domenica 30 giugno 2019

L'architettura che conduce al subblime

Davide Pacino a Simboli dell'arte medievale
Amiens, Cattedrale di Notre-Dame.
Cantiere dal 1220 al 1288 (7000 m²).
Nella foto: scorcio dell'interno, con
l'intricata e variegata tipologia di forme
del pavimento della navata centrale.

sabato 29 giugno 2019

Il Veneto distrutto dal Boom economico

Parlo della Saccisica ,la campagna di Piove di Sacco, centro che con quel nome così pittoresco faceva capo a una campagna costellata dai celebri “casoni” con i tetti di paglia. Oggi in Galles, e anche nell’angolo della Bretagna, contrade abitate anticamente, non a caso, dai Veneti (Venedoti nel Galles, Veneti in Bretagna) compaiono dei graziosi edifici col tetto in paglia, trasformati in residenze di lusso o quasi ,dotate di tutti i comfort, e di grande attrattiva turistica.Ebbene fino agli anni ’50 del Novecento centinaia di edifici del genere, erano diffusi anche da noi. Quelli adibiti ad abitazione erano tanti, si sarebbero potuti recuperare, molti di essi, la metà almeno, erano considerati del tutto salubri, ma a Roma decisero di raderne al suolo la grandissima parte, per trasferire le famiglie in case popolari moderne. Millenni di storia, di identità culturale veneta, buttati nella spazzatura. Grazie a una legge scellerata partita dal centro romano, incapace di capire e di salvare pezzi di cultura e lei estranea. con la complicità, purtroppo, degli ascari locali, le amministrazioni comunali dell’epoca. Eccovi la storia.

venerdì 28 giugno 2019

I MAIALI COL COLLARE DI SANT’ANTONIO DI RANVERSO

 Da Torino, percorrendo in macchina tutto il corso Francia, si raggiunge Rivoli. Proseguendo poi di pochi chilometri in direzione di Avigliana e della Val di Susa, ci s’imbatte nel paese di Buttigliera Alta e nell'abbazia di Sant'Antonio di Ranverso. Di stile gotico, fu fondata nel 1188 da Umberto III di Savoia e poi dato in concessione ai Canonici Regolari di Sant'Antonio di Vienne. I Canonici dipendevano dal Priorato del ‘Rivo Inverso’ da cui nasce la storpiatura del nome in ‘Ranverso’.
Gli affreschi all'interno della chiesa sono di particolare pregio e tra questi ne spicca uno decisamente insolito raffigurante la donazione dei maialetti. Da ricordare che l’iconografia di Sant'Antonio Abate è sempre raffigurata insieme ad un maialino che i frati infatti allevavano per curare il ‘fuoco di sant'Antonio’. Si tratta di una patologia molto dolorosa provocata dall'Herpes Zoster che produce sfoghi sulla pelle. Causato da un virus, crea uno sfogo cutaneo a forma di cintura (l’etimologia di Zoster è appunto ‘cintura’) lungo il decorso dei nervi, soprattutto quelli toracici. A differenza della varicella, la comparsa di forte arrossamento e di bollicine a grappoli, non crea prurito, ma appunto dolore o bruciore. L’unico rimedio conosciuto all'epoca consisteva nello spalmare sulla parte malata del grasso animale.
I frati, ospitati anche a Torino a partire dal 1271 nella chiesa di San Dalmazzo in via Doragrossa (attuale via Garibaldi) per concessione del vescovo Gaufrido, avevano la particolarità di portare sempre con sé i loro maiali. Contraddistinti da un collare blu, erano liberi di vagare per le strade e furono gli unici animali che, durante il periodo della peste del 1630, non ebbero restrizioni e poterono continuare a girare indisturbati per la città.Spesso il sacro ed il profano si sono incontrati e trovati a braccetto nel corso della storia. Nella graziosa piazzetta antistante l’abbazia di Ranverso, si può infatti notare un grosso masso presumibilmente utilizzato per celebrare antichi riti pagani. Si tratta di un masso erratico, una roccia di medie o grandi dimensioni trasportata a valle durante la glaciazione del Quaternario. Il successivo ritiro dei ghiacciai ha portato alla presenza di massi in zone collinari o pianeggianti. Le popolazioni antiche, che non potevano conoscere queste nozioni geologiche le cui basi risalgono al XIX secolo, attribuivano valenze magiche ai massi. Venivano infatti utilizzati come altari sacrificali, come luoghi preposti ai ‘culti litici’ della fertilità od ancora si credeva che fossero carichi di energie positive e, toccandoli, potessero trasmettere giovamento all'organismo.
Quasi a sancire la vittoria del culto cristiano su quello pagano, è stata posta una croce sul masso a cui quasi più nessuno fa caso.

(Per approfondire: William Facchinetti Kerdudo - TORINO, MISTERI E ITINERARI INSOLITI TRA REALTA' E LEGGENDA)

I miti greci riprese nelle tombe reali macedoni

'Il rapimento di Persefone' pittura murale, nella tomba reale di Persefone, Vergina, Grecia.
Uno dei più significativi affreschi sopravvissuti del IV secolo a.C., trovato in una delle tombe reali verginiane di Filippo II, La tomba di Persefone. Per considerare la sua importanza possiamo analizzare il suo importante contributo al mito greco, all'arte greca e alla morte di uno dei governanti greci più influenti della storia, confrontando al contempo la sua somiglianza con il poema di Ovidio….

Le pagane pievi toscane

Turisti, viandanti, curiosi e pellegrini, riapre come ogni anno in estate la Pieve di Santa Maria Assunta a Chianni, in quel di Gambassi Terme (FI). Dal 27 giugno (oggi) al 29 settembre, dal giovedi alla domenica, dalle 16 alle 19. Chi non l'ha mai visitata ne approfitti e chi invece la conosce già ci ritorni, il fascino del romanico non annoia mai, lo sapete !

giovedì 27 giugno 2019

L'amore di Giovanni Feo verso gli etruschi e le loro storia misteriosa


Il tempio di Voltumnia: il culto della terra

 Risultati immagini per Giovanni Feo Il tempio di Voltumnia

 

Risultati immagini per Giovanni Feo


Il tempio di Voltumnia di Giovanni FeoLa civiltà etrusca fu l’ultima espressione, sul suolo italiano, di una millenaria cultura le cui radici affondano nella preistoria del neolitico europeo. L’archeologa Marija Gimbutas, nel suo ultimo lavoro Le dee viventi, ha incluso l’etrusca nel novero delle civiltà derivate dalla cultura ‘matrifocale’ dell’Antica Europa (“Old Europe”). Alcuni tratti della cultura etrusca sono illuminanti: presenza di donne nelle alte cariche sociali, politiche e religiose; religione improntata al culto di divinità femminili; ritualità in connessione con speciali siti del territorio; divisione del territorio secondo le norme di una tradizionale scienza della Terra. Non secondario è il ricco campionario figurativo e iconografico utilizzato da artisti e decoratori etruschi, contraddistinto da simboli archetipici di antichissima età: il labirinto, la svastica, il cerchio solare, la sirena bicaudata, il fiore a cinque petali, l’occhio, la ruota, il reticolo.
La particolare morfologia del territorio di tipo vulcanico fu rilevante nello sviluppo della civiltà etrusca. Il limite di tante ricerche e di così numerosi scavi è stato di non aver compreso l’importanza del territorio e delle valenze attribuitegli da quel popolo. La terra, dea-terra, fu la prima divinità. Il territorio fu vissuto come il corpo fisico e concreto di una grande dea, un’incommensurabile corpo, multiforme e ricco di potere vitale e creativo. La società etrusca fu guidata da una variegata classe di sacerdoti e sacerdotesse, dediti a mantenere e regolare le giuste relazioni con l’ambiente, specialmente là dove dovevano sorgere gli insediamenti, sia sacri che civili. Per questa attitudine alla sacralità essi furono considerati, sia dai Romani che dai Greci, profondamente religiosi.
Sarebbe ingenuo pensare che tale attitudine verso la religiosità si sviluppò con l’espandersi della civiltà etrusca nel centro Italia, tra i secoli XI e VIII a.C. È più verosimile che gli Etruschi avessero ereditato la loro religione e la relativa scienza sacra da culture e civiltà che li avevano preceduti. Due illustri studiosi, Claudio De Palma e Giovanni Semerano, hanno ricostruito il retroterra di civiltà cui si riallacciava il popolo etrusco: l’area anatolica e il mare Egeo settentrionale, chiamato anche mare Tracio.
 Risultati immagini per Giovanni Feo

La religione etrusca non fu l’espressione di un popolo di pirati e barbari arricchiti. Un pregiudizio questo, espresso dal ‘padre’ della Storiografia moderna, Theodore Mommsen, che ha precluso per molto tempo la possibilità di comprendere l’essenza della visione religiosa etrusca. Anche qui, come nella religione egizia e in altre religioni misteriche dell’antichità, non si tratta di un’accozzaglia di ritualità e superstizioni, ma di un sistema di credenze, trascritto in testi sacri, con regole e tecniche per una corretta e funzionale connessione con il mondo, la natura e i suoi poteri. Poteri espressi nei fenomeni naturali da parte degli dèi.
La religione si incentrava sulla relazione tra mondo umano, cielo e inferi (mondo sotterraneo). La Grande Dea ebbe molti nomi: Uni, Turan, Menerva, Cel, Vei, Phersipnai, Uthur. Il culto della dea-terra era officiato in modo del tutto particolare, modellando il territorio secondo i canoni di una scienza che mirava a interagire con le differenti qualità dei diversi luoghi, corrispondenti ai diversi aspetti della Grande Dea. Una simile scienza dell’ambiente e del territorio è ancora oggi tradizione viva in Oriente, nel Feng Shui, la scienza “del vento e dell’acqua”.
L’armoniosa e fluida relazione con l’ambiente naturale e con il potere divino che vi si manifesta, fu talmente ricercata e voluta da divenire una scienza, consacrata alle divinità che presiedevano ai diversi fenomeni naturali e sovrannaturali. Il territorio situato dentro e intorno al grande cratere del lago di Bolsena fu l’epicentro della civiltà etrusca. I luoghi del culto della terra, nell’area di Bolsena, furono fondati e realizzati secondo un tipo di funzionalità che, in molti casi, è un mistero. Innumerevoli sono i monumenti ignorati dalle ricerche accademiche: pozzi, cunicoli, percorsi tagliati nella roccia, colline artificiali, canalizzazioni anomale e insolite lavorazioni rupestri.
Lungo le forre vulcaniche che dal cratere di Bolsena discendono nella Tuscia e nella Maremma, sorsero i primi siti etruschi di altura, già frequentati e resi sacri da popoli dell’età del rame e del bronzo. Il tufo, il peperino, l’enfero di queste gole furono il fertile corpo della Grande Dea, scolpito e modellato come atto di connessione con il divino. Entrare in un cunicolo iniziatico o in un pozzo sacro equivaleva all’ingresso nel corpo infero e oscuro della dea, lì dove recare offerte, ricevere oracoli e conoscere il potere creativo dell’oscurità. Nel buio, nel ventre femminile o in quello della Terra avviene ogni gestazione e nascita. Dal buio nasce la vita.
Il tempio di Voltumnia – Alla scoperta del sacrario dei dodici popoli etruschi di Giovanni Feo
Collana Eretica Speciale
152 pagine più inserto a colori
ISBN: 978-88-6222-117-7

Ritorniamo al culto dei Lari i primo vero culto italico mediterraneo







Lari e Penati. Sulla memoria dei luoghi

di Piero Brunello
Pubblichiamo l'intervento tenuto da Piero Brunello al convegno “Memory and Place in the Twentieth Century Italian City” (Londra 29-30 aprile 2005).
Per molti secoli la memoria si basava sulla capacità di collocare termini astratti, eventi, date, concetti eccetera in immaginari luoghi fisici, concreti: si immaginava cioè uno spazio suddiviso in tanti luoghi – per esempio un palazzo o un teatro con stanze, passaggi, nicchie e statue – e si abbinava a ciascun luogo un sillogismo, una formula, un nome o il verso di una poesia, e così lo si poteva ricordare più facilmente. Forse non c’è memoria senza luoghi, e non ci sono luoghi senza memoria. Qui mi limito a due tre osservazioni su un aspetto particolare. Cerco cioè di capire cosa succede quando in uno stesso luogo ci sono memorie diverse: nelle città italiane del XX secolo, sulle quali sono invitato a dire qualcosa, si tratta di un caso comune.

1. Italo Calvino nelle sue Città invisibili scrive che la città di Leandra è protetta da dei di due tipi – dei così piccoli che non si vedono e così numerosi che non si possono contare. Gli uni stanno sulla porta delle case o all’entrata, vicino all’attaccapanni e al portaombrelli; nei traslochi seguono le famiglie. Gli altri invece vivono nelle cucine: fanno parte della casa, e quando la famiglia se ne va, restano con i nuovi inquilini. I primi sono i Penati; i secondi sono i Lari. I primi, i Penati, sono in movimento perché cambiano di casa al seguito delle famiglie. I secondi invece, i Lari, non si muovono mai: se butti giù una vecchia casa per costruire un grande casermone, i Penati rimangono, anzi si moltiplicano nelle cucine di altrettanti appartamenti – forse erano già lì quando la casa non c’era ancora, tra le erbacce di un’area fabbricabile. Lari e Penati si assomigliano; tra di loro parlano e discutono, spesso litigano. "I Penati credono d’essere loro l’anima della città, anche se ci sono arrivati l’anno scorso, e di portarsi Leandra con sé quando emigrano. I Lari considerano i Penati provvisori, importuni, invadenti; la vera Leandra è la loro, che dà forma a tutto quello che contiene, la Leandra che era lì prima che tutti questi intrusi arrivassero e resterà quando tutti se ne saranno andati. In comune hanno questo: che su quanto succede in famiglia e in città trovano sempre da ridire, i Penati tirando in ballo i vecchi, i bisnonni, le prozie, la famiglia d’una volta, i Lari l’ambiente com’era prima che lo rovinassero. Ma non è detto che vivano solo di ricordi: almanaccano progetti sulla carriera che faranno i bambini da grandi (i Penati), su cosa potrebbe diventare quella casa o quella zona (i Lari) se fosse in buone mani. A tendere l’orecchio, specie di notte, nelle case di Leandra, li senti parlottare fitto fitto, darsi sulla voce, rimandarsi motteggi, sbuffi, risatine ironiche” 1.
Il documentario sul terremoto di Napoli di Nick Dines 2 racconta il trasferimento di molte famiglie dalle zone popolari della città alle nuove costruzioni sorte nelle periferie. I Lari delle periferie rimpiangono la campagna e i piccoli paesi che c’erano prima che costruissero i nuovi quartieri anonimi e invasivi; i Penati che hanno seguito le famiglie rimpiangono a loro volta i luoghi e le relazioni che hanno dovuto abbandonare – si guardano attorno, osservano il nuovo ambiente in cui sono capitati e non lo riconoscono.
Nel documentario di Laura Cerasi su Marghera 3, i Lari della campagna e del quartiere che confina con le fabbriche rimpiangono l’ambiente prima delle industrie e lamentano che i nuovi arrivati – i Penati delle ciminiere – si sono comportati in modo invadente e senza rispetto: per fortuna – dicono – sono Altrochemestre provvisori, meno di un secolo, fra un po’ se ne andranno e la zona tornerà a essere quello che è nel profondo, quello che è sempre stata. A Marghera c’è una strada a due carreggiate divise in mezzo da un’aiola spartitraffico, lunga più di due chilometri. È fatta per macchine, per camion, per autobus. Attraversarla a piedi da un lato all’altro è quasi impossibile. È uno dei tanti confini della città. In questo caso il confine corre tra il quartiere di Marghera e la terraferma da una parte, e le fabbriche di Porto Marghera e la laguna dall’altro. Se il vento viene dalla laguna, qui capita di sentire un odore di creme bruciate misto a povere di carbone con un retrogusto acido 4. I Lari e i Penati si mettono lungo i lati opposti della strada, nelle corsie di emergenza perché non ci sono marciapiedi, gli uni contro gli altri e cominciano a gridare. I Penati fanno suonare le sirene delle fabbriche. I Lari diffondono dal sound system una canzone reggae che inneggia a Porto Marghera trasformato in campi di marijuana 5.
2. A Marghera non è sempre stato così come avviene oggi, e come Laura Cerasi documenta nel suo video. La città costruita attorno alle fabbriche è una città che ripartisce individui, ceti, classi, generi, gruppi professionali. Fino al XVII secolo i vagabondi e i mendicanti vengono rinchiusi negli ospizi e messi a lavorare, e non ci si preoccupa dove vivono e dove dormono; poi, a un certo punto il proletariato urbano viene controllato ed educato sia nei luoghi di lavoro che in quelli di residenza. È la città, e non solo la fabbrica, a diventare un luogo di controllo sociale. In alcune scuole si impara a fare i capi reparto, in altre si impara un mestiere; il figlio subentra nel posto di lavoro al padre; i bambini vanno in vacanza nelle colonie estive della fabbrica; succede che il padrone della fabbrica sia anche il padrone della casa, e così via. Se nelle famiglie e nelle scuole si impara a diventare operai, nelle fabbriche si diventa uomini. I ruoli e le gerarchie prodotte dal sistema di fabbrica si riflettono nei quartieri, nei materiali edilizi, nell’architettura, nel tipo di relazioni sociali e famigliari. Sorgono aree separate per impiegati (villini), capi operai (casette isolate), operai (case operaie); ancora più in là, ci finiscono i disoccupati (casette minime). Le case degli impiegati prevedono il bagno e l’acqua, mentre nei “villaggi rurali” il bagno è esterno e serve due famiglie, e l’acqua si prende dalle fontane. Ciascun quartiere ha la chiesa che gli spetta. Quartieri operai avranno la chiesa di san Giuseppe artigiano o di Cristo lavoratore; i quartieri-bene avranno una chiesa-bene, e il centro il duomo; quartieri di periferia avranno una chiesa in prefabbricato, adatta alla retorica della frontiera, eccetera 6.
È il movimento operaio a rompere questa segregazione sociale e spaziale. Presidia i confini simbolici che ogni città sa riconoscere al proprio interno – strade, binari ferroviari, ponti, cavalcavia –, e lì accende fuochi. Fa baccano dove è previsto silenzio o rumori del traffico: batte tamburi, suona fischietti, lancia slogan, canta canzoni. Quello che è previsto debba restare al margine si insedia al centro. Percorre a piedi le strade assegnate agli autobus e alle macchine. Costruisce relazioni di solidarietà in luoghi volti al controllo, alla frantumazione sociale e al disciplinamento. Penati e Lari ne approfittano per attraversare la strada, ballare assieme e cantare le stesse canzoni: continuano ad avere memoria di cose diverse, ma non gliene importa, perché condividono la stessa idea di futuro 7.
3. Le vicende che hanno interessato Marghera sono avvenute in altre città industriali del Novecento. Nel filmato di John Foot su Milano 8, chiunque abbia più di quarant’anni ricorda i confini di una città che sfumava nei campi (le coltivazioni di lamponi, le ville padronali), o meglio ricorda una città che aveva confini – segnati dalla fabbrica, dalla campagna e dalla ferrovia. I Lari di Milano, nel filmato di John Foot, ricordano esperienze e luoghi di donne e di bambini – lavori negli orti e giochi nei cortili. I Penati invece, seguono gli uomini adulti che a orari determinati entrano ed escono dalle fabbriche; di conseguenza, a differenza dei Lari, i Penati conservano il ricordo di percorsi e di luoghi maschili. Ma anche a Milano, come a Marghera, i Lari ricordano che in quei tempi tutta la città, e non solo gli operai, si regolavano sul suono delle sirene. Una donna che gestiva con il marito un negozio di tabacchi, racconta i fiumi di operai che passavano a ore fisse davanti casa, ed entravano per comperare le sigarette – anche una sola, dentro una bustina.
4. I Penati non sono tutti uguali tra di loro, e non sempre tra di loro vanno d’accordo. In un paese come l’Italia i Penati hanno viaggiato per il mondo, seguendo le famiglie per più generazioni: hanno accompagnato i bisnonni lungo le ferrovie delle pianure, fin dentro le foreste tropicali, nelle piantagioni di caffè e di canna da zucchero; hanno seguito i genitori nelle miniere di carbone, nelle fabbriche di automobili e nei quartieri di enormi città; e infine hanno fatto compagnia ai figli, lungo oleodotti nel deserto e sulle dighe nei grandi fiumi. Ma da circa una generazione i Penati sono fermi sul pianerottolo di casa e vedono a loro volta arrivare altri Penati, da altre parti del mondo, che parlano altre lingue. I Penati del pianerottolo guardano verso la strada e si sentono a casa; osservano con timore e con sufficienza gli altri Penati, quelli appena arrivati, e li considerano estranei; preferiscono parlare con i Lari. Adesso che sono fermi, dopo tanto viaggiare, amano raccontare di quando andavano in giro per il mondo. Ai Lari piace sentirli parlare; anzi, spesso succede che i Lari li lascino parlare a loro nome. I Lari dicono: le storie dei nostri Penati sono le nostre, e viceversa. Mentre ricordano vicende passate, i racconti rendono estranei i nuovi arrivati e dicono loro come devono comportarsi 9.
Post scriptum. Finirei qui. Cambiando registro, potrei forse aggiungere che le vicende alle quali ho accennato alla fine, parlando dei Penati sul pianerottolo, sono legate ai cambiamenti nel rapporto tra città e fabbrica. In una città industriale di ventimila abitanti come Monfalcone, non lontana da Trieste, il cantiere navale della Fincantieri ha circa duemila dipendenti diretti, e, secondo i momenti, due-tremila operai che lavorano per piccolissime ditte in appalto. I dipendenti diretti sono italiani; gli operai delle ditte in appalto sono soprattutto stranieri (in primo luogo bengalesi, e poi croati e albanesi), ma anche italiani immigrati dal sud Italia. Dentro il cantiere navale i due gruppi – i dipendenti e i lavoratori delle ditte – hanno orari e luoghi di lavoro differenti: tutto è organizzato in modo che non si incontrino mai. Sono due popolazioni: i primi sono visibili, i secondo invisibili. Le famiglie di Monfalcone, che provengono da famiglie immigrate negli anni Venti del Novecento dal Veneto e più tardi dalla Puglia, tendono a portare via i figli dalle scuole cittadine perché non abbiano rapporti con i figli degli stranieri che lavorano alla Fincantieri, e a iscriverli nei paesi vicini. D’altro canto la comunità dei bengalesi, che a Monfalcone supera le cinquecento persone, tende a chiudersi in se stessa, tanto che, rispetto ai primi tempi, sempre meno bengalesi imparano l’italiano 10.
 
1 I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 1997, pp. 78-79.
2 Fuggi fuggi. Memorie di un terremoto, regia di Nick Dines (2003).
3 Porto Marghera. Città nella città, regia di Laura Cerasi (2005). Cfr. L. Cerasi, Dentro Porto Marghera fra storia e memoria, “Venetica. Rivista di storia contemporanea”, s. III, 9 (2004), pp. 171-176.
4 P. Brunello, Via Fratelli Bandiera, “Altrochemestre”, 1 (1994), pp. 12-13.
5 Pitura Freska, Marghera (1997).
6 D. Canciani, Chiese e quartieri, “Altrochemestre. Storia e documentazione del tempo presente”, 2 (1994), pp. 32-35.
7 Riprendo da P. Brunello, Una città disciplinare, “Venetica. Rivista di storia contemporanea”, s. III, 9 (2004), pp. 161-167, e rinvio a A. Casellato, Con Propp a Marghera, ibid., pp. 167-170.
8 Ringhiera. Storie di una casa, regia di J. Foot (2004).
9 Rinvio a P. Brunello, Memoria dell’emigrazione, memoria del lavoro, in La memoria del lavoro. Atti del Convegno, Bergamo 4-5 dicembre 2001, “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 59 (giugno 2003), pp. 171-176.
10 Devo queste considerazioni a chiacchierate informali con Lucia Bignucolo, in treno sulla linea Mogliano-Venezia o prendendo un caffè prima delle lezioni, e alla sua passione per l’inchiesta operaia; qui la ringrazio per la sua generosità. Ringrazio anche Luigi Di Noia e Filippo Perazza per l’intervento a un incontro sull’inchiesta operaia promosso da storiAmestre e dall’Etam-animazione di comunità tenutosi a Marghera.





Risultati immagini per i lari

Il culto di Iside a Trastevere

Santa Maria in Trastevere costruita con le colonne di granito rosso ottenute dalla demolizione dell'Iseo Serafeo Campese di Roma nel II° secolo, in pratica i trasteverini non adoravano Maria cristiana ma la Grande Iside Mediterranea....

 Risultati immagini per Santa Maria in Trastevere