore fiammingo.
Ruben realizza un’opera forse unica nel suo genere nella Pala centrale Intorno alla nicchia che ospita l’immagine sacra, posiziona cerchi concentrici di angeli e cherubini adoranti e invece di un quadro, realizza una macchina barocca forse unica nel suo genere, ma sicuramente unica a Roma.
L’immagine sacra oggetto di culto, viene protetta da una lamina di rame sulla quale il pittore fiammingo dipinge una Madonna Benedicente con Bambino. Attraverso un sistema di corde e pulegge, la lamina di rame scende fino a mostrare l’icona sacra.
Non solo, perché non dimentichiamo che siamo a Roma. La prima realizzazione sarà un olio su tela, ma non risulterà soddisfacente a causa dei riflessi e qui entra in gioco la genialità di Rubens decida di rifare tutto dipingendo su lastre di ardesia eliminando l’inconveniente dei riflessi, cosa che potete constatare da soli recandovi a vedere la chiesa. Impiegherà due anni per realizzare l’opera e nel tempo libero (scherzo ovviamente) realizzerà anche i due quadri a lato della Pala centrale, i santi Gregorio Magno, Papia e Mauro e a destra i santi Flavia Domitilla, Nereo e Achilleo.
Queste sono le uniche opere che si possono vedere del pittore fiammingo a Roma gratis senza pagare un centesimo perché Roma è un incredibile museo a cielo aperto.
Il Terentum è definitivamente dimenticato coperto per sempre dal complesso dell’Oratorio di San filippo Neri e della Chiesa Nuova. Dentro la chiesa, proprio davanti all’altare Maggiore, dove adesso è posizionato un secondo altare, c’è un grande cerchio di marmo come pavimento e, tieni a mente, che tutto il pavimento della chiesa dove cammini è in realtà un cimitero.
Bene, a me piace pensare che quel cerchio sia il punto esatto dove era l’entrata degli inferi, quella sorta di tappo voluta da Papa Gregorio Magno sul finire del VI secolo.
Tieni presente che a causa di cedimenti del pavimento nell’area davanti all’altare maggiore è severamente vietato calpestarlo e non è accessibile…per me è il Terentum romano che sotto ribolle…La Grande Madre mediterranea che, nonostante tutto, sopravvive, a dispetto di tutti e di tutto.
Un ultimo dettaglio, in molti siti troverete un ceppo con la scritta DITE PATRI E PROSERPIN SACRUM che si vorrebbe mettere in relazione con il Terentum. Ho fatto una ricerca, in realtà si trova presso il Museo Romanico-Germanico di Colonia e non ha nulla a che vedere con i luoghi di cui abbiamo parlato.
Per la galleria immagini che contestualizzerà alcuni paragrafi di questo viaggio clicca sul link
Se vuoi vedere il quadro motorizzato di Rubens clicca sul link
Roma Esoterismo e Mistero di Roberto Quarta Editoriale Olimpia 2007

lunedì 9 dicembre 2024

Il Demone-Angelo che è in noi

"Le tradizioni mistiche ed esoteriche sono collegate da un unico “filo d’oro”; l'uomo è un Dio decaduto: da uno stato di armonia e consapevolezza, si è involuto in uno stato di caos ed incoscienza. Questa "caduta" lo isola dal mondo spirituale e apre un abisso tra lui e il divino. La sua "scintilla divina" si è ricoperta del fango di questo mondo, ed egli ha iniziato a prendere le illusioni scaturite dai suoi sensi limitati per l'unica realtà. Ma l'uomo resta insoddisfatto e, anche se non lo ricorda, soffre per il distacco dalla sua "dimora celeste". Solo la conoscenza (Gnosi) della sua più intima essenza può annientare la sua angoscia esistenziale e condurlo alla salvezza.
L’iniziato mira al “risveglio”, al reale, a sollevare il "Velo di Maya". Ma svegliarsi può essere molto doloroso per chi è troppo immerso nel proprio sogno. Il mondo onirico non permette di dubitare della sua realtà, capiamo di aver vissuto nell’illusione solo al risveglio. Chi pensa di aver raggiunto il “vero” senza soffrire, spesso ha solo trovato un sogno più confortevole. La chiave per entrare in contatto con la realtà è conoscere noi stessi e ripulirci dai condizionamenti che velano la nostra reale essenza; cioè, come gli alchimisti, "separare il sottile dallo spesso”, il vero dal falso. L'unico modo per uscire dall'illusione è riscoprire il nostro Sé più profondo, ascoltare la nostra vera voce e trovare il coraggio di seguirla.


La Via iniziatica è una via di ritorno a casa; l’obiettivo dell’iniziato è riscoprire la sua "radice divina", risvegliare la sua anima caduta nell'oblio materiale e ricongiungersi alla sua fonte originaria. Il suo compito è riscoprire quanto di sacro è in lui per reintegrarsi nella sua reale essenza. Tutto il resto, per quanto grande agli occhi dei “profani”, è insignificante e svanirà spazzato via dal tempo. La persona non è che un fenomeno passeggero e la sua reale felicità non può che arrivare solo dopo aver distrutto l'illusione dell'io. Ricchezza, cariche, bellezza e gli altri "fantasmi" di questo mondo, non sono nulla per chi ha ritrovato il vero Sé."

- Coleritium, La Radice Divina