martedì 22 settembre 2020

Il genio che è in ogni uomo

 Recensione a La persona e il sacro, di Simone Weil | Filodiritto
"Dopo mesi di tenebre interiori, ho avuto improvvisamente la certezza che qualunque essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono quasi nulle, penetra in questo regno della verità riservato al genio, se desidera soltanto la verità e fa perpetuamente uno sforzo di attenzione per raggiungerla.
La certezza che avevo ricevuto era che quando si desidera del pane non si ricevono pietre.”
Simone Weil

 

mercoledì 16 settembre 2020

LA DEMOLIZIONE DELLA VELIA

SALVARE VIA DEI FORI IMPERIALI | Giuseppe Strappa
La creazione di una delle strade oggi più conosciute e frequentate di Roma, Via del Fori Imperiali, fu possibile solo in virtù di una mastodontica demolizione di case, quartieri, chiese che occupavano i 900 metri fra il Colosseo e il Vittoriano, nonché dallo sbancamento di un'intera collina, la Velia, di una rilevanza storica enorme. Oggi di quel colle non ci resta quasi nulla, tanto che è agli occhi di noi moderni persino difficile immaginare che potesse esistere un vero e proprio monticello, anche abbastanza erto, di circa 40 metri esattamente in mezzo fra il Colle Oppio e il Palatino propriamente detto.
Gli studi di Carandini e Maria Antonietta Tomei, che riprendono i primissimi scavi di Pietro Rosa nell'area, hanno ipotizzato che potesse rivedersi proprio nella Velia quel primo insediamento pre-romano sul Palatino, il Pallanteo, che il mito riconduce ai mitici Arcadi guidati dal Re Evandro. Morfologicamente la Velia si pone infatti come una delle due appendici del Palatino, insieme al Germalo, sul quale Romolo avrebbe poi fondato la sua Roma Quadrata, allo stesso modo in cui l'Oppio rappresenterebbe l'appendice più estrema del Colle Esquilino.
Non solo dunque una Velia importantissima per aver ospitato la dimora ancestrale del primo console Repubblicano dopo la cacciata dei Tarquini, Valerio Publicola, non solo per il leggendario santuario di Giove Statore fondato da Romolo immediatamente fuori dalle mura e dalla Porta Mugonia che correvano per l'appunto lungo l'Intermontium che separava il Germalo e la Velia, le due cime del Palatino, ma un passato abitativo ancora più remoto, precedente addirittura a Romolo, che rimanda all'alba della storia di Roma.
La Velia ospitava inoltre i templi antichissimi dei Lari e dei Penati, protettori della stirpe romana, e non è un caso che venne scelta da Massenzio come luogo ideale per il suo monumentale progetto urbanistico e propagandistico.
Le immagini degli scavi e della demolizione di questo Colle antichissimo e di importanza simbolica capitale nella storia di Roma sono impressionanti, e nella mappa è possibile vedere, osservando le due linee gialle che segnano il tracciato di Via dei Fori Imperiali, la quantità di edifici completamente distrutti (tutto il quartiere medievale Alessandrino) e la porzione di Colle sbancata.
In quest'opera di distruzione immane il materiale archeologico reperito fu smisurato, stipato in circa 900 casse ricolme di frammenti di cui meno della metà ad oggi studiate e schedate.
Eppure le risposte che potrebbero pervenirci dallo studio di quelle casse ancora mai aperte a distanza di quasi un secolo potrebbero essere clamorose.
Bibliografia consigliata:
- Tomei Maria Antonietta. La Roma Quadrata e gli scavi palatini di Rosa. In: Mélanges de l'École française de Rome. Antiquité, tome 106, n°2. 1994. pp. 1025-1072.
- Andrea Carandini, Palatino, Velia e Sacra via. Paesaggi urbani attraverso il tempo, Edizioni dell'Ateneo

La ninfa Egeria

Nell'immagine sotto, quello che rimane al parco della Cafarella del culto della ninfa Egeria




Ninfeo di Egeria - Wikipedia
Secondo la leggenda, fu amante, consigliera e in seguito moglie del re Numa Pompilio. Quando il re morì, Egeria si sciolse in lacrime, dando vita a una fonte (...donec pietate dolentis / mota soror Phoebi gelidum de corpore fontem / fecit... Ovidio, Metam. XV 549-551), che divenne il suo luogo sacro, e che la tradizione identifica con la sorgente esistente presso la Porta Capena. Esiste anche un'altra fonte Egeria nel bosco di Ariccia, sui monti Albani, vicino a Roma.
A Egeria venivano offerti sacrifici da parte delle donne incinte per il buon esito del parto. Era chiamata anche Camena, che significa cantante, vaticinatrice, e per questa ragione la valle in cui si trovava la fonte di Egeria era detta Valle Camenarum. I colloqui tra la ninfa e il Re si svolgevano nella grotta nel Bosco delle Camene. Insieme a Virbio, altra divinità minore del pantheon latino, la si ritrova associata al culto di Diana Nemorensis, nel Nemus Aricinum, l'insieme dei boschi che circondavano il lago di Nemi presso Ariccia.Diverse sono le fonti classiche che parlano di Numa ed Egeria: Ovidio, Tito Livio nella sua Storia di Roma, Plutarco.
Numa ebbe un lungo e pacifico regno (715-673 a.C.), ricordato in tempi successivi come Età dell'Oro. Creò le principali istituzioni religiose, ordinate di costruire il tempio di Giano, riformò il calendario, aggiungendo gennaio e febbraio ai dieci mesi precedenti, istituì il tempio delle Vestali, di lui si dice persino che avesse il potere di scatenare i fulmini di Giove.
Secondo Tito Livio, Numa ha assicurava di aver tenuto incontri notturni con Egeria. Plutarco suggerisce di aver approfittato della superstizione per darsi un'aura di soggezione e fascino divino.
Il termine "essere un Egeria" significa essere fonte di ispirazione e qualcuno che dà consigli, guida le azioni e le decisioni altrui
Gli incontri tra il re e la ninfa avvenivano nel bosco sacro delle Camene, nel lato sud est del Celio.
Le Camene erano divinità o ninfe legate alle acque, sorgenti o fiumi che fossero. Erano quattro: Egeria, Carmenta, Antevorta e Postvorta. Avevano virtù profetiche e ispiratrici.
La leggenda narra che alla morte di Numa, Egeria si disperò così tanto da indurre la Dea Diana a trasformarla in una fonte, nel bosco di Aricia, sui Monti Albani, dove la ninfa si rifugiava per piangere il suo dolore.
Un altro mistero fu che il corpo del re non fu bruciato su una pira, secondo l'uso romano, ma fu sepolto in una tomba sul Gianicolo; in un secondo sarcofago vennero depositati 12 libri, scritti di suo pugno, con cui dava istruzioni ai futuri Pontefici.
Quando, però, nel 181 a.c. nel corso di lavori pubblici affiorò la tomba, il sarcofago che doveva contenerne i resti fu trovato vuoto e i libri contenuti nell'altro sarcofago furono portati in Senato per essere esaminati; il loro contenuto, fu ritenuto così pericoloso, da indurre i Senatori a bruciarli.

martedì 15 settembre 2020

Il Tempio della Mater Matuta a Satricum

Satrico, ovvero l’antica Satricum, dove oggi sono visitabili interessanti scavi archeologici, è il sito, riaffiorato, grazie a H. Graillot nel 1885. Occupava una serie di rilievi e collinette sulla destra del fiume Astura fra il territorio della città di Latina e Nettuno.
La zona anticamente abitata, identificabile con quella che è oggi l’acropoli; grande circa quattro ettari e protetta naturalmente da ripide scarpate. Satrico, anzi l’antica Satricum, in età arcaica era la seconda città più grande del Latium vetus, dopo Alba Longa.
Satricum, in zona Le Ferriere, è dunque il sito archeologico della città di Latina, testimonianza tangibile che la pianura Pontina non è stata solo palude e disabitata, ma vi era una città fiorente ed era crocevia di una rete di strade che la collegava al Nord ed al Sud. Fondata dai Latini, probabilmente con il nome forse di Pometia sulle sponde del fiume Astura, unico grande corso d’acqua del tempo.
Florida, tra commerci, culto e imponenti influenze etrusche, greche e ovviamente italiche, la città diventò una delle più importanti del Latium Vetus. In seguito, cadde sotto i Volsci che la denominarono definitivamente “Satricum”. Conquistata poi dai Romani, tra strategiche alleanze bilaterali, leghe e guerre di potere, si sviluppò nella sua essenza di città latina. Satrico è una città che ha vissuto il suo massimo splendore in un periodo piuttosto tumultuoso, a metà strada tra identità Italica e conquiste Romane.
Nel 489 a.C. fu una delle città attaccate dai Volsci condotti da Gneo Marcio Coriolano che, dopo aver preso Longula, conquistò anche Satrico. La città fu incendiata e distrutta una prima volta dai Latini nel 377 a.C., e poi distrutta ancora dai Romani nel 346 a.C.. Satrico è citata anche da Dionigi di Alicarnasso, legandola alla ventinove città latine alleate contro Roma.
Non trascurabile è che, anche dopo la distruzione, il santuario dedicato alla Mater Matuta di Satricum rimase frequentato, e lo restò almeno fino al II secolo a.C. Il santuario era sede di un culto praticato all’aperto, per l’appunto sull’acropoli cittadina. Il tempio di Mater Matuta nacque tuttavia nella seconda metà del VI secolo a.C., sostituendo un precedente edificio, e rimpiazzato a sua volta, da un altro edificio più grande, nel V secolo a.C.; che continuò ad essere restaurato nei secoli successivi e del quale restano importanti resti.
Tuttavia Satrico ha sempre avuto come punto fermo della sua identità specifica il Tempio della Mater Matuta; centro fondamentale della religione della pianura intera pontina. Orbene, il sito non era solo concentrato attorno al tempio, poiché Satrico era davvero una vera e propria città che gli scavi archeologici stanno rivelando ancora. Al riguardo, la città fu scoperta nel 1896 da Hector Graillot che individuò il Tempio sulla collina delle Ferriere. Le prime ricerche archeologiche si estesero grazie al lavoro di Felice Barnabei, Adolfo Cozza e Raniero Mengarelli. Già nella prima campagna di scavo, venne alla luce forse il più importante reperto della città: il “Lapis Satricanus”, una iscrizione in latino arcaico dedicata a Publio Valerio. Il tempio era dedicato ad una divinità che era estremamente importante per i popoli italici. Si trattava di un punto di riferimento nell’immaginario collettivo dell’epoca in quanto divinità primaria: la Mater Matuta, madre del mattino.
Fonte:

lunedì 14 settembre 2020

L'ultimo eunuco cinese

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Lui è Sun Yaoting, l'ultimo eunuco della storia cinese, nato il 29 settembre 1902 da una numerosa famiglia di contadini, all'età di otto anni venne castrato dal padre con un singolo colpo di rasoio, appena pochi mesi prima che l'imperatore Puyi fosse deposto.
Nelle famiglie povere cinesi era normale castrare i figli che non si potevano mantenere nella speranza che servissero l'imperatore nella città proibita come eunuchi, infatti l'unico maschio fertile che poteva restare nella città proibita dopo il tramonto era l'imperatore.
Sun Yaoting continuo a servire l'ultimo imperatore Puyi anche dopo la deposizione prima nell'esilio a Tianjin (1925-1931) e poi quando fu incoronato dai giapponesi imperatore dello stato fantoccio del Manchuko (1932-1945, l'imperatore era di discendenza Manchu).
Come ogni eunuco aveva comunque diritto a essere seppellito assieme ai propri testicoli per poter poi rincarnarsi come uomo intero, ma purtroppo per lui durante la rivoluzione culturale cinese (1966-1976) venir trovati in casa con simboli del vecchio regime voleva dire passare guai seri e la famiglia decise di buttare il barattolo contenente i testicoli evirati per evitare problemi.
Pare che comunque prese la cosa con filosofia e scherzasse sul fatto che "vabbè non mi potrò rincarnare come uomo,allora vorrà dire che nella prossima vita sarò un gatto!"
Morì serenamente ultranovantenne il 17 dicembre 1996 a Pechino.
Si ringrazia Ruben Barberis

sabato 12 settembre 2020

La Maria prima del cristianesimo

 Il culto della Dea Madre, le origini pagane dell'Immacolata"In ebraico e siriaco Maria non vuol dire solo esaltata come in greco Maria, ma domina maris ed amaritudinis mare, nomi tutti devoluti alla Luna che il simbolismo cattolico mette sotto i piedi dell’Immacolata o Vergine delle Vergini…Questo simbolismo della Pura Concezione è anteriore di centinaia di secoli al cristianesimo. L’Iside velata egizia e le divinità muliebri o lunari delle monarchie assiro-­‐babilonesi ne fanno testimonianza. E’ il culto più elevato filosoficamente e magicamente parlando…nella teosofia altissima la Maria e Concezione non sono che stati di luce mentale, lo stesso della Rosa mistica dei Rosacroce. La verità che pone sotto i piedi tutte le mutabilità influenti sul mondo terreno (la luna) è circondata da 12 stelle, sono le 12 parvenze astrali che non mutano e splendono lo stesso e della stessa luce intorno alla testa sorridente della Saggezza…Ogni afflitto ricorra a lei e sarà consolato, ogni infermo sarà benedetto e guarito: se chi prega non è all’altezza di elevarsi fino alla più alta della sommità purissima, evochi e invochi la sua immagine astrale (In-­‐Mago) e anche l’ombra di quella luce, è luce che consola"

G. Kremmerz, Avviamento alla scienza dei Magi

venerdì 11 settembre 2020

Carducci Inno a satana..


Il celebre inno “A Satana” del premio Nobel Giosuè Carducci, poeta ed insigne massone bolognese , non ha alcun presupposto sulfureo o demoniaco. In realtà in questo componimento Carducci ha inteso “riabilitare” gli antichi dei pagani che il cristianesimo aveva nel tempo mistificato, assorbendone le caratteristiche più benevole nei propri santi, ed ammantando di diabolica superstizione ciò che rimaneva nella memoria di quell’antico mondo panteista; un mondo artatamente iscritto dalla Chiesa nella “sfera del male” tramite una costante opera di diffamazione e rimozione . Un’opera cominciata subito dopo l’editto dell’imperatore Costantino, nel terzo secolo, che fece della Chiesa Cattolica la religione di stato, un’operazione di occultamento culturale reiterata praticamente fino ai giorni nostri.
Tutti gli antichi dei furono trattati come demoni, da esorcizzare e debellare, per rimuoverli dalla memoria storica e spirituale della gente. Anzi l’identikit del diavolo, nell’immaginario popolare, fu creato proprio sulle fattezze del dio pagano Pan con piedi e corna caprine. Una divinità libertaria, eversiva, la più assolutoria per quanto riguardava il naturale esercizio dei sensi e dei piaceri più ormonali degli uomini e delle donne.

File:Giosuè Carducci en 1871.jpg - Wikipedia
Una libertà intollerabile, addirittura blasfema, per la nuova religione cattolica, che non esitò ad assimilare Pan e la sua filosofia a Satana stesso, descrivendo quest’ultimo esattamente con i connotati dell’antica divinità dei boschi e delle campagne, tutto questo ratificato nero su bianco in una bolla emanata da papa Gregoria IX del 1233, contro i sabba.
Carducci inneggia quindi alla religiosità più naturale e più umana del passato, soffocata e denigrata da quella cattolica, e non rivolge certo occulte devozioni al Dio del Male. Solo la Mala-Fede potrebbe supporlo.
Il suo inno cita infine, e rende loro giustizia, alcuni “ribelli” cristiani che osarono opporsi all’opprimente e spesso violenta teocrazia cattolica, e pagarono il loro coraggio e la loro coerenza con la vita. Si tratta per lo più di monaci riformatori come Arnaldo da Brescia impiccato e bruciato nel 1155; come l´eretico G.Wycliffe ucciso nel 1384 precursore della riforma luterana; come il boemo G.Hus, anch’egli precursore della riforma, catturato e arso vivo a Costanza nel 1415 ; o come il frate domenicano Savonarola anche lui bruciato sul rogo a Firenze nel 1498.
A queste figure Carducci accosta nei suoi versi anche Lutero, l’uomo della riforma protestante in Germania.
Nelle rime finali dell’inno carducciano, spunta una nuova “divinità”… il Carro del Foco, la locomotiva… esaltata come simbolo del progresso umano. Moderna versione del “fuoco” evolutivo di un altro antico eroe pagano, Prometeo.
L’Inno a Satana per quanto famoso, non è però mai stato considerato da Carducci una delle sue opere migliori. Egli stesso ammise infatti che il suo innato anticlericalismo e la foga dell’ispirazione l’avevano forse portato un po’ fuori misura, facendo scaturire dai suoi versi “invece del grido dell’aquila, il verso del barbagianni”.
Ma se non è la lirica più amata dal suo stesso autore, l’Inno A Satana resta forse quella che ne rivela con più sincerità l’indole e l’essenza, avversa ad ogni ipocrisia della fede e dei dogmi. Un inno, insomma, alla libertà dei corpi e delle menti…..

mercoledì 9 settembre 2020

Paradossalmente, San Paolo fa un inno alla bellezza femminile.

Termometro Politico - Forum

L'origine del velo femminile è cristiana prima che islamica. Essa si lega al mito degli angeli caduti. San Paolo dice (I Cor. 11.10) che le donne devono coprirsi il capo per non mettere in tentazione gli angeli. In effetti gli angeli caddero attratti dalla bellezza dei capelli delle donne della terra.

lunedì 7 settembre 2020

La sinistra chiesa di Milano


Perché la Madonna della cappella Portinari a Milano ha le corna?

La basilica romanica di Sant'Eustorgio a Milano conserva tesori e segreti: il sepolcreto dei magi evangelici, ricevuto in dono dall'imperatore Costante I, dal quale l'infame arcivescovo Rainald von Dassel, cancelliere imperiale del Barbarossa, trafugò le reliquie per portarle nel Duomo di Colonia, e, fra il lezzo degli incensi, un inquietante dipinto che ritrae la Madonna con corna luciferine, una maternità diabolica espressione di un miracolo compiuto ai danni di un eretico, un incolpevole cataro discendente dei più antichi gnostici. Di questa «trinità diabolica» parlano lontani rituali gnostici, nei quali il neofita è tratto simbolicamente dalla morte alla vita, dalla corruzione alla resurrezione. Chi fruisce del rito diventa inattaccabile a ogni potenza che non sia quella divina, e grazie a tre nomi, si libera della trinità malefica. Un preciso rituale, una giaculatoria che comprende «tre parole» con le quali il demonio viene incenerito. Una tradizione insinuante, che trae la propria origine dai remoti esorcismi dei caldei di Babilonia...

Un mausoleo perso e solitario nella campagna

Il punto esatto in cui si trova il Mausoleo di Monte dell’Incastro è facilmente rintracciabile su Google Maps. Tuttavia, trovare l’imbocco del lungo dromos che conduce alla camera sepolcrale non è così semplice. Ci si trova proiettati a capofitto nel verde adamantino che si dispiega davanti ai propri occhi, al centro del quale spunta un’enfiagione nel terreno, sormontata da frasche e alberi a basso fusto.
Esattamente quello di cui abbiamo bisogno per indovinare la presenza di un ambiente sotterraneo: un’anomalia nella regolarità del paesaggio....Si gira attorno al perimetro dell’area e, infine, l’occhio cade su un elemento ricorsivo più volte presente all’imbocco di camere ipogee: un albero di fico. Avete trovato il dromos...
Costruzione di età adrianea costituita da una camera circolare con cupola e due absidi, decorate con mosaici a tessere bianche e colorate (pasta vitrea e marmo serpentino).
Il sistema è completamente ipogeo, con due aperture per la luce, una al centro della cupola che ricorda quella del Pantheon e una laterale; l'accesso avviene tramite un lungo corridoio parzialmente interrato a causa della presenza di tre pozzi in opus mixtum.
Il condotto di accesso è non perfettamente rettilineo, probabilmente per non far filtrare la luce da esso.
A terra si notano i resti delle lastre che ricoprivano l'altare da cui probabilmente nel 1927 è stato prelevato l'altorilievo raffigurante Ercole defunto esposto nel Museo Nazionale Romano.
Sulle pareti ci sono dei fori, apparentemente posti in posizione irregolare, servivano sicuramente come mensole di alloggiamento (Oggi asportate).
L’aspetto più affascinante riguarda proprio il rapporto fra l’oculus e queste mensole perdute: sembra che in alcuni periodi dell’anno questa porzione di parete viene illuminata dalla luce del sole che filtra attraverso il lucernario.

Quando, rubata la statua in bronzo di Traiano, la si sostituì con quella di San Pietro

COLONNA TRAIANA | romanoimpero.com
Nel 633 l'imperatore bizantino Costante II giunse a Roma e vi rimase 12 giorni. Sua preoccupazione fu quella di depredare il Pantheon e di razziare tutte le statue di bronzo che erano rimaste. Tra esse quella di Traiano in cima alla famosa colonna. Secondo Rodolfo Lanciani la prova è data da un graffito fatto col pugnale scoperto in cima, in cui si diceva che vi era salito Costante. Da quel momento i templi, che erano stati lasciati in pace dai cristiani, furono sistematicamente da loro utilizzati come residenze ecclesiastiche. Solo la colonna traiana godette di un certo rispetto, finché nel XVI secolo vi impiantarono sopra la statua di san Pietro. Io propongo di toglierla e di trasferire alla base della colonna i resti di Giacomo Boni
(S.A.G.A.PO.)Foro di Traiano - RomaSegreta.it

domenica 6 settembre 2020

IL MOSE: SOLDI PUBBLICI IN FONDO AL MARE

Morto Pellegrinotti, l'ingegnere del progetto alternativo al Mose - La  Nuova di Venezia Venezia
Dal quotidiano LA NUOVA
 VENEZIA. E' morto Alberto Pellegrinotti. Ingegnere del Lido, appassionato «combattente» in difesa della laguna, che che conosceva come le sue tasche e difendeva dall'assalto del cemento. Era malato da tempo, e ultimamente scriveva mail e messaggi agli amici di «Ambiente Venezia», associazione ambientalista che aveva avvicinato negli ultimi anni. L'ingegner Pellegrinotti, figura molto nota nell'isola e nel mondo degli esperti della salvaguardia lagunare, aveva messo a punto un suo progetto di «Navi porta», brevettato nel 1980. Un sistema di sbarramenti mobili alle bocche di porto con piloni e cerniere fisse, e una parte mobile che poteva essere rimossa. Era stato inserito nel 2006 dalla giunta Cacciari tra i progetti alternativi al Mose poi scartati dal governo Prodi.  Un ricordo di Pellegrinotti e della sua grande passione per la laguna si terrà domattina alle 11.30 nel cimitero di San Nicolò al Lido. (a.v.)

Tracce di un alfabeto primordiale

Solstizio d'inverno, simbologie solari e Cristianesimo | Paolo G.

Notiamo, dalle pubblicazioni di G. Sermonti che le lettere dell'alfabeto (proto-fenicio) sono state modellate sulle costellazioni zodiacali (l'eclittica costituisce l'attuale "percorso del sole") e sulle costellazioni galattiche (la galassia costituiva l'antico "percorso del sole" fino alla "caduta di Fetonte"), allora abbiamo davanti a noi la primordiale "lingua siriaca" (loghah suryaniyah), la lingua solare che si dice fosse la lingua parlata da Adamo in Eden.

venerdì 4 settembre 2020

Quando i cristiani, per combattere il paganesimo, abbattevano gli alberi sacri e i boschi

10 Giugno Festa della Quercia

(Tratto da ALBEROLOGIA di Antonio de Bona www.alberologia.it)

Distruggerete completamente tutti i luoghi dove le nazioni

che state per scacciare servono i loro dèi: sugli alti

monti, sui colli e sotto ogni albero verde.

Demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele,

taglierete i loro pali sacri, brucerete nel fuoco

le statue dei loro dèi e cancellerete

il loro nome da quei luoghi.

ESODO 24.4 E 34.13

Il termine dendrolatria, dal greco déndron ‘albero’ e latria latréia ‘culto’, indica una fase religiosa, individuata tra gli altri da John Lubbock, durante la quale si è creduto che le divinità avessero dimora ciascuna nel singolo albero e dunque, estensivamente, l’atteggiamento primitivo di proporzioni nei riguardi dell’albero cui si offrivano sacrifici per ottenerne protezione e fertilità.

La religione cristiana non ha mai approvato i culti pagani, anzi li ha combattuti senza riuscire ad annientarli del tutto. Come sempre accade nel succedersi di tradizioni e civiltà del passato, restano alcuni aspetti trasformati e adattati alle nuove realtà. Così, aspetti dei culti pagani permangono nelle cerimonie e feste dedicate ai santi cristiani, specie nei paesi più isolati e quindi più radicati alle tradizioni. L’impegno della chiesa è stato rivolto a trasferire i culti dalle divinità pagare ai santi.

Gli antichi Germani, le popolazioni celtiche, veneravano alcune varietà di alberi, anzi questo culto costituiva la base stessa della loro religione. Agli alberi venivano indirizzate offerte diverse: il ferro era metallo raro, prezioso, perciò le offerte consistevano spesso in oggetti come ferri di cavallo e chiodi.

Quando Giulio Cesare (100-44 a.C.) invase la Gallia decise di fare abbattere una foresta sacra ai druidi3, per arginare incursioni e attacchi; per l’assedio venne impiegato il legname tagliato dalla foresta4. In seguito i cristiani iniziarono l’opera di conversione delle comunità pagane; vietarono il culto rivolto agli alberi e, conseguentemente, si impegnarono a distruggere le loro foreste sacre.

Augusto (Roma, 23 settembre 63 a.C. - Nola, 19 agosto 14 d.C.) proibì i culti druidici nelle Gallie. Sotto il regno di Tiberio, i druidi furono soppressi con un decreto del senato; il provvedimento in seguito fu ratificato da Claudio. Suplicio Severo ci racconta del più noto osteggiatore dei riti legati ai boschi sacri: San Martino (316-397).

Durante un viaggio passò nei pressi di Atun dove, dopo aver abbattuto un bosco sacro, si apprestava ad abbattere un grosso pino nei pressi di un santuario. Qui incontrò la resistenza del sacerdote locale e delle popolazioni pagane che lo attaccarono dicendogli: “Se hai un po’ di fiducia nel Dio che dici di onorare, abbatteremo noi quest’albero che cadrà su di te; se il tuo signore è con te, come dici, sfuggirai”. Accettò la sfida e si fece legare sul letto di caduta dell’albero, cioè il punto preciso dove l’albero doveva cadere. Quando stava per crollare si fece il segno della croce e l’albero lo sfiorò di un soffio senza toccarlo. Il miracolo convertì in massa gli spettatori. San Martino continuò a predicare, battezzare nei villaggi, abbattere templi, alberi sacri e idoli pagani, dimostrando comunque compassione e misericordia verso la popolazione.

Per questo ed altre vicende la sua fama ebbe ampia diffusione in tutta la comunità cristiana. In Siria, Marcello, vescovo di Apamea, venne ucciso dai pagani, furenti poiché aveva promosso l’abbattimento di svariati templi, conformemente all’editto promulgato dall’imperatore Teodosio I il Grande.

L’opera distruttiva venne proseguita dal discepolo di S. Martino, San Maurilio (? - 453) vescovo di Angers, il quale, nel tentativo di evangelizzare il Comminges diede fuoco al bosco sacro; il territorio del bosco distrutto fu consacrato a San Pietro. Continuò con determinazione San Benedetto da Norcia (480-547) nei pressi di Cassino; abbatté gli altari pagani, recidendo il bosco sacro ad Apollo; volse al culto cristiano i templi pagani, consacrandoli al suo predecessore San Martino. A Montecassino costruì un monastero dove risiederà per definire la Santa regola. A nulla valsero gli anatemi dei concili provinciali; quello di Arles del 457 d.C. proibiva l’adorazione degli alberi, delle fonti e delle pietre; quelli di Tours e di Nantes, rispettivamente del 567 e 568 i quali si accanirono contro le persone che celebravano riti sacrileghi all’interno dei boschi e contro gli alberi consacrati al demonio. L’accanimento contro le diverse religioni galliche non portarono grossi cambiamenti ai culti resi agli alberi che continuarono a perpetrarsi. La loro influenzaera sia sociale che religiosa.

Va segnalato un monaco irlandese, Colombano (542-615) meglio conosciuto come San Colombano di Luxeuil. Missionario noto soprattutto per aver fondato da abate numerosi monasteri e chiese in Europa. È venerato come santo dalla chiesa cattolica, ma anche dalle chiese ortodosse e dalla chiesa anglicana.

Anche in Irlanda nel 665, alcuni sacerdoti cristiani fecero abbattere un numero enorme di frassini ritenuti sacri, per segnare il trionfo del cristianesimo sulle tradizioni locali.

Intorno al 670 Barbato vescovo di Benevento (?-683) da tutti ricordato per aver convertito i Longobardi al cristianesimo, fece abbattere un noce gigantesco. Nel posto dove fu tagliato il noce, fece erigere un tempio con il nome di S. Maria in Voto; successivamente fu dichiarato santo e gli fu dedicata una chiesa a Benevento e una a Salerno; è ricordato il 19 Febbraio. L’impegno della Chiesa non cessò nell’estirpare le credenze pagane che continuavano a rendere il culto ai boschi e agli alberi.

Esemplare la vicenda di Sant’Eligio (588 c.ca-660) vescovo di Noyon, del quale leggiamo alcune prescrizioni in merito al comportamento da tenere relativamente agli alberi:.

«Non prestate attenzione agli auguri, o agli starnuti violenti, o al canto degli uccelli. Se venite distratti mentre siete in cammino o al lavoro, fate il segno della croce e dite con fede e devozione le preghiere della domenica, e niente potrà farvi del male […] Nessun cristiano, nella festa di San Giovanni (24 Giugno) o di alcun altro santo dovrà eseguire solestitia [riti del solstizio d’estate] o danzare o saltare o cantare canti diabolici. Nessun cristiano dovrebbe mostrarsi devoto agli dei del trivio, dove tre strade si uniscono, né partecipare alle fanes, feste delle rocce, delle sorgenti, dei boschi o degli angoli. Nessuno deve fare lustrazioni (“purificazioni”) o incantesimi usando erbe, o far passare il bestiame attraverso un albero cavo o un fosso perché così lo si consacra al diavolo. Perciò, fratelli, rifiutate tutte le invenzioni del nemico con tutto il vostro cuore e fuggite questi sacrilegi con orrore. Non venerate altre creature oltre Dio e i suoi santi. Evitate le sorgenti e gli alberi che chiamano sacri. Perché voi dovete credere di poter essere salvati con nessun’altra arte che l’invocazione e la croce di Cristo. Come sarebbe possibile altrimenti che i boschi dove questi uomini miserevoli fanno i loro riti sono stati abbattuti e la legna proveniente da lì è stata data alla fornace? Vedete come è sciocco l’uomo, che onora degli alberi morti, insensibili e disprezza i precetti di Dio onnipotente».La contesa religiosa partiva dalla Francia per coinvolgere altre regioni oltre la Gallia, e i paesi di origine germanica, come dimostrato dalla vicenda di San Bonifacio (680 c.ca-755). Questo monaco benedettino, ritenuto l’apostolo della Germania, di nome Vinfrido (Winfrid), fu convocato a Roma dall’Inghilterra e ordinato vescovo dal papa Gregorio II, ricevendo il nome di Bonifacio. Fu destinato in Germania ad annunciare la fede di Cristo a quelle genti. Durante il viaggio di ritorno in Germania nel bosco di Hessen fece abbattere una gigantesca quercia alla quale le popolazioni pagane attribuivano poteri magici, ritenendola sede del dio del tuono Thor. Quel gesto fu visto come una vera sfida alle divinità e i pagani accorsero numerosi per assistere alla vendetta del dio offeso. San Bonifacio, tuttavia prevalse e ai piedi della quercia abbattuta farà erigere la chiesa dedicata a San Pietro. Ma presso Dokkum in Frisia, venne ucciso nel 754 assieme ai suoi 52 confratelli Benedettini dai Frisoni, che intendevano difendere i loro santuari e le loro credenze. Poco più tardi, nel 772, Carlo Magno durante una missione punitiva contro gli Angari, distrusse il santuario pagano dove veniva venerato Irminsul, un gigantesco tronco d’albero che, secondo le credenze, aveva il compito di sostenere la volta celeste. La sua campagna militare durò oltre 30 anni durante i quali il sovrano presenziò ai battesimi di massa avvenuti fino al 785, quando fu repressa l’ultima ribellione delle tribù pagane; il loro comandante, Vitichindo, battezzato a sua volta, giurò fedeltà a Carlo Magno. Doveroso citare direttamente il biografo Eginardo, che alla fine del conflitto aveva annotato:

La guerra, durata cotanti anni, si chiuse infine con adesione [dei Sassoni] alle condizioni offerte dal Re, le quali furono la rinuncia ai loro costumi religiosi nazionali e all’adorazione dei demoni, l’accettazione dei sacramenti della fede e religione cristiana, e l’unione coi Franchi in unico popolo.

Tra i vari tentativi messi in atto dalla Chiesa Cattolica per estirpare i riti pagani è sicuramente importante la disposizione di papa Gregorio III il quale spostò la festa di tutti i Santi dal 13 Maggio al primo di novembre. Lo scopo era quello di sovrapporla e sostituirla, alla festa celtica di Samhain (Halloween) festa della fine dell’estate. Divenne festa di precetto ed estesa dall’imperatore Ludovico I ai territori a lui assoggettati. Agli inizi dell’XII secolo, perpetuandosi il culto dei boschi in Germania, la chiesa locale ordinò di abbattere gli alberi; cosa che si ripeté più tardi anche in Boemia dove il vescovo Ottone di Bamberga (1060-1139) appreso che nei boschi attorno a Stettino, vi erano querce sacre, non riuscendo a farle abbattere a causa della reazione violenta dei contadini del posto, fece diffondere la voce che molte di esse erano abitate dagli spiriti maligni. Dovevano quindi essere abbattute e, se necessario, anche con il suo intervento personale. Il suo biografo Herbord ci tramanda che il vescovo e i suoi sacerdoti iniziarono subito, armati d’asce e lance, a distruggere gli alberi nei boschi. Dopo che il popolo si accorse che gli dei non si difendevano, si unì all’opera. Mons. Ottone lasciò solo una quercia per la preghiera degli abitanti di Stettino, a condizione che sotto l’albero non venisse praticata alcuna divinazione.

L’albero sradicato divenne in pieno medioevo l’emblema dei Templari. 

Se l’albero sradicato era il simbolo dei Templari8, l’olmo (Ulmus campestris L.) acquistò un significato particolare per tutti i “monaci guerrieri”; per loro era identificato come pianta sacra ed assumeva significati di amicizia, protezione, sostegno, amore e perfezione. L’albero dell’olmo fu particolarmente significativo anche per i Cavalieri Templari, e per estensione iniziò a far parte della simbologia cristiana e loro stessi utilizzarono spesso le denominazioni “Santa Maria dell’Olmo” o “Madonna dell’Olmo” per intestare le loro chiese. Prova ne è la chiesa principale di Castelmezzano (Pz), la quale si trova nel centro del paese, e si chiama Santa Maria dell’Olmo, edificata nel XII secolo proprio nei pressi di un olmo. La presenza della chiesa in vicinanza dell’albero e dell’acqua, rivela una correlazione tra questi due elementi di enorme carica simbolica: il primo potrebbe rappresentare l’albero della vita e il secondo la fonte della vita stessa.

In riferimento ai Cavalieri Templari, troviamo un curioso riferimento all’olmo nel Regno Unito, presso la località chiamata Temple, a Balanradoch, nella regione scozzese del Midlothian. In una leggenda locale in questo luogo sarebbe stata sepolta una parte del leggendario tesoro dei Templari: “tra la quercia e l’olmo sono sepolti milioni, li potrai trovare gratuitamente”, recita un vecchio detto locale (Twixt the oak and the elm tree / You will find buried the millions free).

Il tentativo di eliminare il culto degli alberi dovette estendersi per tutto il Medioevo, quando i parroci rimproveravano e scomunicavano le persone che portavano offerte agli alberi o innalzavano altari sulle loro radici e richiedevano protezione per la propria famiglia e per i beni intonando canti o lamenti. Ma nonostante le scomuniche, i rimproveri e le minacce, il culto degli alberi si tramandò per altri secoli. La venerazione degli alberi si dimostrò essere ancora viva nel XIII secolo, quando il vescovo Anselmo, nel 1258, a Sventanistis, ordinò l’abbattimento di una enorme quercia sacra; la sua resistenza era tale che l’ascia rimbalzo sul tronco colpendo mortalmente il boscaiolo. Allora il vescovo in persona prese l’ascia per passare all’azione, ma anche lui non riuscì nell’impresa, così ordinò di bruciarlo.

La lotta continuò anche nel secolo successivo. Tra il 1351 e 1355 a Perm, città della Russia europea, a contrastare le credenze pagani profuse il suo impegno un vescovo della chiesa ortodossa divenuto poi Santo, Santo Stefano di Perm, (1340-1396). Questi decise di agire in modo drastico, poiché la sua cella si trovava a poca distanza da una grande betulla, venerata dagli abitanti del luogo; la abbatté nel cuore della notte. Il giorno dopo, gli idolatri volevano ucciderlo, ma il Santo li fece desistere facendo notare che il “loro dio” non poteva essere così potente se aveva permesso ad un uomo di abbatterlo, e riuscì ad avviare il processo di conversione, tanto che Pimen, Metropolita di Mosca e di tutte le Russie, lo designò Vescovo metropolita di Perm.

Nel XVI secolo, l’arcivescovo Carlo Borromeo divenuto santo nel 1610 e ricordato dalla chiesa cattolica il giorno 4 novembre, fece diffondere il suo pensiero e il suo monito in merito a culti e superstizioni: «Il giorno delle Calende di Maggio, consacrato ai Santi Apostoli Giacomo e Filippo si profana dal popolo con quelli alberi frondosi, che con ridicolo spettacolo si alzano in più siti di quella Città, e si chiamano il Maggio, o Majo”.

Questa “gentilesca superstizione” venne condannata dall’Arcivescovo di Milano Carlo Borromeo in quanto provocava gravi disordini, appurato che alcuni uomini immersi nel piacere di quella azione ridicolosa hanno tralasciato in quel giorno festivo di ascoltare la Messa, ed altri hanno tagliati quelli alberi a viva forza, e con disprezzo sul fondo altrui, e spesse volte ne’ beni della Chiesa. Dal che si originarono risse, inimicizie, ingiurie, odi, e talvolta uccisioni; disturbavano i divini Offici e le Prediche, i bagordi, le ubbriachezze, i motti osceni ed altre nefande dissoluzioni». Intimò ai vescovi di proibire quello spettacolo con pene ai contravventori ricorrendo ai Magistrati in caso di bisogno. Suggerì, infine, di rivolgere in quel giorno preghiere a Dio, con “divote processioni ed in vece di quelle piante profane d’inalberare pubblicamente, e con religiosità il Santissimo Albero della Croce di Gesù Cristo nei luoghi più cospicui della città...”

Il V Concilio Provinciale di Milano (1579), invitava i vescovi a trasformare le antichissime ed “empie” usanze che si tenevano il 10 maggio. In tale giorno era consuetudine nei centri della provincia trasportare in tripudio “frondosi alberi” da innalzare nelle piazze e in altri siti. Ai vescovi venne imposto di scoraggiare la partecipazione a tali feste cercando soprattutto di trasformare la ricorrenza pagana in occasione di cristiana esultanza, di testimonianza a Dio e di professione di fede.

Si levi l’abuso che in questa diocesi è grande di drizzar gli albori che si chiamano “Maggi” alle feste delle Calende di Maggio, che oltre causare molti disordini, risse, et soprattutto scandali, dà segno più presto di una pagana superstizione che di attione cristiana e in vece loro si drizzino delle croci in tutti i capi delle strade pubbliche.

Così ammoniva il Nunzio Apostolico della diocesi di Alba nell’anno 1584, contro l’usanza diffusa d’innalzare “maggi” nel basso Piemonte. Da qui forse la trasformazione di un rito pagano: si cominciò a portare grandi alberi inghirlandati in processione, che poi venivano piantati.

Verso la fine del XVIII secolo gli alberi assunsero altri significati; non più tagliati né abbattuti ma per altri motivi e altre finalità vennero piantati o eretti in nome della libertà. Durante la rivoluzione francese, per festeggiare l’abolizione della tirannide e il ritorno della libertà, i repubblicani piantano il primo Albero della libertà, nel 1790 a Parigi e poi in tutta la Francia. Un decreto della Convenzione del 1792 ne regolava l’uso: l’albero della libertà, è sormontato da un berretto frigio (con la punta piegata in avanti come quello degli antichi abitanti dalla Frigia) rosso adorno di bandiere; ai suoi piedi giurano magistrati, si bruciano i diplomi nobiliari, si danza, si festeggia. 

Alberi della Libertà vennero successivamente piantati in ogni municipio della Francia e il fenomeno approdò in Svizzera e anche in Italia. Generalmente erano piantati nella piazza principale delle città,frequentemente tra contrasti delle fazioni opposte; molti furono sradicati una volta passato il periodo rivoluzionario, generando analoghi contrasti e dissidi fra cittadini di diversa appartenenza politica. Degli esemplari sono ancora presenti in diversi dipinti dell’epoca.

Dopo la proclamazione del Repubblica Napoletana del 1799, anche a Potenza venne eretto un Albero della libertà nella piazza principale; fu abbattuto quando la violenta repressione condotta dal cardinale Ruffo, sfociò in guerra civile e si concluse con l’uccisione di chi aveva sostenuto la repubblica, tra gli altri il vescovo Giovanni Andrea Serrao. Egli vi aveva aderito sia perché la sua ispirazione a San Paolo lo induceva all’obbedienza all’autorità costituita, sia per le sue aspirazioni riformatrici che sembravano essere rappresentate dal nuovo governo repubblicano. Si tradusse in una violenta guerra civile.

Nello stesso anno altri significativi episodi si ebbero in provincia di Potenza: a Lauria, venne piantato l’Albero della libertà per rappresentare l’emancipazione del popolo dalle tirannie. Non appena cessò la Repubblica partenopea, i borbonici proclamarono il ritorno alla normalità

e la chiara intenzione di distruggere l’Albero della Libertà. Alla reazione dei giovani liberali, intervenne il sacerdote Don Domenico Lentini a placare gli animi, evitando altro spargimento di sangue; convinse i repubblicani ad abbattere l’albero con la promessa che al suo posto ne avrebbe fatto innalzare uno, “imperituro”, ribattezzandolo “del riscatto e della salute”. Era una semplice croce in ferro battuto, su una colonna di pietra alta non più di tre metri. A differenza di tutti gli

altri alberi, è ancora al suo posto! Avigliano fu la prima città (precedendo anche Napoli) a piantare l’Albero della libertà e a proclamare la Repubblica, che ebbe tra i suoi fautori i lucani Mario Pagano e Michele Granata. Da Avigliano poi, i moti si estesero in tutta la regione, animati dalla “Organizzazione democratica” guidata dagli aviglianesi Michelangelo e Girolamo Vaccaro. Anche questa insurrezione venne repressa: gran parte della popolazione era fedele ai Borbone.

 

L’albero è un bellissimo e vero simbolo di libertà!

La libertà ha le sue radici nei cuori della gente,

come l’albero, nel cuore della terra...

VICTOR HUGO, 1 marzo 1848Ma torniamo alle piante propriamente dette e ai riti a loro dedicati. Le autorità ecclesiastiche, poiché non bastarono le ammende e le punizioni a far sparire un culto radicato, considerata l’attrazione per gli alberi da parte del popolo, solitamente suscitata dal timore per i fenomeni che non sapeva spiegare, cercarono di focalizzare l’interesse verso quegli aspetti del mondo vegetale di importanza determinante per la vita umana e, anziché distruggerli gli alberi, li avvicinarono al culto dei santi e della Madonna. Peraltro, tanti santi hanno notoriamente mostrato di sentire fortemente la vicinanza con la natura tutta, basta ricordare il Cantico di San Francesco; inoltre, nomi di santi come S. Silvano e S. Silvestro erano naturalmente rapportabili al culto degli alberi per l’etimologia di abitanti delle selve. Di qui, molti dei santuari e cappelle dedicati alla Madonna: dalla Madonna del Bosco, alla Madonna della Selva e della Foresta, fino a una onomastica legata al singolo albero tipico del luogo: Madonna della Quercia, del Platano, del Cerro, del Frassino, del Pino e della Madonna dell’Olmo, di cui si è fatto cenno in precedenza; e, infine, i santuari che si incontrano sulle cime selvose delle montagne, dedicati a San Silvano e a San Silvestro, i quali meriterebbero una più approfondita riflessione proprio in merito alla collocazione. Nel corso del XIX secolo i festeggiamenti del maggio andarono in declino abbastanza rapidamente, sia perché la Chiesa, per sradicare questa tradizione di origine pagana, dedicò tutto il mese di maggio alla Madonna; sia perché più tardi il socialismo fece del primo maggio la festa dei lavoratori, prima in America, poi in molti altri Paesi, e anche in Italia, per ricordare i traguardi raggiunti dai lavoratori in campo economico e sociale, già dagli ultimi decenni dell’Ottocento.

Durante il fascismo non furono proibite le “feste di Maggio” ma improntate al generale clima di propaganda. La chiesa cattolica rivolse la decorrenza del “lavoratore” a S. Giuseppe perché anche i cattolici potessero partecipare a pieno titolo ai festeggiamenti. Queste ricorrenze sono andate perdendo le motivazioni magiche o sacrali e hanno assunto le sole motivazioni di gioco, divertimento e prova di forza, per riversarsi e concludersi nell’albero della cuccagna, in occasioni che hanno smarrito l’autenticità dei fatti religiosi relegati a fare da cornice. Solitamente il palo della cuccagna, prima di essere messo a dimora viene ricoperto di grasso o altra sostanza scivolosa per rendere difficile l’arrampicata da parte dei concorrenti. Così l’albero diventa una sorta di palestra di gara per dimostrare agilità e destrezza dei robusti giovanotti del paese a caccia dei suoi frutti; successivamente diventa anche una prova di robustezza dell’apparato digerente dei suoi conquistatori e dei partecipanti tutti.

L’albero della cuccagna legato in qualche modo al popolo latino, attecchisce per tutta l’Europa, nell’utopico paese dell’abbondanza, dove non si fa altro che mangiare e bere, e ce n’è sempre più di quanto se ne desidera, insomma il sogno di tutti i poveri del mondo. Ad Accettura si celebra la cosiddetta festa del “Maggio” esportata anche nei paesi limitrofi, una manifestazione ancestrale, emblematica della fecondità della natura. In questo rito nulla è collegato al santo patrono San Giuliano. Verso questo aspetto specificamente pagano della festa ha rivolto il suo impegno e la sua cura un singolarissimo vescovo: per un trentennio del XX secolo, è stata notevole in Basilicata l’azione civilizzatrice del Servo di Dio Mons. Raffaello Delle Nocche11 (1877-1960), 68° Vescovo della Diocesi di Tricarico (Mt). Il suo impegno è stato rivolto anche a ridare dignità alle feste patronali, mediante richiami ed esortazioni affinché non fossero mescolati il sacro con il profano, il divino con il triviale, la preghiera con la crapula. In occasione della quinta visita pastorale ad Accettura, precisamente nel 1949, il vescovo sollecita l’arciprete De Luca affinché, in merito alla festa del maggio si recuperi il travisato senso religioso. Nel documento emesso in quella occasione, con accoramento e affetto paterno rivolse agli “Accetturesi” queste raccomandazioni:

Si convincano i nostri figli di Accettura che la tradizionale usanza del maggio è contraria alla santità delle sane processioni, è occasione di gravi offese alla legge di Dio e assai contraddice allo spirito di bontà cristiana; perciò, mentre non ci stanchiamo di raccomandare ai buoni fedeli l’obbedienza a questa nostra piena esortazione e vivo desiderio, premuriamo il reverendissimo arciprete a non far mancare mai la sua parola persuasiva al riguardo, affinché durante le manifestazioni religiose tutto avvenga conforme alla bontà d’animo degli accetturesi e alle loro tradizioni cristiane.

Altro intervento (ed ultimo) della chiesa ufficiale sulle feste dei “maggi”, attive in Basilicata e Calabria, è quello del Vescovo di Anglona-Tursi, in visita ad Alessandria del Carretto nel maggio del 1951 ricorrenza in onore del patrono San Alessandro.

Il presule invitò il parroco a non lasciare la festa in mano ai procuratori, quindi a «moderare la cerimonia della peta [abete], che sa di “feticismo”*».

*Termine senz’altro riferito alla forma di religiosità primitiva, consistente nel culto (pagano) di oggetti naturali, (alberi nello specifico) per alludere alle feste e ai rituali profani, considerati come celebrazioni di particolare importanza con grande partecipazione popolare. 
Questo suggerimento viene attribuito quasi certamente all’Arcivescovo Metropolita Pasquale Quaremba (1905-1986) poiché, all’epoca dei fatti amministrava quella diocesi.

Nel terzo millennio, dunque, sopravvivono i riti, rivolti agli alberi in molte zone d’Italia e d’Europa, e si continua a fare degli alberi i protagonisti delle feste, sicché possiamo affermare che le feste cambiano, l’attenzione e l’amore per gli alberi restano!

martedì 1 settembre 2020

Dal Congedo di Julius Evola scritto per "Metafisica del Sesso"




"Eppure, se un qualche riflesso di una trascendenza vissuta si manifesta involontariamente nell'esistenza ordinaria, ciò avviene attraverso il sesso e, quando si tratti dell'uomo comune, avviene solo attraverso il sesso. Non coloro che si danno a speculazioni, ad attività intellettuali, sociali o 'spirituali', ma soltanto coloro che si innalzano fino ad una esperienza eroica o ascetica vanno, a tale riguardo, più in là. Ma per l'umanità comune soltanto il sesso procura, anche se nel rapimento, nel miraggio o nell'oscuro trauma di un istante, delle aperture di là dalle condizionalità dell'esistenza puramente individuale. Questo è il vero fondamento della importanza, da nessun altro impulso eguagliata, che amore e sesso hanno avuto e sempre avranno nella vita umana."