giovedì 29 ottobre 2015

Cambiare tutto per non cambire nulla!

" L'Operazione Paperclip", che è stata avviata dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale e che ha portato la maggior parte dell alto rango ebraico nazista di ... scienziati e alti ufficiali negli Stati Uniti, ha dato loro nuove identità e li colloca in gruppi di riflessione, università e laboratori attraverso gli Stati Uniti per continuare gli esperimenti che erano stati elaborati durante la guerra e nei campi di concentramento..Molto aveva a che fare con il controllo mentale e MK Ultra. Ciò è stato fatto perché gli Stati Uniti non volevamo che questi uomini cadessero nelle mani dei russi prima.

martedì 27 ottobre 2015

Giulietta e Romeo, i luoghi inventati da Antonio Avena



Su questi ruderi ci hanno imbastito una delle storie farlocche più potenti, merito di Antonio Avena che inserendo un sarcofago come balcone ha creato, per scherzo o per gioco, la casa di Giulietta.
Una favola per turisti sprovveduti..............

Il fenomeno Ernst Jünger: il soldato temuto da Hitler




CONTEMPLATORE IN UNIFORME E MAESTRO DI LIBERTÀ
Ernst Jünger fu maestro insuperabile della contemplazione, esempio memorabile di azione, teologo della nuova epoca, platonico moroso, entomologo competente, pedagogo della libertà. Infine amante dell’Italia, dalla Dalmazia irredenta all’assolata Sicilia, da quel di Napoli fino alla più amata di tutte, quella Sardegna dalla terra «rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d'intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale».
L’anno è il 1895. Röntgen era vicino alla scoperta dei raggi X; in Francia esplodeva l’affaire Dreyfus. Amava ricordare questi due avvenimenti, Ernst Jünger. Essi attraversarono tacitamente la sua vita e le sue riflessioni, le quali non sono altro che lo specchio di un secolo: quel Novecento veloce e potente come il fulmine di Eraclito, fulmine che «governa ogni cosa», come era scritto sopra la soglia della baita di Heidegger nella Selva Nera. La scoperta di Röntgen aprì il secolo della tecnica, dando la possibilità all’uomo di “vedere l’invisibile”, di osservare ciò che al microscopio era precluso, di sviluppare la ricerca sull’atomo e sulla fissione nucleare. Cinquanta anni separarono la tanto casuale quanto fortunata scoperta del 1895 da Little Boy, dolce artificio statunitense, che Hiroshima ricorda come fuoco celeste: meno modesto del giottesco bagherino luminoso di san Francesco, più furioso dell’infuocato carro del Libro dei Re, dipinto da Roerich sulle calde tonalità del rosso. L’atomica non lasciò niente; non rimase a terra il mantello che a Elia cadde durante l’ascesa. Chi ha vissuto il Novecento ha timore dell’uomo più che di Dio, le cui distruzioni narrate nell’Antico Testamento sembrano delle grazie in confronto ai massacri di due guerre mondiali. Il caso Dreyfus inaugurò invece l’arma migliore delle democrazie occidentali: l’opinione pubblica, lama dotata della più affilata critica, aumentò il grado di incertezza politica, incassando una vittoria sulle baffute e polverose forze conservatrici. Il secolo passato è stato mutevole come l’acqua, oltre che terribile come il fulmine. Ernst Jünger è nato così: con l’invito a riflettere sulla tecnica e sulla politica, ma senza cadere nella spirale della sola contemplazione. Il tempo dell’uomo è limitato, l’educazione costosa. Alla contemplazione riunì l’azione, ma lo fece in modo più armonico e costante del giapponese Mishima, altro equilibrista a metà tra la luce notturna del pensiero e quella diurna dell’atto senza scopo. La bellezza, ne siamo suggestionati, è un tramonto: il momento in cui le forze lunari e solari si dividono il campo, e contemplazione e azione diventano Uno, nell’ascesa di un pilota verso la stella più vicina, su un affilata lama dei cieli. Mishima in Sole e acciaio insegna che «corpo e spirito non si fondono mai».
Jünger lottò con l’acciaio, quello dell’artiglieria inglese e francese, sul fronte occidentale. E, checché ne dica un beffardo adagio militare, non bastò la colazione a tenere insieme anima e corpo: ci volle ben altro. Già nel 1913, appena maggiorenne e fuggito dall’ambiente borghese della casa familiare, si arruolò nella Légion étrangère, covo di avventurieri e delinquenti più che di disciplinati soldatini. L’esperienza algerina a Sidi-bel-Abbès, a suo dire «avvenimento bizzarro come la fantasia», fu pubblicata in forma di confessione romanzata nel 1936, con il titolo di Afrikanische Spiele (Ludi africani). Ma Jünger allora era già noto per le sue imprese nella Prima guerra mondiale. Rimpatriato dall’Africa per l’intercessione del padre Ernst Georg Jünger, farmacista confidente più con la vetreria da laboratorio che con le pallottole, accolse con gioia l’invito del 1914, arruolandosi come volontario nell’esercito del Kaiser Guglielmo II. Aveva da poco incontrato su carta ciò che stava per vedere sul fronte. Le letture di Friedrich Nietzsche lo gettarono tra le braccia della guerra come un vitello che, spinto al mattatoio, si sente nel suo palazzo reale. Ma la carne di Jünger non fu tenera come quella di un vitello, e sopravvisse con estremo ardimento a ben quattordici ferite, di cui l’ultima molto grave, passando da semplice fante a Strosstruppfüher (capo di commando d’assalto), fino all’onore di portare al petto due Croci di Ferro, una Croce di cavaliere dell’Ordine di Hohenzollern e una Pour le Mérite, riconoscimento di una volontà dura come il ferro della medaglia, privilegio che ebbero solo dodici ufficiali subalterni dell’esercito imperiale.
In una caserma della Reichswehr (madre della Wehrmacht), tra il 1918 e il 1923, scrisse i suoi primi libri, tra cui un titolo imprescindibile per chi subì (e subisce) il fascino della Grande guerra: In Stehlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), frutto della rielaborazione di appunti dalla trincea sotto forma di memorie belliche, pubblicato nel 1920. Il destino dell’opera fu diverso da quello di altri racconti di guerra. Non è Il fuoco di Barbusse, apparso in pieno conflitto, ma nemmeno il celebre Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque. Se il successo di questi fu lesto e universale, In Stehlgewittern – pubblicato tardi in traduzione italiana (1961) – circolò in ambienti di destra, tra circoli militari, associazioni di reduci, gruppi nazionalisti e conservatori, i quali ne compresero solo in parte lo spirito. L’esperienza bellica – descritta poi in altre memorie quali La battaglia come esperienza interiore (recentemente pubblicato per i tipi di Piano B), Il tenente Sturm, Boschetto 125, Fuoco e sangue – non solo aveva catturato la gioventù «come un’ubriacatura» ed emancipato le nuove generazioni di tedeschi dal «minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità», ma aveva il sapore dell’«iniziazione che non apriva soltanto le incandescenti camere del terrore, ma anche le attraversava». Le incessanti esplosioni degli shrapnels, angeli del cielo che più che nuove portano palle di piombo a lacerare la carne, furono soltanto uno degli aspetti più terribili di quella guerra tecnica, di materiali. Non è la Francia dipinta dagli impressionisti, quella di macchie e pennellate giustapposte, ma è terreno di mutilazioni, di corpi insanguinati e ricoperti di fanghiglia, di un cielo di pallottole. È la guerra di trincea. È il soldato «che canta spensierato sotto una volta ininterrotta di shrapnels», come immaginato con futuristica eccitazione da Marinetti. E il giovane Jünger coglie tutto ciò con un nichilismo estetizzante, cristallizzato in una prosa magistrale. Il soldato e l’artista qui celebrano la loro intima parentela, giacché la guerra è un’arte e viceversa. Valgono le parole riferite ad Aschenbach, protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann: «Anche lui era stato soldato e uomo di guerra come alcuni dei suoi maggiori; poiché l’arte è una guerra, è logorante battaglia». In Stehlgewittern è una splendida glossa a Novalis, spirito europeo e cristiano, nella sua esaltazione del dinamismo poetico della guerra. La notorietà procuratagli dal libro permise a Jünger un’attiva partecipazione a movimenti nazionalistici e antidemocratici e la collaborazione a giornali come «Arminius», «Der Vormarsch» e «Widerstand», rivista dell’amico nazionalbolscevico Ernst Niekisch. Fu nel primo dopoguerra che cominciò la sua produzione saggistica, incisa ne La mobilitazione totale, Il dolore, L’operaio. Hans Blumenberg non aveva torto quando affermava che Jünger è l’unico autore tedesco ad aver lasciato testimonianze di un confronto pluridecennale con il nichilismo.
Nella sua opera sono forti l’inevitabilità del suddetto confronto e la sfida a tale problema. Egli ha cercato il nulla, l’annientamento del vecchio mondo di borghesi, scienziati e parrucconi; lo ha inseguito, infaticabile, nel deserto (Ludi africani), nello sprezzo della vita di fronte alla guerra (Nelle tempeste d’acciaio), nell’ebbrezza (Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza), nel dolore (Sul dolore), «equivalente metafisico del mondo illuminato-igienico del benessere» (Blumenberg, L’uomo della luna). L’annientamento dell’uomo passa per il suo innalzamento, per la pianificazione totale della società “mobilizzata” nel lavoro e nello studio, per la riduzione finale della persona nella monade tecnico-biologica prospettata nella metafisica de L’operaio, libro fondamentale nelle tappe dell’evoluzione intellettuale del pensatore tedesco, testo oggetto di studio per due grandi filosofi come Martin Heidegger, che negli anni Trenta organizzò sul tema dei seminari privati, e Julius Evola, che ne fece un commento (L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger).
Ma c’è un evento nel mezzo della vita del nostro, luminoso come quella cometa di Halley che Jünger contemplò due volte (Due volte la cometa). Mentre lo Stato totale del lavoro da lui immaginato andava realizzandosi, ecco una «svolta imprevista, che va annoverata tra gli eventi più importanti della storia spirituale tedesca» (ancora Blumenberg): Sulle scogliere di marmo, il diamante prezioso tra i piccoli vetrini luccicanti nell’asfalto. Soffermarvisi è d’obbligo. I precedenti biografici del libro chiariscono meglio la svolta. Come ebbe a dire Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich, «abbiamo offerto a Jünger ponti d’oro, ma lui non li volle attraversare». L’insofferenza dello scrittore per i modi pacchiani e volgari del Partito Nazionalsocialista gli procurò antipatie tra i gerarchi: la stampa smise di parlare dei suoi libri e la Gestapo gli perquisì la casa. Nel romanzo decisivo per sua vita, egli descrive un Paese – la Marina, in cui ogni elemento sociale e politico è in armonia – minacciato da un pericoloso popolo di confine, barbaro, portatore di violenza e distruzione, dallo stile terribile e plebeo, guidato dal Forestaro (figura che molti identificarono con Hitler, altri con Stalin). La canaglia del bosco si muove contro la civiltà, l’anarchia nichilistica contro le forze della Tradizione. I due protagonisti, due fratelli (allusione all’autore stesso e a suo fratello, Friedrich Georg), sono supportati da quattro personaggi: Padre Lampro, dietro cui si può scorgere la Chiesa, o almeno la forza spirituale della religione; Belovar, vecchio e coraggioso barbuto a rappresentanza del vecchio mondo rurale; di nobile stirpe, invece, il principe Sunmyra, la cui testa mozzata dopo un’eroica impresa è recuperata dal protagonista e diventa oggetto di rituali; infine Braquemart, bellicoso sodale del principe ed effigie del nobile intellettuale nichilista, che interpreta la vita come meccanismo le cui ruote motrici sono la violenza e il terrore, uomo di «fredda intelligenza, sradicata e incline all’utopia». Chiunque abbia confidenza con la letteratura jüngeriana ricorderà le parole che aprono Sulle scogliere di marmo: «Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrimediabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi». La ricerca della bella morte in guerra fa spazio alla «vita nelle nostre piccole comunità, in una casa ove la pace regni, fra buoni conversari, accolti da un saluto affettuoso a mattina e a sera». A chi vive l’esistente come poesia non resta altro che chiedere asilo ai manieri della propria interiorità, confidando nella resistenza dei nobili contro il nulla, nella sublimazione di tutto nel fuoco catartico dello specchio di Nigromontanus.
Fu Hitler a salvare Jünger da morte certa. Il Forestaro apprezzava la penna che lo tratteggiò. Lo salvò anche dopo il 20 luglio del 1944, data del celebre attentato al Führer. Se è vero che non furono trovate prove della collaborazione tra gli attentatori e Jünger (che durante la Seconda guerra mondiale si occupava dell’ufficio di censura a Parigi, come ufficiale dello Stato Maggiore), lo è altrettanto il fatto che i sospetti su di lui erano più che forti, tanto da fargli recapitare un’espulsione dall’esercito per Wehrunwürdigkeit (indegnità militare). Era definitivamente finito il tempo dell’eroe di guerra, cominciava quello del contemplatore solitario. Sottoposto a censura durante l’occupazione alleata, sorte condivisa con gli amici Martin Heidegger e Carl Schmitt (il quale era, tra le altre cose, padrino del secondo figlio di Ernst, Alexander Jünger), si ritirò nel paesino di Wilflingen, prima nel castello degli Stauffenberg (famiglia da cui proveniva Claus Schenk von Stauffenberg, organizzatore del fallito attentato a Hitler), poi nella foresteria del conservatore delle acque e delle foreste della stessa famiglia, edificio che fu sua abitazione fino alla morte. Vasta è l’opera di questo grande scrittore tedesco. Fu il diarista del Novecento, interprete del suo spirito. La costanza con cui annotò fatti e riflessioni sui suoi diari è nota. Anche nella scrittura, Ernst Jünger mostrò coraggio: il diario è più di altre la forma stilistica attraverso la quale un pensatore o un letterato si mostra nella sua intima debolezza di uomo, sottoponendosi a una dilapidazione di credibilità; l’estrema rinuncia alla plasticità dell’artista in cambio dell’autenticità dell’origine dei propri pensieri. I diari completano gli altri scritti, dimostrando che Jünger non offrì prodotti, ma indicò vie. Lo fece in tutta la letteratura successiva a Sulle scogliere di marmo, da Heliopolis a Eumeswil, da Il libro dell’orologio a polvere a Al muro del tempo, da Il nodo di Gordio (dialogo a due voci con Carl Schmitt) a Oltre la linea (con Martin Heidegger). Proprio in quest’ultimo testo, composto da due scritti che omaggiano il sessantesimo giorno genetliaco del rispettivo interlocutore, avviene il confronto sul tema del nichilismo tra due dioscuri simbolici del tramonto vivo di un’epoca, un duello a colpi diretti nel quale ognuno, ça va sans dire, si compiace della maestria dell’altro. Interrogarsi sul nichilismo è, nel secondo dopoguerra, cercare una risposta alla domanda: quale poesia dopo Auschwitz?
Non condividiamo il giudizio di Evola sul secondo Jünger. Non fu un pluridecorato «normalizzato e rieducato», come ebbe a mugugnare il filosofo romano durante un colloquio con Gianfranco de Turris, ma un pensatore capace di profonde riflessioni, di analisi e previsioni rivelatesi tanto esatte quanto inquietanti. Fu uno dei pochi che riuscì a disvelare, con tormentata quiete, la patina ideologica che copre la realtà. Ecco, le ideologie. Egli non le amava, perché «un errore diviene colpa soltanto quando si persevera» (Sulle scogliere di marmo); rifuggì tutti gli ismi, ma si arrogò il diritto di vivere la vita come un esperimento, non come un processo soggetto a logiche limitative. «Il suffisso ismo ha un significato restrittivo: accresce la volontà a spese della sostanza» (Eumeswil). La sua scrittura è «espressione di ciò che è problematico, del qui e del là, del sì e del no», come si espresse Thomas Mann pensando a se stesso nelle Considerazioni di un impolitico. Ernst Jünger fu maestro insuperabile della contemplazione, esempio memorabile di azione, teologo della nuova epoca, platonico moroso, entomologo competente, pedagogo della libertà. Infine amante dell’Italia, dalla Dalmazia irredenta all’assolata Sicilia, da quel di Napoli fino alla più amata di tutte, quella Sardegna dalla terra «rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d’intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale». «Le isole – insegna – sono patria nel senso più profondo, ultime sedi terrestri prima che abbia inizio il volo nel cosmo. A esse si addice non il linguaggio, ma piuttosto un canto del destino echeggiante sul mare. Allora il navigante lascia cadere la mano dal timone; si approda volentieri a caso su queste spiagge» (Terra sarda). E la sua opera fu un’isola di luce lontana dalla baruffa letteraria del Novecento, oasi per gli spiriti assetati di libertà.
DI ALESSIO MULAS - 29 SETTEMBRE 2014 (tratto da L'Intellettuale Dissidente)

lunedì 26 ottobre 2015

Il Viaggio in Egitto di Renè Guenon

 
Angelo Iacovella
in “Orientalia” da Secolo d’Italia di venerdì 11/02/05 
Nel 1930, Rene Guénon compie un viaggio in Egitto in compagnia di Madame Dina, una ricca americana vedova dell’ingegnere egiziano Hasan Farid Dina. Lo scopo ufficiale della visita? Procurarsi rari trattati di esoterismo islamico, altrimenti irreperibili. La sua amica ritornò in Francia dopo qualche mese, mentre il grande metafisico francese decise, nello sconcerto dei più, di trattenersi al Cairo, dopo aver procrastinato più volte il viaggio di ritorno. Privo di un qualunque legame parentale in patria, si lasciò assorbire completamente dalla vita e dall’ambiente circostante, conducendo un’esistenza ritirata e dedita alla sua nuova famiglia, alle meditazioni e allo studio.
Iniziato alla confraternita Hamîdiyya Shâdhiliyya, guidata dallo sceicco Abd al-Rahmân al-Elish al-Kabîr, Guénon – stando alla testimonianza dei suoi amici e dei suoi conoscenti locali – riusciva a raggiungere, durante le cerimonie sufi, stati intensi di estasi, probabilmente grazie alla pratica dello dhikr individuale (o “menzione ripetuta del nome di Allah”) cui doveva indulgere nel suo ritiro cairota. Il professor ‘Abd al-Hamîd Mahmûd, teologo dell’università di al-Azhar, una volta recatosi con lui nella moschea del sultano Abû al-’Alâ, lo descrive con queste parole: «Avendo preso posto in un gruppo che faceva lo dhikr, René Guénon cominciò a bisbigliare fra sé e sé e a scuotersi, quindi le sue parole divennero udibili e i suoi movimenti si intensificarono; infine ecco che egli si immergeva e sprofondava completamente nello dhikr; dovetti in seguito svegliarlo finché si riscosse violentemente con un fremito; ho pensato che tornasse da contrade lontane e ignote».
Considerando la mole dei suoi studi e delle sue ricerche, i saggi dedicati specificatamente all’Islam non occupano, tutto sommato, che una fetta esigua delle monografie guénoniane. Si tratta per lo più di brevi articoli la cui ampiezza totale non supera qualche decina di pagine. Ciò nonostante, al di là della sua scelta personale, Guénon rappresenta tuttora per l’Occidente uno dei punti di riferimento più importanti per l’approccio alla cultura e alla religione islamica Questo enigma ci sembra possa essere, almeno in parte, sciolto dai numerosi riferimenti alla tradizione musulmana che si trovano disseminati nei suoi contributi sull’interpretazione dei simboli, e dei contenuti-chiave delle religioni tradizionali orientali e non, costituendo una sorta di trama sottile o di leit-motiv che ricorre e che fa da sfondo a tutte le sue trattazioni. In realtà ci sembra di poter affermare che l’influenza che egli ha esercitato e continua ad esercitare in maniera crescente sulle generazioni occidentali si possa attribuire al modo in cui per primo egli si è accostato all’Islam senza pregiudizi di sorta, esaltandone anzi la grande eredità spirituale. Sino a quel momento, la considerazione che si aveva dell’Islam in Europa era, al massimo, di carattere puramente e strettamente “culturale”, legata agli ambienti accademici ufficiali talvolta essi stessi contaminati da tesi preconcette e parziali. In alcune pagine illuminanti de L’ésoterisme islamique Guénon sintetizza in modo magistrale quelli che sono i due aspetti fondamentali dell’Islam: l’aspetto essoterico e quello esoterico (o in termini più prosaici la dottrina legalista ufficiale e la mistica via dei sufi) fornendo, al tempo stesso, la sua interpretazione personale che trovava nel secondo, e soltanto in esso, la vera giustificazione dell’essenza del primo.
«Di tutte le dottrine tradizionali, la dottrina islamica è forse quella in cui più nettamente è segnata la distinzione tra due parti complementari l’una all’altra, che si possono designare come essoterismo ed esoterismo. Esse sono, seguendo la terminologia islamica, es-shariyah, cioè letteralmente la “grande strada” comune a tutti, e el-haqîqah, cioè la “verità” interiore, riservata all’élite, non in virtù di una decisione più o meno arbitraria, ma per la natura stessa delle cose, perché non tutti possiedono l’attitudine o le “qualificazioni” richieste per pervenire alla sua conoscenza. Le si compara spesso, per esprimere il loro carattere rispettivamente “esteriore” e “interiore”, alla “scorza” e al “nocciolo” (el-qishr wa el-lobb), o ancora alla circonferenza e al suo centro. La shariyyah comprende tutto quello che il linguaggio occidentale designerebbe come propriamente “religioso”, e soprattutto l’aspetto sociale e legislativo che nell’Islam si integra essenzialmente alla religione. Si potrebbe dire che essa è prima di tutto regola d’azione, mentre la haqîqah è “conoscenza pura”; ma dev’essere ben chiaro che è questa conoscenza che dà alla shariyyah stessa il suo senso superiore e 

L'ultimo stile architettonico dell'Italia poi il caos degenrato iniziando dal dopoguerra per finire ai giorni nostri, e continuerà

"E se penso all'architettura bollata come 'fascista', ai begli edifici di Piacentini o di Terragni per esempio, mi chiedo in cosa siano peggiori rispetto a tutta l'orribile architettura democratica e cristiana dei decenni successivi." (OLIVIERO TOSCANI)

domenica 25 ottobre 2015

Il nome incognito del Dio nascosto e irrangiungibile

Lo studioso britannico Robert Graves scrisse del Nome e del Culto di Jehovah asserendo essere di origine diversa dalla semitica (Jesus Rex, Bompiani 1982).
"Tra l'altro egli ricostruisce il nome del Dio degli Ebrei, dopo aver affermato che è composto di 7 lettere dell'alfabeto ebraico, lette nel senso del corso del Sole. Le lettere sono: II.I.E.V.O.A.AA, che trascritte in caratteri romani danno JIEVOAA, ma lette dagli Ebrei, in forma volutamente sviante, JEHOVAH". Anche lo storico olandese Willem Hendrik Nieupoort, rifacendosi a Salmàsio e Capella, afferma che Jehovah non è altro che l'ebraico di Joupitar, Joupiter e Juppiter, ovvero Giove.
Diversi ebrei, insieme a Flavio Giuseppe, e tutti caratterizzati dalla cultura ellenistica, erano certi che dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 d.C.), il loro Dio risultasse ormai di fatto accanto a Roma, ed in quella sede fatale risiedesse come tutte le altre divinità.
Rileggendo l'egregio scritto dell'amico Claudio Rutilio, pubblicato sul primo numero (prima serie) della fortunata e benemerita rivista di Studi Storici e Tradizionali di Messina, marzo 1984: La Cittadella.
Il nome personale di Dio nella forma "Jeova" sulla soglia del presbiterio della chiesa cattolica di Vezzo, frazione di Stresa (Novara)
https://www.youtube.com/watch?v=04pATWaf_Ro

venerdì 23 ottobre 2015

Le potenze dei Grandi Misteri emana le sue forze rimaste fino ad ora latenti....


Dicembre: San Nicolò e i Krampus (diavoli)


In Alto Adige nei giorni tra il 5 e il 7 dicembre, i visitatori possono assistere in quasi tutte le località alla sfilata di San Nicolò, scortato da figure inquietanti, dall’aspetto terrificante, demoniaco, appunto i Diavoli, in tedesco chiamati “Krampus”
La tradizionale processione di S.Nicola e dei Krampus, direttamente discendente dai Faunalia Rustica nella loro variante locale gallo-romano-retica, viene sospesa ad libitum in alcuni paesi della Carinzia, "perché non possiamo prevedere le reazioni dei (presunti) profughi"
Così si perdono le forti tradizioni cariche di significati profondi e che arrivano da riti arcaici!



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giovedì 22 ottobre 2015

Giuda agli occhi di Steiner

Nell'anno 1908, Rudolf Steiner tenne alcune conferenze ad Amburgo: al termine di una di queste conferenze Max, il fratello della pittrice Margarita Woloschin, pose una domanda a Rudolf Steiner. La domanda che come paradosso occupava molto Max era se non fosse stato Giuda che, assumendo su di sè il peccato del tradimento, innanzitutto rese possibile il sacrificio del Cristo e così sia stato lui il vero salvatore del mondo.
Di fronte a questa idea, Rudolf Steiner assunse un forte atteggiamento di rifiuto, in quanto malsana: "Giuda, non ha capito l'essenza di ciò che Cristo portò al mondo, e si aspettava che Cristo conseguisse la vittoria sui nemici attraverso la magia. Attraverso il suo tradimento voleva causare un trionfo terrestre del Cristo. Così come Giuda se ne andò ad impiccarsi, così anche la nostra cultura annienterà se stessa".
MARGARITA WOLOSCHIN "Il serpente verde", Ed. Fries Geistesleben - Stuttgart 1982.

mercoledì 21 ottobre 2015

Il revisionismo non denunciabile

Netanyahu: "Hitler voleva espulsione e non lo sterminio degli ebrei"





E allora... Netanyahu se ne spunta con la rivelazione che i veri responsabili dell'Olocausto sarebbero i Palestinesi: fu la loro guida degli anni 30-40, il Gran Mufti, a spingere Hitler alla soluzione "olocaustica". Insomma: i palestinesi più cattivi dei nazisti. Quel che mi diverte è che un Abu Mazen, presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, si è laureato nel 1982 a Mosca con una tesi di dottorato intitolata "La connessione tra nazismo e sionismo, 1933-1945", in cui si dimostrerebbe l'aiuto dato dai nazisti al Sionismo. Dunque, sia Netanyahu che Abu Mazen sono dei "revisionisti": nella democratica Europa magari finirebbero entrambi in prigione per "negazionismo" ed "antisemitismo"!
(Sandro Consolato)

La sacralità senza tempo che si incarna in un atto religioso eterno

martedì 20 ottobre 2015

L'altra storia della sifilide

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TERZAPAGINA. LETTERA AL CORRIERE DI GUIDO CERONETTI: DE MORBO GALLICO

mal di Venere, nato dai miti e non sulle navi di Colombo

la comparsa della sifilide in Europa

------------------------- PUBBLICATO ------------------------------ LETTERA AL CORRIERE DI GUIDO CERONETTI: DE MORBO GALLICO TITOLO: Mal di Venere, nato dai miti e non sulle navi di Colombo - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - Nel ricadente all' interno di piu' d' un pensiero, dialogo tra Ulderico Munzi e Jacques Attali ("Corriere" del 31 marzo scorso) sulla cacciata degli ebrei sefarditi all' epoca dell' Isabella e il neorazzismo (vecchia impurita' ) europeo, c' e' un punto in cui l' intervistatore introducendo ai contenuti di Attali dice che (nel 1492, tra gli altri eventi) "a Ginevra appare la sifilide". Non vedo li' la connessione solita tra il viaggio di Colombo e l' insorgere della pestis venerea, sbarco e apparizione essendo collocati nello stesso anno, ma veder considerato uno degli eventi cruciali proprio di quell' anno la sifilide sul Lemano mi suona veramente strano. Lo storico ne dara' spiegazione nel suo lavoro 1492, che non ho visto; mi limito qui a discutere l' accenno fugace trovato nell' articolo. Michel Foucault, trattando della Follia, diceva che (sempre, all' incirca, in quel tempo) in Europa esce di scena la lebbra e subentra la sifilide. Questo fa un certo effetto di teatro ma in fatto di sifilografia storica mi pare che le migliori erudizioni abbiano scarsa voglia di separarsi dal generico e dal luogo comune. La lebbra morbo di Hansen, quella di Lambare' ne e degli attuali lebbrosari, non e' la stessa lebbra dei lebbrosari medievali che in qualche caso, difficile da provare, se non addirittura in nessuno. Una tale lebbra, anziche' uscire di scena, ci rimase, cambiando a poco a poco la maschera e il nome. Non poteva apparire per la prima volta a Ginevra qualcosa che gia' , da tempo immemorabile, con nome di lebbra e con una lunga sequela di nomi a seconda dei luoghi e dei linguaggi, era dappertutto, probabilmente, di casa. Lo sbarco di andata e di ritorno di Colombo sarebbe gia' sufficientemente fornito di prolungamenti, anche senza annettergli incontri e nozze con uno dei morbi fondamentali della storia patologica umana, uno di quelli a cui siamo piu' debitori di misfatti, di genio e di deliri. Il luogo comune della sifilide posteriore alla scoperta di Colombo e' assimilato con la stessa facilita' del dogma evoluzionista, che ci vuole tutti emissioni di qualche facoltosa scimmia, oppure basta un minimo di riflessione e un po' d' occhio ai testi antichi, per sgomberarne la mente. Gli Indios certamente ne erano infetti (e consideravano anche le famose bubas, le bolle sulla pelle, un segno di distinzione aristocratica e di relazione col divino, malattia solare) ma la ciurma colombiana ne portava del suo (come morbo non solare: da noi era lunare e infero) cosi' che chi tra i marinai era gia' contagiato infetto' ragazze sane della Hispaniola, e chi tra le amerinde era infettata contagio' i marinai sani, e di sani non tornarono che i vergini "a miracol mostrare". Un enigma resta l' Ammiraglio, seminatore di continenti. L' apparizione del nome sifilide, questa si e' postcolombiana, perche' il poema che gli dedico' il Fracastoro, De morbo gallico, e' successivo all' invasione di Carlo di Valois in Italia. Ma bisogna leggere i nomi, interpretare i testi, osservare i segni nelle pitture, confrontare descrizioni di sintomi, ascoltare i poeti (che ne parlarono spesso), scavare greco, latino ed ebraico biblico: dovunque sparse troviamo bubas. Nella versione del libro di Giobbe che curai per l' Adelphi puo' vedere, chi ne abbia voglia, il paragrafo dov' e' discussa la malattia di Giobbe (detta ulcera o piaga maligna, she' kin.ra' ) come esplosione sifilitica. E Giobbe viene di lontano, dalle piaghe e dai morbi di Babilonia e dei Semiti piu' antichi. Quando i pittori cristiani dipinsero San Giobbe lo punteggiarono di bolle: esegesi di gente semplice, infallibile. A questa luce piglia un senso piu' netto la protesta di Giobbe come Giusto Soffrente: perche' a me, innocente, questo male specifico di peccatori? L' incesto nella reggia di Tebe ha per effetto simmetrico un' epidemia del morbo venereo nella citta' , una pestilenza velata, un fuoco oscuro, un "dio che tra gli Dei non ha nome", e un' epidemia simile alla tebana nell' Edipo flagella le tribu' d' Israele agli Shittim, nel libro dei Numeri, per il culto reso a un idolo priapico, il Baal.Peor (di cui abbiamo fatto il diavolo Belfagor). E' significativo che, per togliere il contagio, uno dei mosaisti piu' duri uccida in quell' episodio due amanti nella loro tenda, a cui segue una strage feroce di colpevoli.contagiati. Ma anche la pioggia di fuoco su Sodoma puo' essere vista come meravigliosa metafora di un' epidemia venerea che non risparmiera' , eccetto la casa di Lot, nessuno. Giobbe e il Filottete sofocleo si rassomigliano anche nella malattia, in Filottete localizzata nel piede in cancrena (lo stesso male di Rimbaud, di Gauguin). Di Filottete ho gia' trattato in quel paragrafo, ma vorrei accennare qui alle Trachinie e alla morte di Eracle. Che cosa sara' stata la famosa tunica del centauro Nesso che indossata dall' eroe semidivino gli si attacca alla pelle piagandola spaventosamente, obbligandolo a supplicare il rogo? Il diabolico Centauro consuma la vendetta contro Eracle da morto, trasmettendogli il Male degli Ardenti attraverso la violata Deianira, folle di gelosia ma ignara di portarlo. Il mito e' crudo e parla di un filtro d' amore fatto di sangue e di sperma del Centauro; Sofocle l' attenua e aggiunge mistero, il sangue di Nesso e' reso infetto dal veleno mortale della freccia, proveniente dall' idra di Lerna. Qualche precolombianista che abbia conoscenze storico.mediche trovera' con miti sifilografici amerindiani affinita' vertiginose, cosi' saldiamo il ponte, arco al di sopra delle caravelle. Eracle, l' invincibile, lamenta di essere stato abbattuto "da una donna, da un essere femminile, da qualcuno con niente di maschile, che ha operato sola, senza pugnale" (Trachinie, 1062.63). Senza pugnale, col veleno del suo corpo soltanto, nudita' impregnata della vendetta postuma di Nesso. (Tutto bestialmente avvilito nel luogo comune semicolto "la camicia di Nesso"). Chi e' infetto brama infettare, e' un sadismo antico, che conosceranno anche le tenebre del futuro. (Vedi il finale di A celle qui est trop gaie di Baudelaire: il veleno di cui si parla li' e' lo stesso "malanno cieco" che distrugge vivente Eracle, e che Baudelaire sadicamente vuole trasmettere in un bacio). Di Ginevra non so; ma prima di Calvino era tutta bevute, bagni e bordelli. E dalla fine del XV a tutto il XVI la strana malattia, appartenuta coi suoi treponemi, sempre, a quasi tutta l' umanita' , inviscerata nelle sue storie e nei suoi poemi, prese in Europa un andamento epidemico, spopolandola, mettendo i segni della grosse ve' role dappertutto. San Giobbe e specialmente San Rocco ne erano i patroni; Sant' Antonio del deserto ne era stato preservatore nei secoli cristiani precedenti e i frati antoniani, quelli con la Tau, con un loro celebre unguento, i terapeuti. Dopo Fleming pareva vinta, tornata in cielo e al Dio Apollo, ma si viaggia, si emigra, si fanno marchette in brulicante ronda ophulsiana del Nulla, si copula strabocchevolmente, senza oasi vergini, senza misericordia: e la marcia del prurito primario e dei collarini di Venere ha ripreso, felpata pantera che pero' il domatore Antibiotico sorveglia da vicino. Un presente tuttavia mediocre, dopo tanta passata gloria. Ed e' il nuovo fuoco di Sodoma, l' Aids, a tenere oggi, con crescente strepito, con volonta' annientatrice di mondo, il campo. L' Angelo ha i suoi aiutanti per ogni tempo. E, stranamente, ripensato, ritrovato nei testi e nelle pitture, nelle grandi biografie umane, questo triviale e temuto morbo mi viene e mi si liquefa tra le mani come un sogno, un cifrato sogno in cerca di chiave. Ma delle mie ricerche storiche e filologiche sul piu' vecchio male di Venere ho chiuso il capitolo da tempo. Queste non sono che briciole nella mia memoria. Guido Ceronetti
Ceronetti Guido
Pagina 9
(9 maggio 1992) - Corriere della Sera

sabato 17 ottobre 2015

Fendi costruisce sul Palazzo dell'EUR della Civiltà e del Lavoro: inaudito!

Era il 2013 quando il patron del lusso francese Bernard Arnault metteva le mani su un pezzo di Roma, accaparrandosi il Colosseo Quadrato dell'Eur per un affitto mensile di 240mila euro.

http://www.ilgiornale.it/news/cronache/spunta-misteriosa-terrazza-sul-colosseo-quadrato-affitto-fen-1183678.html?utm_source=Facebook&utm_medium=Link&utm_content=SpuntaBQuadrato%2Bin%2Baffitto%2Ba%2BFendi%2B-%2BIlGiornale.it+cla&utm_campaign=Facebook+Interna

Il contratto sottoscritto dal magnate francese e la Eur spa impegna per quindici anni la Lvmh (Louis Vuitton Moet Hennessy spa), holding guidata dal multimiliardario - che possiede tra gli altri i marchi di Fendi, Loro Piana, Bulgari e Pucci, oltre ovviamente a Louis Vuitton. In cambio del pagamento dell'affitto da paperoni, la maison francese ha avuto lo storico palazzo, con i suoi 12mila metri quadrati distribuiti su sei piani.
"Siamo fieri di questo accordo" diceva per l'occasione il presidente e amministratore delegato di Fendi, Pietro Beccari. "Quello dell'Eur è uno dei più bei palazzi del mondo. Fendi rappresenta la tradizione e la modernità e il dialogo tra l'edificio dell'Eur e l'altro seicentesco di largo Goldoni è ideale. Sarà il nostro nuovo quartier generale, dove lavoreranno almeno 400 persone: i mille metri quadrati del piano terra ospiteremo esposizioni dedicate al made in Italy e alla creatività italiana: siamo aperti a qualsiasi suggerimento. Dopo il finanziamento del restauro della Fontana di Trevi questa operazione definisce ancor più Fendi come un marchio romano".
Tra modernità e tradizione però, sul tetto dell'edificio, che in realtà si chiama Palazzo della Civiltà Italiana, è comparsa una nuova costruzione, apparentemente in metallo, che fa scempio della facciata e dell'intera struttura. I cittadini si dicono indignati e sul web insorgono: "Fa piacere che Fendi dopo soli due anni stia per riaprire il Colosseo Quadrato. Meno piacere fa notare che si stia bellamente cambiando faccia ad uno degli edifici più iconici della città. Se proprio si vuole fare un sopralzo ad un monumento di questa portata almeno si chiami un grande architetto...", scrive Roma fa schifo sulla pagina Facebook, mentre anche la classe politica fa sentire la propria voce.
"Sul Palazzo della Civiltà Italiana, dato in affitto a Fendi, è comparsa una sopraelevazione posticcia costruita sulla terrazza di copertura. Chiediamo al ministro Franceschini chi ne sia l’artefice se qualcuno abbia autorizzato questa orrenda superfetazione su un immobile di raro pregio e sottoposto a vincolo storico e monumentale", ha dichiarato il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale Fabio Rampelli.
"Rammentiamo agli smemorati che la Soprintendenza equipara gli immobili storici dell’Eur al Colosseo e ai palazzi rinascimentali del centro storico di Roma. Qualcuno si è distratto? - si chiede Rampelli. Oppure la vocazione ed il motivo fondante prima dell’Ente Eur e poi di Eur SpA di tutelare il patrimonio immobiliare che le fu conferito sono venuti meno? O magari l’attenzione oggi è rivolta esclusivamente allo smembramento dell’E42? Fendi non avrà mica un canale preferenziale che consente all’azienda di fare cose vietate agli altri? Chiedo formalmente a tutti i soggetti responsabili, dalla proprietà di Eur SpA alla Soprintendenza, di chiarire con urgenza cosa stia succedendo. Mi auguro che il ministro Franceschini risponderà quanto prima all’interrogazione che sta per arrivare sul suo tavolo".


giovedì 15 ottobre 2015

Esperienze simili all'orgasmo

« Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. Il dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata. Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l'angelo estrasse la sua lancia, rimasi con un grande amore per Dio. »
(Santa Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX, 13)

Autore  Gian Lorenzo Bernini
Data  1647-1652
Materiale  marmo
Dimensioni  350 cm
Ubicazione  Chiesa di Santa Maria della Vittoria, RomaAutore Gian Lorenzo Bernini Data 1647-1652 Materiale marmo Dimensioni 350 cm Ubicazione Chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma

LA TUA ESSENZA E' VIVA E AGISCE SEMPRE......

FRIEDRICH NIETZSCHE, 15 OTTOBRE 1844-25 AGOSTO 1900). ANNIVERSARIO DELLA NASCITA  DEL GRANDE FILOSOFO INNOVATORE(E UNICO DIVULGATORE, PER UNA FILOSOFIA POTENZIALMENTE COMPRENSIBILE A TUTTI) CHE. TOLSE IL VELO DELL'INTOCCABILITA' AI PEGGIORI GOVERNI LEGATI ALLA DEMOCRAZIA OTTOCENTESCA (CHE HA GENERATO ANCHE LE ATTUALI) FONTE DI DISASTRO SOCIALE ED UMANO.  
Frasi di Friedrich Nietzsche
1 agosto
Vi è un grado di falsità incallita, che si chiama coscienza pulita.

mercoledì 14 ottobre 2015

La vergogna della costituzione che blinda i Patti Lateranensi per salvaguardare gli interessi Vaticani



Speriamo che mettano mano agli articoli 7 e 8 della costituzione che blindano i Patti Lateranensi. Sicuramente questa parte rimarrà inalterata, come sempre, tutti d'accordo quando ci sono in ballo gli interessi vaticani, e sottolineo VATICANI, che nulla hanno a che vedere con il problema religioso e più ancora del nostro bisogno di SACRO.Gli interessi della Chiesa di Roma non si devono mai toccare e qui sono d'accordo anche i Cinque Stelle

lunedì 12 ottobre 2015

Il mistero che è in noi!

"In questa vita, in cui sono il mio sonno,
non sono il mio padrone,
chi sono è che ignoro di essere: vivo
immerso in questa nebbia che io sono
tutte le vite che ebbi in altri tempi
in una sola vita.
Sono mare; di sotto verso l’alto mareggiando ruggisco,
ma il mio colore viene dal mio alto cielo
e mi incontro soltanto quando da me fuggo.”
Fernando Pessoa

domenica 11 ottobre 2015

Il santo ortodosso trucidato da Stalin



« Tutto passa, ma tutto rimane. Questa è la mia sensazione più profonda: che niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte. Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo. »
(Pavel Aleksandrovič Florenskij, Non dimenticatemi, 1933-1937)



Alla ricerca dell'Aquila simulacro della Legione Romana

Risultati immagini per battaglia di teutoburgo
GERMANICO GIULIO CESARE (Anzio, 15 a.C. – 10 ottobre 19) è stato un militare romano. Fu membro della Dinastia giulio-claudia dell'Impero romano.
Nel 15 d.C. riuscì a recuperare, in un villaggio della tribù dei Brutteri, l'aquila della diciannovesina legione, una delle tre legioni sconfitte nella battaglia di Teutoburgo nel 9 d.C. Trovandosi presso la foresta teatro della disfatta di Varo decise di entrarvi, come ricorda ancora il nostro Tacito (Annali, 1, 61-62):
"Germanico fu acceso dal desiderio di tributare gli estremi onori ai soldati e al loro generale, mentre tutto l'esercito intorno a lui era invaso da commossa pietà al pensiero dei parenti, degli amici [...]. Il primo accampamento, quello di Varo [...] mostrava il lavoro di ben tre legioni; più avanti la trincea mezza rovinata e le fosse poco profonde facevano capire che vi si erano accampati gli avanzi di un esercito già ridotto a pezzi; nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate o disperse [...]. Sparsi intorno frammenti di dardi e membra di cavalli, ai tronchi degli alberi erano conficcati poi teschi umani. Nei vicini boschi sacri si scorgevano rozzi altari, su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni e i principali centurioni [...]. Sei anni dopo quella strage dunque un esercito romano era la, davanti alle ossa di tre legioni e [...] le seppellivano come fossero resti di parenti o consanguinei. Cesare [Germanico], unendosi al dolore dei presentii, pose la prima zolla del tumulo che si stava erigendo come degno atto di omaggio ai morti."