venerdì 31 ottobre 2008

La storia travisata

“ Newton non fu il primo dell’età della ragione ma fu l’ultimo dei maghi”

John Maynard Keynes

sabato 11 ottobre 2008

Verona archeoastronomia: simbolismi nella pianta urbana di Verona romana


Gli studiosi di Verona da sempre hanno sostenuto l’ inattendibilità delle tesi di Umberto Grancelli.

Finalmente l'anno scorso in una conferenza il Prof. Adriano Gaspani ha definitivamente chiarito la questione .

Dagli studi esposti l'archeoastronomo dell'osservatorio astronomico di Brera, ha sottolineato che la città di Verona è allineata sul solstizio d'estate (tesi sempre sostenuta dal Grancelli) lo stesso cardo è allineato su questa direzione.

Il cardo della città è l'asse che passa dal centro di Piazza Erbe ed è la continuità di Via Pellicciai così che dopo Piazza erbe diviene via della Costa.
Mentre il decumano è l'attuale via Cappello e il suo ideale prolungamento dopo la Piazza delle Erbe e non viceversa.



Simbolismo ed archeoastronomia nella pianta urbana di Verona romana


Nella sua prefazione al libro del Grancelli, Alessandro Da Lisca sintetizza con efficace semplicità il riferimento di base dal quale sostanzialmente muove la ricerca del Grancelli, scrivendo che:

Si tratta di quel ciclo solare dall’aurora al tramonto che simboleggia la vita dell’uomo dalla culla alla tomba (…)

e aggiungendo che, sulla base di questo concetto: l’autore, interpretando con metodo nuovo e originale dati storici ed archeologici, e tenendo conto dei sistemi di orientamento, pure ispirati al ciclo solare, seguiti dai gromatici nel tracciare il piano dell’antica città, ci offre un quadro veramente inatteso di Verona romana. (Grancelli 1964: p. 5)

Grancelli, a sua volta, ci conferma, fin dalla prima pagina, che la sua è una ricerca diretta a controllare con ogni mezzo se si poteva riconoscere l’esistenza di un piano di fondazione della città romana basato sui motivi intuiti e, in modo particolare, sul moto apparente dell’astro del giorno che esprime, col suo ciclo luminoso, il concetto della ‘dynamis’ creatrice. (Grancelli 1964: p. 9)

Un progetto di ricerca che, com’egli scrive giustamente, siamo nel 1964, non poteva giovarsi di precedenti esperienze.

Ma, come risulta da molti segni, il decennio compreso fra la metà degli anni ’50 e la metà dei ’60, è un periodo che in realtà stava rivelandosi potenzialmente già maturo per simili studi.

Non dimentichiamo che giusto nove anni prima, nel 1955, si era svolto a Roma patrocinato dall’Is.M.E.O., e quindi da Giuseppe Tucci, un prestigioso convegno internazionale di storia delle religioni dedicato al simbolismo cosmico dei monumenti religiosi, al quale avevano partecipato studiosi quali Jean Daniélou, che espose il simbolismo del Tempio di Gerusalemme, Mircea Eliade che intervenne sui rapporti fra l’idea di ‘centro del mondo’ e la costruzione sia dei templi che delle case comuni, e ancora Lévi-Strauss, Carl Hentze, Marcel Griaule, lo stesso Giuseppe Tucci, per ricordare i più noti.

Siamo inoltre in quegli anni che vedono, ma più all’estero che in Italia, anche la gestazione d’una nuova e straordinaria scienza interdisciplinare, che sarà nota in seguito come Archeoastronomia, Etnoastronomia o, più correttamente, Astronomia culturale, la cui nascita ufficiale si fa convenzionalmente risalire al rivoluzionario studio fatto da Gerald Hawkins, astronomo dello Smithsonian Observatory, con l’ausilio del calcolatore, sugli allineamenti del complesso megalitico di Stonehenge, Stonehenge Decoded, studio pubblicato a Londra nel 1965.

In realtà, come ricorda il Prof. Romano, il vero precursore è un sudtirolese, l’ingegnere Georg Innerebner, il cui primissimo studio sul castelliere di Colle Joben a Monticalo, a sud di Bolzano, risale addirittura al 1937, mentre quello più importante, intitolato “La determinazione del tempo nella preistoria dell’Alto Adige”, è significativamente del 1959.

Grancelli precorre dunque anche lui, a suo modo, i tempi, e va anch’egli annoverato fra i pionieri di questa scienza.
Ma le sue genuine intuizioni e parziali scoperte non vengono adeguatamente apprezzate dai contemporanei.

In Italia l’Archeoastronomia propriamente detta arriverà del resto molto ma molto più tardi, all’inizio degli anni ‘80, con le ormai note ricerche paleoastronomiche del citato Prof. Giuliano Romano.
Pensate che il primo convegno internazionale di Archeoastronomia in Italia, al quale abbiamo avuto il piacere di partecipare, si è svolto solo nel 1989.

Ma, ed è certo la cosa più interessante da sottolineare, Grancelli è sorretto nelle sue giuste intuizioni da un metodo ben diverso da quello usato sia in archeologia che in tutte le altre scienze accademiche contemporanee, compresa la stessa Archeoastronomia.

Da un metodo antico quanto l’oggetto del suo studio, quel metodo tradizionale che solo pochi decenni prima è stato riesposto in Occidente da un autore quale René Guénon in primissimo luogo, e quindi dai diversi suoi collaboratori e continuatori, di diverso livello, come Arturo Reghini, Ananda Kentish Coomaraswamy, Giuseppe Tucci, Julius Evola, Mircea Eliade, etc. Ed è questo un punto importante, sul quale alla fine ritorneremo.

Oggi tutto ciò appare invece quasi scontato.
Ne è testimonianza, fra le decine di altre pubblicazioni che potremmo citare, l’uscita, giusto un anno fa’, d’una interessante monografia a cura di Francesco Vitale intitolata Astronomia ed esoterismo nell’antica Pompei e ricerche archeoastronomiche a Paestum, Cuma, Velia, Metaponto, Crotone, Locri e Vibo Valentia, edito a Padova dalla CleuP.

Altri dopo di noi riferiranno in dettaglio delle tante analisi ed interpretazioni che Grancelli sviluppa nel suo libro, riguardo ai diversi specifici punti significativi della pianta dell’urbe veronese.

Diciamo subito, sinceramente, che non tutte ci hanno convinto, e che in particolare ci lascia perplessi la sua onnipresente teoria di quello che egli chiama lo ‘schema capanniforme’, schema geometricamente riconducibile ad un triangolo equilatero sovrapposto ad un quadrato.

Secondo Grancelli, esso rivelerebbe le corrispondenze più nascoste di quella che egli chiama la ‘città segreta’.
È in realtà la ben nota figura geometrico-matematica della tétraktys pitagorica, la cui specifica applicazione alla pianta di Verona, così come di qualunque altra città romana, ci sembra piuttosto arbitraria e forzosa.

Vi è in effetti in Grancelli un’assimilazione palesemente incompleta di quel metodo tradizionale di cui alla fine ancora diremo, intorbidata da evidenti influenze occultistiche dalle quali il nostro non sembra essersi mai del tutto liberato.

Ma tutto questo potrà esser ripreso e puntualmente verificato con calma sulla base degli strumenti estremamente rigorosi e perfezionati, sia tecnici che teorici, di cui oggi finalmente dispone la ricerca archeoastronomica.

Diremo invece brevemente solo due cose di carattere più generale, riguardo al simbolismo naturale del territorio e al simbolismo artificiale, cioè voluto dall’uomo, della pianta urbana.

In realtà, c’è un aspetto che il Grancelli sembra stranamente trascurare quasi del tutto in questo suo studio, anche se dimostra di conoscerne comunque qualche elemento in un altro suo insolito e curioso libro, quello dedicato a Il simbolismo ermetico nella vita di Cristo, edito nel 1947, ov’egli esamina in particolare i luoghi della Terra Santa alla luce di simboli quali quelli della Montagna sacra e della Caverna al suo interno, del fiume sacro che scende da nord a sud, cioè dall’alto verso il basso come quel fiume celeste che è la Via Lattea, etc.

Qual è dunque quest’altro aspetto non trascurabile del problema?
Diciamo che, in modo generale, esso si connette a quella che, tradizionalmente, viene definita ‘geografia sacra’.
Infatti, prima ancora dell’arte di fondare, orientandola, una nuova città, deve intervenire una vera e propria scienza relativa alla scelta del luogo naturale in cui stabilire un nuovo insediamento, una nuova città.

Tali conoscenze, molto più antiche della stessa tradizione romana, etrusca o celtica, affondano addirittura nella preistoria dell’Eurasia.

Questa scienza si è conservata, nella forma probabilmente più vicina a quella dei primordi ed anche più completa, soprattutto in Cina.

Si tratta della famosa disciplina nota come feng-shui, letteralmente ‘vento ed acqua’, tuttora praticata, la quale cerca di individuare le correnti del ch’i, del soffio psichico naturale vivificante, soffio che è lo stesso sia nell’ambiente naturale, nel macrocosmo, così come all’interno dell’essere umano, nel microcosmo.

Tali correnti vengono riconosciute a semplice colpo d’occhio grazie agli affioramenti delle catene montuose, interpretate come vere e proprie spine dorsali di quei possenti ‘draghi ctoni’ che, sprofondando e riaffiorando dalla terra o dall’acqua, così formando anche le isole, rendono visibili quelle linee e campi d’energia della terra che ne corrugano la superficie.
Per certi versi è un po’ il precedente di quella ‘tettonica a zolle’ che contraddistingue la geologia contemporanea.

Ora l’energia, il ch’i, la spinta tellurica, è detta concentrarsi soprattutto nella ‘testa’ protesa in avanti del dragone, tant’è che in India e Tibet, ma anche in diverse antiche tradizioni occidentali, proprio questa testa del genius loci doveva venire trafitta e ritualmente fissata mediante un arma, un palo od una colonna per prevenirne tutti movimenti inconsulti, psichici o materiali, e quindi non solo i terremoti.

Questa ‘testa del drago’ è, nella configurazione ideale prevista dalla feng-shui, una montagna o comunque un’emergenza posta a nord, simbolo evidente di quella montagna cosmica, posta direttamente al di sotto della stella Polare, che funge da asse della terra secondo tutte le tradizioni eurasiatiche.

Il sito, sempre secondo la configurazione ideale, e a riprova della costante corrispondenza fra macro e microcosmo, fra corpo del paesaggio e corpo umano, dovrebbe quindi presentarsi nel suo complesso, e a sud di questo Venusberg, di questo vero e proprio ‘Monte di Venere’, come una sorta di vulva formata da un duplice anello di rilievi montuosi o collinari che, proprio come le grandi e le piccole labbra, circondano una piccola piana centrale, meglio se circoscritta anche a sud dalle acque.

Piana la quale costituisce a sua volta l’utero in cui può svilupparsi, protetto e nutrito da un concentrico afflusso di energie, il nucleo del nuovo villaggio, della nuova città.

Per completare, nelle sue linee essenziali, il dettato di base della feng-shui, ricorderemo che nel costruire le diverse parti della città, o comunque anche degli edifici isolati, l’uomo dovrebbe rispettare una precisa gerarchia spirituale altimetrica che prevede una collocazione sulla cima della montagna, sulla ‘testa del drago’, per il tempio, a mezza costa sul pendio dello stesso monte per l’eventuale tomba o tombe, e direttamente sulle sue pendici per il villaggio o la città, mentre la piana attraversata dal fiume è il luogo delle attività propriamente lavorative, sia di coltivazione agricola o di pesca che commerciali.

Si potrebbe ricordare l’ammonimento evangelico di costruire la propria casa sulla roccia, e del resto oggi si sa perfettamente che i terremoti più devastanti colpiscono gli abitati costruiti su terreni alluvionali.

È evidente una possibile applicazione di quanto detto, sia pure parziale e relativa, alla situazione del genius loci paesaggistico veronese, plasmato dalla duplice azione combinata, yin e yang per dirla alla cinese, delle sue acque e delle sue rocce.

Verona è infatti circoscritta a nordest da un breve terrazzo alluvionale sopraelevato, le ‘piccole labbra’, che è a sua volta circondato più a nord dall’arco delle propaggini ultime dei Lessini, le ‘grandi labbra’.

Al centro del terrazzo alluvionale emerge quindi, quale convincente ‘testa del drago’, l’aspro Colle di San Pietro, che è geologicamente ancora un’ultimissima propaggine dei Lessini, come appunto deve essere.

Anche il nome Pietro, del resto, diciamolo di sfuggita, non significa forse nella versione greca del suo nome (képhas), letteralmente, ‘testa’?

Ora quest’erto sprone roccioso, frenando con la sua energia tellurica la corrente impetuosa dell’Adige, determina a sua volta la profonda ansa che il fiume forma in direzione nordest.

E all’interno di questa sorta di perfetta ‘sacca uterina’, nutriente e protettiva al tempo stesso, e naturalmente circoscritta in un ridotto spazio pianeggiante di quasi mezzo chilometro quadrato, si sviluppò tranquillamente su di un reticolo ridotto a 33 insulae effettive, sia pur ricavate sulla griglia teorica delle 64 canoniche, si sviluppò dicevamo la città propriamente romana e poi, ulteriormente restringendosi, quella medievale. Come si vede, a grandi linee le antichissime regole di base eran state tutte rispettate.

E veniamo dunque allo schema di questa pianta urbana.
Come tutti dovremmo sapere, per averlo appreso per tempo nella scuola dell’obbligo, al solstizio d’estate il sole si leva al mattino verso nordest su un punto dell’orizzonte che, tra tutti quelli ch’esso raggiunge durante l’anno, è il più vicino in assoluto al punto cardinale nord.

Alla sera dello stesso giorno il sole tramonta invece in un punto dell’orizzonte che si trova a nordovest, un punto che è perfettamente simmetrico al precedente rispetto alla linea meridiana.

L’apprezzamento sia funzionale che simbolico di tale fenomeno naturale va certamente fatto risalire se non già agli Euganei, della cui cultura troppo poco sappiamo, almeno ai Reto-Etruschi e quindi ai Galli Cenomani, che abitarono in successione, prima della venuta dei Romani, soprattutto nel castelliere posto sulla cima dell’attuale Colle di San Pietro.

Ora, la vera grande scoperta di Grancelli è che l’orientamento della Verona romana, e quindi del suo cardo maximus, l’attuale via Pellicciai per intenderci, non era in direzione del nord geografico, com’è del resto a tutti da sempre evidente, bensì leggermente spostato obliquamente, in modo da poter invece perfettamente corrispondere a nordest proprio con il punto di ascesa sull’orizzonte del sole nel giorno del solstizio d’estate. Punto che, traguardando l’orizzonte verso nord, è immediatamente a destra di quel Colle ove oggi sorge la Chiesa di San Pietro in Castello, sulle fondamenta d’un tempio che fu probabilmente dedicato a Giano. E Giano, aggiungiamo noi era anche il dio dei solstizi.

Si tratta d’una scoperta, credo, ce lo confermeranno o meno gli altri relatori, tuttora misconosciuta, considerato che anche in pubblicazioni recenti su Verona romana ci è toccato leggere, cito testualmente, che:

“Per un adeguato sfruttamento dello spazio a Verona fu dunque necessario rinunciare all’orientamento astronomico del reticolo viario: l’area a disposizione fu tagliata da una strada che costituiva il proseguimento urbano della via Postumia e che fu valorizzata come decumano massimo; essa con direzione Sud-Ovest/Nord-Est è riconoscibile nel tratto corso Porta Borsari e corso Santa Anastasia, si attestava alla riva dell’Adige.”

È proprio il caso di dire che spesso il cosiddetto buon senso, unito ad una mentalità fondamentalmente materialistica, può condurre fuori strada, specie se l’oggetto del proprio studio è una civiltà antica, o comunque tradizionale.

E visto che accennavamo agli inizi al recente studio archeoastronomico dedicato a Pompei, ebbene è stato dimostrato che anche il cardo massimo di questa città vesuviana declina verso est, con un angolo di 41°,3 rispetto al nord geografico.
Come scrive Francesco Vitale.

Non mi è stato facile capire le ragioni della scelta fatta dagli antichi urbanisti, anche perché mi ero troppo fidato degli orientamenti (poi risultati poco precisi) delle piante di Pompei, che mi avevano portato fuori strada.

Per giustificare l’orientamento apparentemente irrazionale delle strade, pensai subito che questo potesse essere legato a fenomeni astronomici importanti, gli unici che potevano portare a scelte lontane da quelle dettate dai criteri urbanistici allora seguiti (pp. 22-23)

Ulteriori ricerche hanno condotto a scoprire che, in questo caso, l’allineamento non era tanto con il sole, bensì addirittura con una triade di stelle, Deneb, Capella e Vega, le quali tramontavano affiancate proprio in quel punto dell’orizzonte, intorno al 600 a.C.

Dicevamo in precedenza del metodo tradizionale.
Un autore come René Guénon, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, aveva sempre sostenuto nei suoi scritti che il mondo antico ed orientale aveva posseduto una sua scienza, completamente diversa da quella moderna, una scienza sacra, sacra perché essenzialmente simbolica, e cioè spirituale, ma non per questo meno rigorosamente esatta in tutte le sue applicazioni, financo in quelle più secondarie.

Per i nostri contemporanei, fino a pochissimo tempo fa, l’uomo antico era solo un ignorante superstizioso, che a malapena riusciva a sopravvivere, mentre la grande svolta ci fu solo nel XVII secolo quando finalmente, grazie alle osservazioni astronomiche di Copernico e Galileo, nacque la scienza moderna, scientia novissima.

Il successo odierno dell’archeostronomia non è quindi dovuto ad una riscoperta universitaria della Tradizione e della sua scienza sacra, cosa che resta intrinsecamente impossibile.

Essa è dovuta, tutto al contrario, alla sorpresa, allo stupore, direi allo scorno di aver dovuto constatare che anche l’uomo antico, anzi, persino quello preistorico, possedeva una scienza astronomica esatta, d’un rigore geometrico e matematico inimmaginabile fino a trentasei anni fa’, e cioè fino all’uso del calcolatore.

E che quest’uomo antico la applicava a tutti i diversi ambiti della propria esistenza, ricavandone un criterio d’ordine universale, e comunque delle misure precise utili in vari contesti, e verificabili anche mediante semplicissimi strumenti ed empirie, dallo gnomone alla cordicella, all’osservazione diretta, ottenendo un’assoluta esattezza di calcolo.

Da essa poi, millenni prima di Galileo, nacquero la matematica, la geometria, il mito, la religione, la letteratura, l’agronomia, l’architettura, l’urbanistica, la musica.
Bastava dunque riscoprire questa scienza antica per riscoprire tutto un universo.

Guénon lo fece tra gli anni dieci e quaranta del secolo scorso, Grancelli lo lesse e così scoprì o meglio riscoprì l’archeoastronomia come parte di un tutto, un po’ prima che anche il mondo universitario la riscoprisse, ma, ancor oggi, solo in minima parte, quella più materiale.



Fonte: srs Prof. Adriano Gaspani