La peculiare visione archetipico-simbolica del filologo e musicologo tedesco Marius Schneider è racchiusa splendidamente in questo primo capitolo de “La musica primitiva” (1960) in cui le forze divine vengono viste, attraverso la meticolosa analisi dei miti di origine delle più svariate tradizioni, innanzitutto come “potenze sonore”
tratto da M. Schneider, “La musica primitiva”, cap. I
Adelphi, Milano, 1992, pp. 13 – 22
Adelphi, Milano, 1992, pp. 13 – 22
IL SUONO CREATORE DEL MONDO
Un gran
numero di informazioni sulla natura della musica e sul suo ruolo nel mondo
ci viene dai miti della creazione. Tutte le volte che la genesi del mondo è
descritta con sufficiente precisione, un elemento acustico interviene nel
momento decisivo dell’azione. Nell’istante in cui un dio manifesta la volontà
di dare vita a se stesso o a un altro dio, di far apparire il cielo e la terra
oppure l’uomo, egli emette un suono. Espira, sospira, parla, canta, grida,
urla, tossisce, espettora, singhiozza, vomita, tuona, oppure suona uno
strumento musicale. In altri casi egli si serve di un oggetto materiale che
simboleggia la voce creatrice.
La fonte
dalla quale emana il mondo è sempre una fonte acustica. L’abisso primordiale,
la bocca spalancata, la caverna che canta, il singing o supernatural
grounddegli Eschimesi, la fessura nella roccia delle Upanisad o
il Tao degli antichi Cinesi, da cui il mondo emana «come un
albero», sono immagini dello spazio vuoto o del non essere, da cui spira il
soffio appena percepibile del creatore. Questo suono, nato dal Vuoto, è il
frutto di un pensiero che fa vibrare il Nulla e, propagandosi, crea lo
spazio. È un monologo il cui corpo sonoro costituisce la prima
manifestazione percepibile dell’Invisibile. L’abisso primordiale è
dunque un «fondo di risonanza», e il suono che ne scaturisce deve essere
considerato come la prima forza creatrice, che nella maggior parte delle
mitologie è personificata negli dèi-cantori. Nei miti, la materializzazione di
questi dèi, nella forma di un musicista, di una caverna nella roccia o di una
testa (umana o animale) che grida è, evidentemente, soltanto una concessione
fatta al linguaggio più concreto e immaginoso del mito.
In origine
il termine Brahman significava «forza magica, parola sacra,
inno». È
dalla «bocca» di Brahmā che uscirono i primi dèi. Questi Immortali sono canti.
Le Upanisad non si stancano di ripeterci che i suoni OM e AUM
sono la sillaba «immortale e intrepida» creatrice del mondo. Secondo la Nādabindu
Upanisad, il soffio sonoro dell’Ātman (cioè l’Ātman stesso) è simboleggiato
da un uccello la cui coda corrisponde al suono della consonante M, mentre la
vocale A rappresenta l’ala destra e la U l’ala sinistra. Prajāpati, il
dio creatore vedico, nato anche lui da un soffio sonoro, è un canto di lode. Le
sue membra e il suo tronco sono composti di inni, la sua attività è perciò
puramente musicale.
« Tutto ciò
che gli dèi fanno, lo fanno tramite la recitazione cantata. » (Śatapatha
Brāhmana)
Gli Iakuti,
come pure gli antichi Egizi e alcune tribù primitive dell’Africa, immaginano
dio come un grande urlatore. Nella mitologia cinese sono numerosi gli dèi che
operano essenzialmente mediante grida o strumenti musicali. I ventidue
caratteri enumerati dal Sefer Yezirah sono le emanazioni
sonore e creatrici di Dio.
Molto spesso
il canto del creatore è identificato con il tuono. Tale assimilazione è sicuramente
molto antica: la troviamo infatti già nella mitologia di popoli primitivi come
i Californiani, gli Aranda dell’Australia, i Samoiedi e i Coriaki dell’Asia
settentrionale. Essa esiste inoltre nell’Africa meridionale (Zulu, Bashilange),
in Congo, in Niger e presso i Masai. In America, la sua diffusione è notevole e
persiste nelle grandi civiltà del Vicino e dell’Estremo Oriente. In Africa e
nell’Asia settentrionale, nel rumore della pioggia o del vento turbinante si
riconosce la voce di Dio.
Molto spesso
il creatore si presenta anche come un quadrupede ruggente (il
toro vedico o persiano), un insetto ronzante, un uccello-tuono oppure un
dio-cantore antropomorfo completamente bianco e splendente. Il dio Śiva
è un danzatore che suonando il tamburo, il flauto, la conchiglia o la cetra fa
in modo che il mondo continui a esistere. In Africa il dio creatore
dei Kamba è chiamato «Mulungu», che significa «felicità, bambù cavo, flauto».
In California (Kato, Pomo, Yuki) la voce tonante del creatore è prodotta da un
grande rombo. Il coccodrillo (egizio e cinese) che, per mettere ordine nel
caos, si percuote il ventre con la coda è un tamburo, ed è molto probabile che
il dio degli Uitoto (America), il quale estrae le acque primordiali dal proprio
corpo, sia anch’egli un tamburo. In Asia Minore, il dio Ea o Enki
è «bulug», il tamburo («la Parola del creatore»), così come lo sono gli
dèi che, guidando la creazione, si trovano incarnati in alberi parlanti (Lango,
Ottentotti, Pangwe), che corrispondono ai grandi tamburi-alberi, di solito
intagliati in forma di uomini o animali. Il dio Taaroa (Isole della Società)
generò se stesso in una conchiglia, probabilmente una conchiglia marina.
Secondo il Taitirīya Brāhmana, per dare origine ai primi ritmi del
mondo (rsi) Prajāpati scosse se stesso. Prajāpati era forse un sonaglio?
In certi
miti, il suono creatore non è simboleggiato direttamente da uno strumento
musicale, ma da alcuni oggetti ai quali si attribuisce la capacità di risonare.
È molto probabile che la canna di cui parlano i miti
giapponesi fosse un flauto di bambù. Il fumo della pipa, nel quale il gran
Manitù raccoglie le anime umane, simboleggia il ponte sonoro del
sacrificio. Numerosi racconti californiani ci riferiscono che il mondo
sorse dal canto di una penna o di una piuma. All’inizio la penna galleggiò
immobile sulle acque del nord, ma presto cominciò a cantare e a volteggiare
dirigendosi verso est, dove i suoi suoni fecero apparire la Terra. I riti ci
inducono a supporre che il volteggiare della penna disegnasse la forma di
una spirale.
L’idea del
mondo generato da un canto deve avere un’origine molto remota. A dimostrarlo
basterebbe la sua diffusione, ma appare antichissima anche perché non implica
la preesistenza di uno strumento di lavoro più o meno perfezionato. Le
civiltà tecnicamente più progredite ci mostrano spesso il creatore come un
vasaio, un falegname o uno scultore il quale, dopo aver foggiato i
corpi, comunica loro la vita mediante un grido, un’espirazione sonora o la
saliva. […]
Se il
creatore è un canto, è evidente che il mondo a cui dà vita è un mondo puramente
acustico. La Chāndogya Upanisad ci dice che il ritmo gāyatrī è
«tutto ciò che esiste». I ritmi o i metri enumerati dai riti vedici sono però
molti di più. Tali cerimonie ci dimostrano che il suono e il ritmo
peculiari a ciascun essere o il nome loro assegnato costituivano in effetti
l’essenza degli dèi invocati e degli esseri creati da loro. La radice,
la potenza e la forma di tutte le cose esistenti sono costituite dalla loro
voce o dal nome che portano, perché tutti gli esseri non esistono se non in
virtù del solo fatto di essere stati chiamati per nome.
La natura
dei primi esseri è puramente acustica. I loro nomi non sono definizioni, ma
nomi o suoni propri: non sono dunque solamente supporti vocali della forza
vitale degli esseri, ma gli stessi esseri. Anche il dio supremo, che crea se stesso,
ottiene l’esistenza pronunciando il proprio nome, salvo nel caso in cui sia lui
stesso generato dal suono di una campana (Giava), di un’orchestra di tamburi
(India), di una parola trasmessa con il tam-tam (Uitoto) o di un flauto di
bambù (Zulu). Questi suoni costituiscono allora, nell’ordine della creazione,
il più alto e antico grado sonoro concepibile.
IL SUONO-LUCE
In un gran
numero di miti si dice che i primi canti della creazione portarono il
chiarore o l’aurora. I popoli primitivi attribuiscono spesso quel grido di
luce al sole, al canto di un gallo divino o al ruggito di una belva affamata.
Nelle grandi civiltà questa azione meravigliosa è generalmente opera di un
animale domestico particolarmente venerato. Nell’antica Persia, la luce fu
evocata dal toro celeste di Ahura Mazdah. La letteratura vedica ci parla del
«muggito di una vacca luminosa» che simboleggia la nube gravida di pioggia.
La Kāthaka Upanisad descrive l’Ātman (l’essere supremo), che
si esteriorizza nella sillaba OM, come una luce intensa.
I Tahitiani
credono che la luce creatrice provenga dalla bocca del dio Tane. Secondo i
Maori, Dio creò l’Universo per mezzo di una parola che evocò la luce. Nei miti
polinesiani, Atua cominciò il suo canto nel mezzo della notte e il chiarore se
ne sprigionò soltanto verso il mattino. Quei canti sono dunque ora voci
luminose, ora suoni che producono chiarore. In genere i testi non sono molto
espliciti a questo proposito: in diverse leggende il creato nasce da un semplice
suono o da un raggio di luce, ma forse questi testi sono incompleti. È molto
probabile che la versione originale considerasse il fuoco o il
sole-cantore come un elemento primordiale, inudibile e celato nelle acque
tenebrose. Uscendo dal mare, quel canto (ora il creatore, ora una creatura
di Dio) si unisce al canto delle acque e appare l’aurora. Se ci atteniamo al
simbolismo del temporale, il pensiero creatore di Dio è il grido-lampo
che produce il tuono, e soltanto dopo il temporale il canto di luce del sole
comincia a irradiarsi.
La Maitrāyana
Upanisad considera l’Ātman come il «primo» sole da cui emanano
numerosi ritmi che, dopo aver «sfavillato, versato pioggia e cantato inni»,
ritornano alla «caverna» dell’essere supremo. A volte questa caverna sonora
o questo sole primordiale sono simboleggiati da un uovo splendente o da una
lucente conchiglia dalla quale spuntò l’astro solare. Dopo che il dio egizio
Amon, sotto forma di oca, ebbe covato l’uovo solare, con la voce annunziò la
luce. Secondo la Chāndogya Upanisad, tutto ciò che esiste
si sviluppò in un uovo munito di una fessura da cui uscì il sole cantore.
Ora, simbolicamente, l’uovo con la fessura corrisponde, sul piano
antropologico, a una testa la cui bocca emette il primo canto della creazione.
L’Aitareya Brāhmana ci dice che l’uovo covato dall’Ātman «si aprì
come una bocca» per proferire la prima parola o per dare alla luce la testa di
Purusa (il gigante cosmico). Il Rg Veda ci segnala i
sette Rsi, poeti mitici o metri poetici il cui canto generò la prima aurora e
formò la testa di Prajāpati, incaricata di pronunziare le sillabe creatrici del
mondo. Secondo un’altra versione, Prajāpati nacque da un concerto di
diciassette tamburi.
L’immagine
della testa come simbolo dell’uovo o della caverna può facilitare la
comprensione di certe formule frequentemente usate nella descrizione di questo
primo stadio, puramente acustico, della creazione. Dire che gli dèi
«producono» e «fecondano» per mezzo della bocca, mentre si «nutrono» e
«concepiscono» tramite l’orecchio, è soltanto un modo di esprimersi
simbolico per significare che, durante il primo stadio della creazione, tutti
gli atti erano di natura acustica. […] Cantando dapprima tra sé e sé, gli dèi
realizzano la partenogenesi, caratteristica degli inizi della creazione. Thot,
il dio creatore della musica, della danza e della scrittura, e anche il
dio-sole si fecondano perciò da se stessi ridendo o lanciando un grido di luce.
La scuola di Heliopolis esponeva la storia della creazione in due differenti
versioni. Secondo la prima il dio-sole generò gli altri dèi per mezzo di un
grido di luce. Nella seconda versione questo grido è sostituito da un atto di
masturbazione o da una espettorazione del sole.
Poiché la
parola, il sole o l’uovo sono dapprima immersi nella notte delle acque eterne,
è evidente che quando evocano l’aurora essi sono impregnati di umidità. Nella
cosmogonia dei Dogon (Africa), questa «parola umida e luminosa» interviene in
tutti gli stadi della prima fase della creazione. Il ruolo di rischiaratore
attribuito agli dèi-musicisti sembra implicare, fin dagli inizi della
creazione, la posizione che le antiche civiltà riconoscevano anche alla musica
all’interno della cultura umana. Situata fra le tenebre e la luce del
primo giorno, sul piano umano la musica si trova fra l’oscurità della vita
inconscia e la chiarezza delle rappresentazioni intellettuali; appartiene
dunque in gran parte al mondo del sogno. Nel primo stadio della
creazione, durante il quale i suoni si rivestono a poco a poco di luce, la
musica precorre il linguaggio intelligibile come l’aurora precede il giorno.
Essa racchiude al tempo stesso l’oscurità e la luce, le acque e i fuochi. La
musica è il sole umido che canta l’aurora. Ma, via via che i suoni si
precisano, questo «linguaggio» primario si divide: una parte si avvia a
divenire la musica propriamente detta; un’altra si incarna nel linguaggio
composto di frasi chiare e distinte, soggette al pensiero logico; la terza
parte si trasforma a poco a poco in materia.
È stata
rilevata più volte la strana caratteristica che questi miti hanno di menzionare
spesso, agli inizi della creazione, alcuni elementi concreti (acque, fuochi,
uovo, testa, penne, animali) che sono già oggetti creati. In realtà, tali
elementi non sono che simboli materiali dei primi fenomeni puramente
acustici. In quel mondo umido di suoni e di luce, la musica è la sola
realtà, e si trasforma parzialmente in fuoco, in acqua e in altri oggetti
concreti soltanto dopo l’apparizione della materia. Le tenebre e le acque
simboleggiano probabilmente il suono puro, mentre la luce che precisa a poco a
poco i contorni delle acque corrisponde al metro. Le «acque eterne incorporate
dai raggi dell’aurora» possono essere interpretate soltanto come un simbolo
della musica primordiale.
Tale musica
sembra composta ora di grida o di sillabe magiche, ora di gemiti o di rumori
inarticolati. Sotto questo aspetto i documenti sono contraddittori, ma è molto
probabile che si tratti di un grido di gioia mescolata a dolore, dal momento
che tutti questi dèi hanno una natura duplice. Nel linguaggio simbolico, il
carattere ermafrodita di quella musica è espresso chiaramente dalla sua
identificazione con l’aurora, poiché la fusione della notte e del giorno, delle
acque e dei fuochi o della pioggia e dei raggi di sole «nel rumore delle nozze
lucenti dell’aurora» (Rg Veda) è una metafora del matrimonio, ossia
di un ritmo prodotto dall’unione del suono e del metro. La musica è il
prototipo del principio concertante delle forze della natura. Tutti
gli altri fenomeni della natura concreta che presentano due aspetti antitetici
sono soltanto espressioni materiali di una legge essenzialmente musicale. Gli
antichi filosofi non si stancarono perciò di usare metafore attinte alla
musica, che è la prefigurazione e l’essenza del cielo e della terra.
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