giovedì 27 dicembre 2012

La prima religione Italica ed europea: IL PAGANESIMO

IL SASSO DEL REGIO
Il reperto Che a culti pagani si siano sovrapposti nel corso dei secoli culti cristiani è un fatto consolidato per quanto concerne molti luoghi sacri delle nostre campagne, trovarne l’evidenza tangibile è tuttavia sempre una sorpresa; quando poi emergono prove che residui del culto pagano palesemente perdurano evolvendosi a fianco del culto cristiano fino ai nostri giorni, la cosa diventa davvero interessante e degna di esame. Il “Sasso del Regio” scoperto di recente a Stia, in Casentino, rappresenta qualcosa che va ben oltre tutto ciò e ben oltre ogni possibilità di piena comprensione. Vi sono in Casentino, quattro santuari dedicati alla Madonna sui siti di altrettante teofanie manifestatesi fra il XIV e il XV secolo ed è chiaro che questi "interventi della Madonna" abbiano avuto luogo al fine di por termine ad un persistente culto popolare pagano.
In una località presso il Santuario della Madonna delle Grazie, nel Comune di Stia in provincia di Arezzo, sul pendio sud occidentale del Monte Falterona, abbiamo riscontrato, su segnalazione del proprietario del terreno, l’esistenza di un manufatto consistente in elaborate figurazioni incise su una superficie verticale di pietra arenaria. La parete, perfettamente orientata verso ovest, appartiene ad un masso erratico spaccato da un grosso rovere cresciuto da inseminazione spontanea in un suo anfratto, non meno 50 anno or sono. La complessa raffigurazione, di circa 130 cm di altezza, è dominata da ciò che sembra a prima vista un “albero della vita” fruttifero che si ramifica dai due fianchi di una collinetta sul culmine della quale si erge un fallo. Dal basso verso l’alto, si trova, in continuità col fallo, una vulva e sopra di essa una nicchia a doppia profondità con base orizzontale e volta a tutto tondo. I rami fruttiferi dell’albero, cinque su ogni lato, terminano al di sopra della nicchia. Sul lato sinistro di chi guarda, in basso sulla stessa parete rocciosa, si trova la figura stilizzata di un orante. La raffigurazione fin qui descritta pare appartenere ad un’unica epoca ed essere eseguita dalla stessa mano. In alto, separata, ma facente parte di questa composizione, si trova, al centro della superficie in oggetto, una testa circolare rudimentale mostruosa, avente occhi e naso incavati e bocca con espressione triste. Dalla testa si leva una croce, forse incisa in epoca posteriore. Sui due lati della testa sono incise due figure antropomorfe, a destra una figura elementare, con testa, torso e gambe e sinistra la stessa con pancia prominente. Potrebbe trattarsi di una figura femminile rappresentata prima e dopo la fecondazione. Sul culmine del sasso, in corrispondenza con la croce, si trova una cavità naturale poi aggiustata a formare un piccolo bacino della capacità di circa 200 cl. Nel terreno circostante si nota la presenza, sia pure sporadica, di frammenti di laterizi romani e di recipienti di terracotta rossa. La roccia è situata sul dorso di un contrafforte della collina sovrastante circa 70m l’ex casa colonica del podere Docciolina, che si trova a qualche centinaio di metri a sud del Santuario della Madonna delle Grazie per chi proviene da Stia. La strada che da Stia raggiunge il santuario transitava un tempo di fronte alla stessa casa colonica, mentre oggi transita alcune decine metri più in basso. L’antica strada, oggi non più percorribile nel tratto fra la casa e il santuario, risale forse al XV-XVI secolo, epoca in cui fu edificato lo stesso santuario. La data di costruzione del muro a retta che sostiene la strada stessa e del muro di terrazzamento che sostiene il terreno al di sopra di essa, è abbastanza facilmente arguibile. Lungo la strada, ad intervalli regolari, si trovavano dei "monti domini", oggi rimossi e giacenti qua e là, che un tempo portavano croci di legno. Al piano terra della casa, al livello della strada, si trovano due stanze oggi adibite ad uso di cantina e magazzino, entro quella di destra, sulla parete dalla parte del pendio collinare, vi è una profonda nicchia, dalla quale sgorga dell’acqua che forma una concrezione calcarea biancastra. Osservando il piano terra delle suddette stanze si nota che in origine la nicchia con la sorgente si trovava al centro di un ambiente dal pavimento ben lastricato, oggi diviso fra i due vani, contenente al centro una vasca quadrangolare nella quale probabilmente si riversava, mediante un canale ben visibile, l’acqua della fonte. Il proprietario riferisce che alcuni anziani, ex contadini del circondario, asseriscono che la roccia col manufatto era un tempo nota col nome di "Sasso del Règio" e che rappresenta “un santo eremita” o “un frate”, mentre la fonte all’interno della casa era ritenuta miracolosa essendo "frequentata soprattutto da donne" sino ad epoca recente "che con l’acqua si medicavano gli occhi". Il luogo era anche meta di una processione religiosa, che aveva luogo durante le “erogazioni”, proveniente dal vicino Santuario della Madonna delle Grazie. La tipologia di questo manufatto, se pure unico nel suo genere, lo farebbe ascrivere ad un contesto non cristiano e lo identificherebbe come “apparato liturgico” per officiare un rito legato al culto della fecondità. E’ altresì possibile che la frequentazione ed il culto si siano protratti fino all’era moderna e che perciò il manufatto si è conservato. Vi sono chiari indizi che testimoniano il protrarsi della frequentazione del Sasso fino a circa trenta anni fa da parte delle popolazione locale, che in certe occasioni qui si riuniva per officiare delle “messe nere”, come riferiscono oggi diversi testimoni oculari. Non esistono, a nostro parere e neanche a parere di vari esperti di arte rupestre convocati sul posto, raffigurazioni analoghe a quella del “Sasso del Regio” altrove. Tuttavia, sempre in Toscana, si trova a Massa Marittima l’affresco delle “Fonti dell’Abbondanza”. E’ questa un’opera pittorica “colta”, cioè non ascrivibile all’arte popolare, risalente al XIII secolo ma che esplicitamente fa riferimento agli stessi elementi simbolici per alludere al concetto di fertilità : albero fruttifero, acqua, attributi sessuali. Il contesto archeologico del Sasso del Regio è ricco e complesso e da quindi adito a varie e anche contrastanti interpretazioni. Sul fianco sud occidentale del Monte Falterona (1658m), ossia sul costone che precipita verso l’Arno a sud e ad ovest del Poggio Castellare (977m), si trovano numerose rovine di abitazioni di epoca tardo romana e barbarica, sottoposte ad indagine archeologica ormai da un decennio. Gli scavi di 5-6 delle numerosissime abitazioni, hanno rivelato edifici monolocali con fondazioni di pietrame, elevati in terra battuta e copertura a tegole ed embrici ad incastro. Le case erano con tutta probabilità abitate da pastori che coltivavano anche qualche varietà di cereali. A fianco di ognuna delle costruzioni, disposte caoticamente e distanti una decina di metri l’una dall’altra, vi era una capanna di frasche e legname. I reperti mobili rinvenuti dagli archeologi consistono in ceramiche di impasto, ‘dolia’ ed anfore, attrezzi agricoli analoghi a quelli ancora in uso alcuni anni or sono nella stessa zona e monete datate dal III secolo d.C. inoltrato al VI. La toponomastica della zona conserva un idronimo greco nel torrente adiacente al monumento (fosso della Basèlica) e un toponimo derivante dalla stessa radice (Basèrca) si trova poco oltre, nella valle del torrente Staggia. (G.A.C. (ed) –1990) Sulla sommità del Poggio Castellare, una prominenza del costone del Falterona che scende sino al castello guidigno di Porciano, vi sono tracce di costruzioni non ancora indagate al momento della stesura di questo articolo. Il monumento in questione ed il suo contesto geografico, attendono un accurata indagine archeologica. Nel frattempo un sollecito intervento conservativo e di tutela si rende assolutamente indispensabile soprattutto per frenare il rapido degrado già in atto. Paganesimo, magia, superstizione Non vi è motivo di ritenere un falso l’opera di Charles Godfrey Leland che testimonia la sopravivenza del paganesimo etrusco-romano nell’Appennino tosco-romagnolo fino alla fine del XIX secolo (Leland C.G., 1898). E’ quindi opportuno esaminare il soggetto in rapporto a ciò che oggi riscontriamo nella stessa zona ed in particolare in relazione al ritrovamento di cui sopra. Il Leland (1824-1903), storico delle religioni e Presidente della Gypsy-Lore Society di Londra, recuperò, sul finire dell’800, nell’Appennino a cavallo fra Romagna e Toscana, uno straordinario retaggio di elementi del paganesimo etrusco-romano, inspiegabilmente sopravvissuto nella tradizione popolare di quella zona. Il fatto è straordinario, non si tratta infatti di regioni remote e marginali della nostra penisola, bensì del cuore della campagna italiana più evoluta e ricca. E’ evidente, come appare attraverso il rigoroso ed ineccepibile lavoro del Leland, che nella Romagna toscana e nelle aree limitrofe delle province di Firenze e Arezzo, la “vecchia religione” era sopravvissuta intatta sino ai giorni nostri, a fianco di quella cristiana, relegata de facto in secondo piano e a lato delle superstizioni notoriamente presenti nella cultura popolare. Queste credenze e pratiche segrete registrate quando erano ancora vive e diffuse e se pur taciute, note a molti, testimoniano la sopravvivenza, nel centro più civile dell’Italia cristiana, non solo di una forte fede in antiche divinità, spiriti, elfi, streghe, incantesimi, sortilegi, profezie, pratiche mediche ‘alternative’, amuleti, ma addirittura del paganesimo classico. E’, quello miracolosamente tramandatoci dal Leland, un mondo spirituale parallelo, celato o negato da benpensanti, che ben lo conoscevano e dal quale traevano forse motivo d’imbarazzo. Una cosa è, infatti, accettare l’esistenza di stregonerie e superstizioni, peraltro condannate anche in epoca romana, ben altra cosa è venire a patti con la sopravvivenza del paganesimo tout court. L’autore descrive puntualmente, documentandola con metodo rigorosamente scientifico, questa civiltà territoriale che sarebbe altrimenti rimasta ignota, come l’esistenza di libri etruschi, senza lasciar traccia, fornendo una mole di informazioni essenziali per una sua accurata verifica. E’ interessante notare che il confine naturale fra Romagna e Toscana, ossia il crinale appenninico, che è stato confine politico soltanto fra il VI e l’VIII secolo d. C., costituisce uno dei più drastici confini linguistici d’Europa. La catena appenninica che divide le due regioni non costituisce un baluardo naturale tale da giustificare la cesura linguistica che invece vi si osserva. Né le Alpi, né i Pirenei e nemmeno il Caucaso o il Pamir, hanno confini linguistici lungo i loro spartiacque. E’ solo in epoca moderna che questi sono venuti sempre più a coincidere con gli spartiacque laddove essi sono divenuti confini politici invalicabili. Come spiegare il fenomeno tosco-romagnolo? Il dialetto romagnolo appartiene all’area linguistica franco-provenzale ed ha il suo confine meridionale sul versante adriatico con il fiume Cesano, in provincia di Pesaro. Quest’area linguistica, come tutte le altre dell’Italia attuale, è residua di una distribuzione precedente l’unificazione romana della penisola, anche se è improbabile che questa coincida con esattezza con quella di duemila anni fa. Il dialetto romagnolo e i vernacoli dell’area limitrofa della Toscana, sono incompatibili ed incomprensibili l’uno all’altro. I vernacoli del versante toscano hanno un preciso e netto confine solo lungo il crinale appenninico fra Pistoia e Cagli, essi sfumano, infatti, gradualmente nel ligure-parmense, nell’umbro o nel laziale altrove. Il marcato confine linguistico fra Toscana e Romagna coincide col confine politico militare fra l’Italia Longobarda e quella Bizantina, vale a dire fra la Tuscia e l’Esarcato di Ravenna, solo fra il VI e l’VIII secolo; né prima, né dopo questa linea geografica costituì un confine politico rilevante. Sia in epoca etrusco-romana sia in epoca medievale, la gente poteva oltrepassare questo crinale in tutta l’area sopra indicata, senza remore di sorta. Resta da spiegare perché un simile divario linguistico non si riscontri invece su confini politici presidiati per secoli da eserciti contrapposti. Una spiegazione potrebbe trovarsi nel fenomeno della transumanza, così poco studiato nei suoi effetti linguistici. Tutti i pastori della montagna romagnola, che dal Pistoiese al Montefeltro si recavano in Maremma e parlavano il toscano fino all’epoca in cui chi scrive vi iniziò le proprie ricerche (1964-67). Tutta questa area montana del versante adriatico, appartenuta politicamente a domini comitali a cavallo dell’Appennino, quindi ai comuni di Pistoia, Firenze ed Arezzo fino da quando esistono documenti, era bilingue. Il toscano era parlato dai pastori delle campagne e il romagnolo dagli abitanti dei borghi e delle cittadine. Con l’andare del tempo, e con l’evoluzione economica che ha portato ad estendere l’area della coltivazione del grano sempre più in alto, causando il restringimento o la scomparsa dei pascoli, il romagnolo è risalito fino allo spartiacque. Tuttavia rimane da risolvere il dilemma che tradizioni pagane, etrusche e romane – e non semplici superstizioni e stregonerie - siano sopravvissute in maniera così evidente, non solo e non tanto in Etruria propria, ossia sul versante toscano, ma su quello romagnolo, che oltre ad essere area linguistica “gallica”, ha subito traumatici sovvertimenti genetici e culturali a seguito delle invasioni barbariche e di consistenti immigrazioni levantine. Mi pare di poter ritenere che queste tradizioni sia esistite soprattutto nell’ambito culturale della transumanza e quindi nell’ambito culturale e linguistico toscano, intatto all’epoca del Leland e oggi stravolto. Sul versante toscano e in particolar modo in Casentino, la stragrande maggioranza dei toponimi appare rimasta inalterata dal 1000-1200 a.C. fino ad oggi. Si badi bene, ciò denota una continuità culturale, non genetica. La sostituzione genetica accertata nel Casentino come altrove a causa dello spopolamento dovuto in primo luogo alle Guerre Gotiche, poi ad epidemie e quindi da forti immigrazioni, non ebbe luogo, evidentemente, in modo traumatico, ma graduale. La sostituzione genetica deve essersi compiuta nell’arco di alcuni secoli, consentendo la trasmissione dei toponimi e di altri tratti culturali dagli indigeni agli immigrati. Tale fenomeno è in atto oggi con l’immigrazione di africani, albanesi, rumeni, polacchi ecc. i cui figli, anche se nati nei paesi di origine parlano perfettamente il vernacolo locale. Una così densa concentrazione di toponimi preistorici come si riscontra nel Casentino non ha eguale in altre parti d’Europa. Ciò mette ancor più in risalto la totale assenza di tali toponimi sul versante romagnolo. Qui solo Cesena e Ravenna hanno toponimi preromani certi. Se tutto ciò fosse vero sarebbe risolto il mistero di come tracce di paganesimo etrusco-romano si siano potute conservare fino alla fine del XIX secolo proprio in Romagna, dove già nel VI secolo la popolazione latina era ridotta al 50%, col 40% di Levantini (greci siriaci, armeni, ebrei, egiziani, ecc.) e il 10% di Goti (A. Pertusi, 1963). Nel Casentino e in Mugello, dove la sostituzione genetica si realizzò con modalità diverse e culturalmente non traumatiche. Comunque sia, questa è solo una delle possibili spiegazioni di questo fenomeno antropologico di straordinaria singolarità che caratterizza l’area della ricerca del Leland. Dall’opera stessa del Leland traspare, a vari livelli d’interpretazione, l’autenticità assoluta del lavoro. Nel testo dell’antropologo americano, analogamente a quanto accade in altri anche moderni che trattano la stessa tematica, si trovano costrutti quali “paganesimo”, “vecchia religione”, “stregoneria”, “magia” e simili, che rischiano di causare, nella mente del lettore non specialista, una gran confusione fra concetti e significati spesso radicalmente diversi. Occorre chiarire che anche la religione pagana condannava la “stregoneria” –vi sono documenti relativi a streghe date al rogo in autori classici- ed è quindi erroneo riferirsi alla stregoneria come “vecchia religione”, intendendo con ciò il “paganesimo” classico. (R. Lane Fox, 1986). La stregoneria era probabilmente ritenuta “vecchia religione” persino dai Romani e dai Greci che la sanzionavano con leggi severe. Un conto è quindi la credenza in divinità e spiriti del pantheon pagano classico, ben altra cosa sono invece la magia e la stregoneria, che derivano da tradizioni preistoriche antichissime o, come vedremo nel caso specifico del Sasso del Regio, alla presenza di popolazioni indoeuropee pagane. Superstizione, in latino ‘superstitio-onis’, deriva da ‘superstare’ o “star sopra”; il lemma indicava originariamente una cosa che è ‘al di sopra della realtà terrena’, piuttosto che un’aberrazione della religione come nel suo significato moderno. La superstizione è al di sopra ed è quindi inaccessibile; l’etimologia stessa del termine ne spiega quindi il concetto. La pratica della magia, invece, si perde nella notte del Paleolitico ed è basata su due principi essenziali. Il primo principio consiste nel credere che una cosa ne produca una eguale, ossia, che l’effetto somigli alla sua causa; il secondo nel credere che due cose che sono state legate, continuino ad influenzarsi a vicenda dopo essere state separate. Il primo principio è definito “Legge della Similarità”, mentre il secondo “Legge del Contatto o Contagio”. Secondo la Legge della Similarità, il ‘mago’ assume di poter produrre qualsiasi effetto desiderato, imitandolo, mentre secondo la Legge del Contatto egli ritiene che una azione prodotta su di un oggetto avrà ripercussioni sulla persona alla quale l’oggetto appartiene o che con tale oggetto ha avuto contatto.( J. G. Frazer, III, 1, 1922) Il Lavoro del Leland tratta queste materie, senza tuttavia fare le dovute distinzioni che invece il lettore moderno dovrà fare, per non cadere nell’errore di far di tutta l’erba un fascio. Il complesso dei graffiti del “Sasso del Regio” la cui esecuzione inizia con tutta probabilità nella preistoria, esprime a nostro avviso ambedue le tradizioni, quella pagana di ambito greco-romano e quella della stregoneria di ambito indoeuropeo. Tuttavia, l’impostazione iconografica così come appare oggi, mostra analogie con la Kabbalah in versione cristiana, o ermetica, facendo sospettare il sovrapporsi di un intervento, forse anche recente, da parte di intellettuali appartenenti alla tradizione cabalistica cristiana del circolo mediceo fiorentino oppure di illuministi o rosicruciani dell’800 o del ‘900.(A.C. Ambesi,1990) Modalità dell’affermazione del Cristianesimo Come scrive J.A.F.Thomson, (1998) “Mentre i luoghi sacri del paganesimo diventavano tabernacoli di santi e martiri, le autorità ecclesiastiche esercitavano il controllo su di essi e sui riti che vi si svolgevano”. Sulpicio Severo riporta che perfino San Martino di Tours era scettico sul fatto che sotto i templi cristiani dedicati ai martiri si trovassero davvero le loro ossa; quando scoprì che sotto un altare era sepolto un brigante, subito fece distruggere l’altare. Il paganesimo fu bandito da Teodosio I (379-395) che dichiarò la religione cristiana unica religione dell’Impero. Tuttavia è giusto chiederci fino a che punto il popolo minuto -delle città come delle campagne- fosse realmente cristianizzato nel IV secolo. E’ chiaro che nella maggior parte dei casi la gente accettava i riti e le formule della Chiesa come supplementi delle loro reali credenze, primo perché era obbligata ad accettare il cristianesimo per legge, secondo perché la sua cultura era politeistica (J.A.F.Thomson, 1998). I primi cristiani furono infatti ebrei e appartenenti ad altre religioni monoteiste, come il buddismo e il mazdaismo. Nelle città, in virtù del fatto che la stragrande maggioranza della popolazione era di origini levantine, il Cristianesimo attecchì presto e senza problemi (J. M. H. Smith, 2005). I Goti che invasero l’Italia provenivano dai Balcani, i loro leader erano di lingua greca e di fede Ariana, ma è naturale che fra le loro masse multi-etniche predominasse il paganesimo di radice indoeuropea. Il Concilio di Nicea (324) condannò l’arianesimo e stabilì che il Padre e il Figlio avevano la stessa, e unica, sostanza; il Concilio di Calcedonia (451) affermò invece la dottrina della doppia natura – umana e divina - in Cristo. Tuttavia rimasero radicate altre credenze come, appunto, quella degli Ariani che riteneva il Figlio di sostanza simile ma non identica a quella Padre. Nel regno barbarico che emerse in Italia dalle rovine dell’Impero, convissero le due credenze, quella ariana e quella ‘ortodossa’ del Concilio di Nicea. Il primo sovrano d’Europa, il franco Clodoveo, abbracciò l’ortodossia, mentre la maggior parte dei sovrani germanici rimaneva ariana; tuttavia le due versioni del Cristianesimo si tollerarono reciprocamente. Gli Ostrogoti ed i Longobardi erano di fede ariana, Teodorico scoraggiò le conversioni proprio per mantenere chiara la divisione ‘etnica’ fra Romani e Germani. Il Cristianesimo ortodosso era infatti diffuso solo fra i Levantini che in prevalenza –con l’eccezione del Ravennate dove immigrati ebrei convertiti al cristianesimo divennero anche contadini- risiedevano nelle città (A. Guillou, XVIII Convegno di Studi Romagnoli, Cattolica, 1967). Prima di aderire all’Arianesimo, i popoli germano-iranici (Sarmati e Germani orientali) erano in prevalenza adoratori di Ahura Mazda e fu solo nel III secolo che essi decisero di abbandonare Mithra e di abbracciare il cristianesimo ariano, che dal mithraismo ereditò la liturgia e spesso anche i templi del culto, evento simbolizzato nell’arte dalla comparsa dei Magi – i sacerdoti di Mitra- nell’iconografia cristiana. I mitrei diventano le prime chiese cristiane, ovvero le ‘cripte’ sulle quali sorgeranno le chiese posteriori. Costantino (IV sec.) si rivolge spesso agli aruspici etruschi per interpretare i segni premonitori, come avevano sempre fatto i cesari. Nelle sue dichiarazioni pubbliche egli non fa mai riferimento ad alcuna divinità soprattutto allo scopo di non offendere i monoteisti che a Roma erano di certo la maggioranza. Impiegando gli aruspici - è evidente- Costantino non offendeva alcuno. Il riferimento agli aruspici nelle cronache costantiniane ci dimostra non solo la loro attività nei secoli IV e V, ma induce a ritenere che, nelle regioni più remote e appartate d’Italia, come ad esempio in Casentino, la loro sopravvivenza si sia protratta ancor più a lungo. Ciò che fa supporre che i numerosissimi toponimi etruschi e pre-etruschi del Casentino siano stati trasmessi ai Longobardi da una popolazione rurale di lingua etrusca, sono i fatti a cui ci troviamo di fronte. Uno di questi fatti è l’apparente mancanza di una fase latina nell’evoluzione del vernacolo casentinese, rilevata da numerosi linguisti, l’altro è il numero stesso dei toponimi pre-latini in Casentino, numerosissimi nonostante essi siano sicuramente dimezzati dall’epoca longobarda. Mentre i rarissimi toponimi etruschi in altre province toscane possono essere stati tramandati dalla tradizione latina fino all’epoca in cui si stipulano i primi atti notarili, è assai improbabile che ciò sia accaduto nel Casentino dove praticamente ogni toponimo di insediamento antico era -e spesso è tuttora- etrusco nella stragrande maggioranza dei casi. Nel Casentino devono essere stati anzitutto le istituzioni monastiche a diffondere il cristianesimo. Come accadeva in altre parti d’Italia e dell’Impero, monaci e asceti cristiani si offrivano come paradigmi (W. H. C. Frend, 1967). Vi sono buone ragioni per giustificare l’istituzione, fra il X e il XII secolo, di case comuni come quelle di Selvamonda, Tega, Santa Trinita in Alpe, Camaldoli, Capo d’Arno, Cetica, ecc., nei più remoti recessi della valle, tutte queste case comuni nascono presso fonti sacre, o “benedette”. Qualche secolo più tardi San Francesco viene chiamato ad estirpare il “male” dall’orrido nascondiglio della dea Laverna, come vedremo più avanti, mentre più tardi ancora, fra XIV e XV secolo, quattro teofanie mariane tenteranno di estirpare il male da altrettanti luoghi di culto pagano frequentati dalla popolazione casentinese. Come scrive il Thomson, il successo di queste misure adottate dalla Chiesa per sradicare credenze e pratiche spesso millenarie è assai dubbio. Nel paganesimo tardo indoeuropeo molte pratiche sono legate all’avvicendarsi delle stagioni e soprattutto centrate attorno a riti concernenti la fertilità e la buona riuscita dei raccolti (Thomson. 1998, 1-10). I concili delle Gallie e dell’Iberia del VI e VII secolo denunciano il persistere di culti antichi attorno ad alberi e a fonti sacre. Nel 693 il re visigoto, Egica ordina ai vescovi di disciplinare i contadini che fanno offerte sacrificali agli idoli e di consegnare tali offerte alla chiesa più vicina. Vengono inoltre prese severe misure contro coloro che adorano sassi, fonti ed alberi (Thomson, 1998, 1-11). Ancora più tardi i codici di Liutprando (727) e di Carlomagno, contemplano pene severe per coloro che adorano fonti ed alberi (Thomson, 1998, 1-13). Da Bede apprendiamo che Gregorio Magno consiglia Sant’Agostino di Canterbury di convertire i templi adattandoli al culto cristiano. Fu il suo successore Bonifacio IV a trasformare il Pantheon di Roma in chiesa cristiana. All’inizio del X secolo, come riportano fonti agiografiche, i Baschi erano ancora pagani. (Thomson, 1998, 1-17) Il metodo adottato dagli evangelizzatori e dai missionari del primo medioevo era quello della conversione dall’alto al basso nella scala sociale e non viceversa. I predicatori del medioevo ottenevano anzitutto il consenso dei governanti, dei signori locali, convertendo anzitutto loro, poi seguivano battesimi di massa coinvolgenti l’intera popolazione di una “curtis”. San Colombano di Bobbio, accingendosi nel 590, a diffondere il monachesimo irlandese nell’Europa franca non si appellò alle autorità ecclesiastiche della Gallia, bensì ai re franchi. Nel cristianesimo primitivo il battesimo di un individuo segnava invece la conclusione di un lungo periodo di istruzione. Non deve sorprenderci se le conversioni del medioevo non riuscirono a sradicare le tradizioni pagane, perciò la Chiesa dovette consentirne il sincretismo oppure sradicare il paganesimo con la forza. Poiché il mondo indoeuropeo era politeista, il problema dell’evangelizzatore non era quello di far accogliere il Cristo -dal momento che un politeista accetta con facilità un nuovo dio- ma quello di far accettare l’idea di un solo dio “che reclamava il monopolio della verità” (Thomson, 1998) e che tacciava ogni altra divinità, fin ora adorata e venerata, insignificante o demoniaca. Il re sassone Redwald dell’East Anglia eresse un altare a Cristo nel tempio dove erano venerati altri dei (Thomson, 1998, 1-18). Un libretto di penitenze del VII secolo dell’Arcivescovo Teodoro di Canterbury, proibisce l’assunzione di carni di animali “sacrificati ai demoni” e di “fare incantesimi con l’aiuto degli àuguri” (Thomson, 1998, 1-23). Dal tardo VIII secolo in poi, orde asiatiche pagane si riversarono di nuovo sull’Europa, fra queste vi erano gli Eruli di Scandinavia, che verranno chiamati “Vichinghi”, gli Slavi, i Bulgari, gli Ungari, ma tutti questi popoli si convertirono abbastanza rapidamente. Verso l’inizio del XII secolo il paganesimo nell’Europa occidentale era ormai relegato underground. Ad est, costretta com’era fra la Polonia cattolica e la Russia bizantina, la Lituania rimaneva saldamente attaccata al paganesimo che andò underground solo nel XV secolo inoltrato. Nel resto d’Europa, solo un gruppo minoritario assai disperso, quello degli Ebrei, rimaneva fuori dalla Chiesa. Nonostante l’accusa ufficiale di essere responsabili della morte di Cristo, gli Ebrei sopravvivevano ma solo laddove essi promettevano di non cercare di far proseliti o di tenere schiavi cristiani. La maggior parte di essi gettarono la spugna e si convertirono. L’antisemitismo era, allora come oggi, istigato dall’ordine costituito, piuttosto che dal sentimento popolare e perciò molti ebrei non avevano la convinzione, l’energia o le risorse per una perenne lotta senza quartiere. L’albero, il sasso, la fonte, l’eremita e il monaco Alla Docciolina c’è l’albero, c’è il sasso e c’è la fonte. Naturalmente il sasso e la fonte sono lì da secoli mentre l’albero ha si e no 40 anni, tuttavia è assai probabile che in passato un venerando albero abbia adombrato sia il sasso sia il pellegrino che vi giungeva per devozione. Il Sasso viene da alcuni definito come “immagine di un eremita”. Ma perché un eremita o la sua immagine dovrebbero diventare oggetto di culto e venerazione? La spiegazione sta nel fatto che la devozione mutò la sua natura quando la costante minaccia di persecuzione diminuì e quindi scomparve. L’ascesi sostituì il martirio come il più alto ideale a cui il cristiano potesse aspirare. All’inizio del III secolo, Clemente di Alessandria, è il primo fra i Padri della Chiesa a porre sullo stesso piano il martire e l’asceta. Durante le due generazioni fra il 260 e il 324 l’ascesi si diffonde come modo prevalente di esprimere la pietà cristiana. Per il Casentino occorre ricordare Illaro, nato in questa valle verso il 476, che lasciò memoria di sé a Sant’Ellero di Reggello, castello guidigno. L’ascesi è di origine induista e fino al XVI secolo inoltrato gli Indù sono ritenuti cristiani, come si apprende persino dagli scritti di Vasco da Gama e di altri viaggiatori portoghesi dell’epoca. Dal monaco palestinese Pseudo Palladio (343-430) abbiamo resoconti di prima mano concernenti i contatti fra il Levante e il Gange. Su tutta questa immensa regione si parlava l’aramaico dal III secolo a.C. mentre il greco vi era conosciuto fino dal IV secolo. Sull’esempio buddista e induista, incominciano a formarsi comunità religiose di cristiani Levantini che si ritirano dal mondo, concentrando la loro attenzione su questioni divine, liberi dalle distrazioni della vita quotidiana. Nel terzo secolo già esistevano fra i cristiani “famiglie” o congregazioni di asceti formate da uomini o donne celibi e nubili. Panfilo di Cesarea presiede su una confraternita di celibi dediti all’apprendimento delle cose sacre. Queste “famiglie” di celibi erano numerose in tutta l’Anatolia. Nel Simposio di Metodio, modellato sull’opera di Platone, undici donne si uniscono in conversazioni che esaltano la castità, ma che hanno il vero intento di fornire una “regola” o manuale di dottrina per comunità di asceti di sesso femminile. La comunità di Metodio gode del patronato di una ricca fondatrice e si trova sulle sue terre. Questo monachesimo rappresenta la diretta continuità di quello ebraico dei cosiddetti “Therapeutae” del I secolo i cui aderenti erano considerati cristiani dai cristiani stessi. Il monachesimo più antico ha infatti le sue radici in quello ebraico la cui tradizione, conservatasi nei secoli in Mesopotamia, fu reintrodotta in Siria in Palestina e in Egitto da missionari manichei (McNeill, W.H. 1963). Sant’Agostino era appunto uno di questi manichei, la sua “Regola” porta con se le tracce evidenti di una lontana provenienza: il monachesimo buddista. (S. Agostino, “La regola”) Dal IV secolo d.C. in poi ha luogo una consistente immigrazione di Levantini ebrei, siriaci, armeni, egizi, greci e iranici in particolar modo verso Ravenna e la Romagna. Molti ebrei diventano infatti contadini dell’esarcato e sono antenati dei romagnoli di oggi (A. Pertusi, 1963). E’ probabile che alla Docciolina sia anche vissuto, in antica epoca cristiana, una venerabile asceta forse proveniente dalla Romagna.
Laverna----------------------------------------------------------------- "Pulchra Laverna, da mihi fallere, da iusto sanctoque videri, noctem peccatis et fraudibus obice nubem". ( Orazio, “Lettere” XVI – 60) "No est in toto sanctior orbe mons" (Non vi è monte più santo al mondo) Scritto su una lapide presso l'ingresso a la Verna. Non esisto ad associare La Verna del Casentino alla divinità romano-italica Laverna, risultando ciò palese sia dalla derivazione del nome, sia dal fatto che le notizie tramandate dalla tradizione popolare concernenti la persistenza del culto di Laverna, provengono dall'Appennino tosco-romagnolo e da Firenze e provincia, dove operavano, fino ai primi decenni del XX secolo, “streghe e stregoni” romagnoli. La montagna della Verna è un enorme monolite di roccia sedimentaria miocenica 'alloctona' (nel caso specifico pare proveniente dall'Appennino ligure) che poggia su arenarie e crete di epoca posteriore, costituendo un punto di riferimento assai ben visibile da grande distanza sia dal Casentino sia dalla Valtiberina. Vista da Bibbiena o da Poppi la forma della montagna è, in effetti, vagamente riconducibile a quella di una figura umana sdraiata, priva di testa, della quale La Penna è la spalla, e su cui il monastero si erge all'altezza del pube. E' del tutto probabile che così abbiano interpretato la montagna le popolazioni antiche del Casentino, poiché rientrava nel loro modo di percepire il leggere lineamenti antropomorfi in formazioni naturali per ascriverle poi a manifestazioni di divinità ctonie (terrestri). Laverna era infatti, nel Pantheon latino italico una variante dell' Ecate omerica. Chiusi della Verna era con tutta probabilità una postazione doganale in epoca romana, quando numerose greggi provenienti dal Montefeltro e dall'alta Vatiberina vi transitavano provenienti da Compito ('trivio') dove da generazioni si rinvengono tombe a fossa con suppellettili di epoca etrusco-romana. E' plausibile che, come riportato dalla tradizione, negli anfratti della Verna si nascondessero ladri e malfattori che prosperavano grazie al traffico che si svolgeva lì attorno. Nella primavera del 1213 Francesco e Frate Leone vagavano per il Montefeltro predicando e benedicendo. In occasione di una festa locale, il Conte di Chiusi, Orlando Catani, volle fare al santo un'offerta consona alla sua ricerca di solitudine. Si riporta che il conte si sia rivolto a Francesco in questi termini: "Io ho in Toscana uno monte divotissimo il quale si chiama monte della Vernia, lo quale è molto solitario e salvatico ed è troppo bene atto a chi volesse fare penitenza, in luogo rimosso dalla gente, o a chi desidera fare vita solitaria. S'egli ti piacesse, volentieri Io ti donerei a te e a' tuoi compagni per salute dell'anima mia." L'offerta piacque a Francesco, che inviò due suoi compagni a vedere questo monte. Avuta conferma di quanto il conte diceva, accettò l'offerta con grande gioia. La Verna fu donata a Francesco affinché egli sconfiggesse il "male" che vi si annidava e liberasse il luogo dai pericoli, dalla paura, dal peccato e dal maligno. La zona era tanto temuta che …"il conte stesso volle accompagnare insieme con 50 soldati per timore dei ladri e delle fiere che infestavano il bosco"…, come recitava una iscrizione affissa presso la Cappella delle Stimmate. Dice il Beni che nel fianco della parete rocciosa, verso la valle, "si celano all'occhio selvaggi dirupi, grotte tenebrose, caverne inaccessibili, voragini profondissime". Lo stesso Beni scriveva che dal precipizio si entrava "in una tortuosa galleria della quale a suo tempo nessuno conosceva l'estensione, la direzione o la profondità. Alcuni frati tentarono di esplorare questo luogo, ma arrivati ad un certo punto stimarono cosa prudente tornarsene indietro".(C. Beni, 1881) Non a caso Francesco scelse il più profondo anfratto della montagna, il Sasso Spicco –che secondo la configurazione antropomorfa della roccia corrisponde alla vagina della dea- come luogo di preghiera e meditazione, per sgominare il maligno dall'interno. All'interno del Sasso Spicco si celavano probabilmente quelle praticanti che operavano aborti e sostituzioni di neonati, di cui parla la tradizione ottocentesca raccolta meticolosamente da G. C. Leland (1898). Se certi accostamenti anatomici offendessero la sensibilità di alcuni fedeli, basterà che questi riflettano sui tempi a cui facciamo riferimento e al fatto, comune in tutto il mondo cristiano, che laddove esisteva un luogo sacro pagano di grande potere, il culto della Madonna vi si radicò con più determinazione e vigore che altrove, proprio per sconfiggere il maligno. Se la Verna è oggi un luogo di pace, d'amore e di tranquillità, dedicato a Santa Maria degli Angeli, è proprio in virtù dell'opera di San Francesco. La Kabbalah Ermetica e il mistero svelato…almeno in parte La similitudine formale fra il Sasso del Regio e l’Albero della Vita della Kabbalah appare troppo evidente per essere relegata al livello di coincidenza. La Kabbalah rappresenta un aspetto del misticismo giudaico. Essa comprende un vasto insieme di speculazioni sulla natura del divino, sulla creazione, sul destino dell’anima e sul ruolo degli esseri umani. La Kabbalah è un insieme di pratiche mistiche meditative devozionali e magiche, insegnate a pochi eletti ed è per questo che la Kabbalah è considerata un aspetto esoterico del giudaismo. Sotto alcuni aspetti, la Kabbalah è stata anche praticata o studiata, da centinaia di anni, dai cristiani. Il termine “Kabbalah” significa “ricevere, accettare” ed è sinonimo di “tradizione”, vale a dire “ricevere o accettare la tradizione”. Il termine può essere scritto o pronunciato in numerosi modi: Qabalah, Cabala, Qaballah, Qabala, ciò è dovuto a diverse interpretazioni e relative trascrizioni delle lettere ebraiche in lettere romane. Il modo corretto di scrivere la parola è Kabbalah. Secondo la tradizione giudaica la Torah (la “Legge” ovvero i primi 5 libri della Bibbia) esisteva prima della Creazione ed è un “manuale” che Dio impiega per operare, ad esempio, la creazione dell’uomo. Quando Mosè ottiene le tavole della legge da Dio, egli riceve anche la legge orale, quella non scritta, da tramandare di generazione in generazione. A volte questa tradizione orale è definita Kabbalah. Nasce così fra gli Israeliti una tradizione orale segreta che contiene una conoscenza, una interpretazione iniziatica della Torah, dei suoi significati reconditi e del divino potere in essa contenuto. Alla radice dalla Kabbalah c’è la credenza nella divinità della Torah a che studiando i testi secondo questa tradizione non scritta si sveli il segreto della creazione. La Kabbalah ha anche a che fare con la tradizione biblica della profezia. Il profeta, scelto da Dio, parla a nome di Dio. I Kabbalisti, insomma, credono di essere gli eredi dei profeti biblici. E’ solo fra il 100 e il 1000 d.C. si sviluppa una letteratura kabbalistica nella tradizione giudaica, non esiste evidenza della Kabbalah prima di allora. Tuttavia, in alcuni suoi aspetti ed in particolare quello “ermetico”,la Kabbalah esula dall’ambito della religione ebraica. Date le affinità formali circa i simboli raffigurati sul Sasso Regio e alcuni appartenenti alla “Kabblah Ermetica” o “Cristiana”, è bene esaminare in cosa questa consista. Da circa 500 anni, ebrei e non ebrei si sono dedicati alla Kabbalah Ermetica o Kabbalah Cristiana, come era chiamata agli inizi. Le origini di questa nuova tradizione sono da ricercarsi nell’Italia del Rinascimento e nell’ultima decade del XV secolo (per coincidenza, data di costruzione del santuario di Santa Maria delle Grazie). A quel tempo, a Firenze, Marsilio Ficino aveva istituito l’Accademia Platonica sotto il patronato mediceo e stava traducendo Platone. In questo ambito avvenne la scoperta di un corpus di manoscritti in greco su papiro, del I e II secolo d.C., noto come “Corpus Hermeticum” poiché attribuito a Hermes Trismegistus, il nome greco del dio della sapienza egizio, Thoth. A seguito di questa scoperta, Cosimo de’ Medici ordinò a Ficino (1460) di occuparsi di questo materiale e sospendere la traduzione di Platone. Si ritenne allora che questi manoscritti fossero un corpus di religione egizia e che Hermes fosse una sorta di Mosè. Essendo i testi imbevuti di filosofia neoplatonica ed essendo ritenuti assai più antichi di quanto in realtà fossero, si manifestò l’idea che la stessa filosofia platonica derivasse dalla filosofia religiosa degli Egizi. Questa idea ebbe una grande risonanza nel mondo intellettuale del Rinascimento. Allo stesso tempo giungevano in Italia ebrei spagnoli cacciati dalla Spagna nel 1492 ed essi portarono con se la Kabbalah, che fu ritenuta, appunto, la chiave del sapere inziatico della Bibbia. Due uomini si fanno avanti come interpreti di questa nuova visione filosofica, uno è Pico della Mirandola, che fa fare diverse traduzioni di testi kabbalistici rendendo nota la Kabbalah agli intellettuali suoi contemporanei; l’altro è Johannes Reuchlin, che imparando l’ebraico si immerge nella letteratura kabbalistica. Da questo amalgama di cristianesimo, ermetismo, neoplatonismo e umanesimo rinascimentale trae origine la “Kabbalah Ermetica”. Nei secoli questa forma di misticismo si è sviluppata i varie direzioni venendo ad arricchirsi di massoneria e di rosacrucianesimo, ma mantenendo nella sostanza il suo spirito originario. Questa forma di misticismo kabbalistico ermetico cristiano, non pretende di definire Dio o dettare in cosa uno uomo debba credere, ma ritiene che sia possibile ottenere un certo livello di conoscenza di Dio e che ciò possa avvenire applicando un metodo pratico. La Kabbalah ermetica del Rinascimento ha conservato fino ai nostri giorni alcuni elementi originari nell’ambito della scuola europea della magia nera, come sostiene R. Aryeh Kaplan, (1992). La linea di divisione fra la Kabbalah ebraica e quella ermetica sta nel fatto che la prima si occupa di teurgia e la seconda di taumaturgia. Per essere più semplici, mentre la prima partecipa nell’opera divina per migliorare la creazione, la seconda interferisce con la creazione a beneficio del praticante. La Kabbalah ermetica è legata a riti cerimoniali nell’ambito di numerose tradizioni teosofiche e soprattutto sataniche o di magia nera. Se pensiamo al fatto che alcuni abitanti di Stia hanno fatto riferimento alla pratica di “messe nere” presso il Sasso Regio, questo fatto gioca a favorire dell’ipotesi che si tratti davvero di una raffigurazione kabbalisica ermetica. Una domanda davvero interessante è quella di chi può aver creato questa immagine di Stia. Nota sul monachesimo e le sue origini Il monachesimo non lo inventano né Pacomio, né Sant’Antonio, ne altri Padri a del Deserto, poiché già esisteva da secoli nelle religioni zoroastriana, ebraica e induista, vale a dire in una unica ed inscindibile sfera culturale, politica e commerciale. Intanto l’elemento principale di unità di questa sfera culturale, politica e commerciale sono le lingue greca ed aramaica che consentivano a mercanti, studiosi, saggi, mistici e asceti, di viaggiare di capirsi dalla costa mediterranea fino al Gange e all’Oxo. Altri elementi unificanti erano l’ellenismo e l’esistenza di accademie greche in tutto questo territorio, quindi l’influenza politica partica e sassanide. Tuttavia, come osserva William H. McNeill (pp.381), l’importanza dell’influenza indiana sul monachesimo e su altri aspetti della pietà cristiana è stata esagerata da un lato e troppo sminuita dall’altro. Era comune agli inizi del 900 esagerare l’apporto indù al cristianesimo, d’altro canto, appariva chiaro come le comunità ascetiche ebraiche, come ad esempio quella di Qumran ed accenni biblici ad antichi profeti che abitavano nel deserto, avessero potuto offrire ai cristiani modelli importanti. Tuttavia nei precedenti ebraici non si riteneva che il fine della disciplina ascetica fosse la visione beatificante di Dio, come invece era il caso nell’induismo. Inoltre, gli effetti psicologici indotti dal digiuno e da altre privazioni fisiche non si affermavano come visioni dell’Immenso. Le interpretazioni indù di tale esperienze nel campo della teologia e della trascendenza, possono invece essere state di fondamentale importanza nella formazione culturale dei primi mistici cristiani. In sostanza, McNeill ritiene che il monachesimo cristiano debba assai più a quello indù e buddista che non a quello ebraico. Giovanni Caselli Gennaio 2006 Questo articolo è pubblicato nella rivista "Memorie Valdarnesi" 2006

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