martedì 30 aprile 2019

IL MISTERO DELLE TORRI SEGRETE DELL’HIMALAYA


Le Torri dell’Himalaya (note anche come Torri di pietra a forma di stella) sono una serie di torri situate per lo più in Kham, una provincia antica del Tibet, e in Sichuan, Cina. Le torri possono trovarsi sia in prossimità dei centri abitati che nelle regioni disabitate. La pianta di molte di queste strutture, che possono superare i 60 metri d’altezza, è a forma di stella, oppure avere un perimetro rigorosamente rettangolare. Chi le ha costruite? Quando? E soprattutto, perché?
Nel 1982, l’esploratore francese Michel Peissel era impegnato in una spedizione in Tibet, quando notò per la prima volta una serie di alte e misteriose torri di pietra a forma di stella che puntellavano le valli himalayane lungo il confine cinese.
Purtroppo, Peissel fu costretto ad interrompere la sua spedizione a causa di un incidente che gli provocò la frattura di entrambe le gambe, impedendogli di approfondire la sua scoperta.
Molti anni più tardi, nel 1998, un’amica di Peissel, Frederique Darragon era in procinto di recarsi in Tibet per una ricerca sul leopardo delle nevi. Peissel le disse di essere sicuro di aver visto le torri, chiedendole di confermare la sua scoperta.
Frederique seguì le indicazioni di Peissel, riuscendo a trovare le torri e rimanendo così affascinata da queste che decise di abbandonare il progetto sul leopardo delle nevi per concentrarsi esclusivamente sulle torri. Il suo obiettivo era chiaro: tracciare tutte le torri della regione e scoprire la loro storia.
Come racconta The Wall Street Journal, la Darragon trascorse diversi mesi all’anno viaggiando in solitaria attraverso la Cina, spesso a piedi e in zone che ancora oggi sono raramente visitate dagli occidentali.Dopo tre anni di ricerche, finalmente la Darragon individuò le prime torri, mentre si trovava nei pressi di Danba.
“Quando ho capito che né gli occidentali né i cinesi avevano studiato le torri e che praticamente non si sapeva nulla di esse, non ho potuto resistere e ho cominciato a cercare di risolvere il loro mistero”, scrive l’esploratrice in un resoconto pubblicato sul Journal of Cambridge Studies nel 2009.
Un avvincente documentario trasmesso da Discovery Channel, diretto e narrato da Micheal Peissel, mostra tutto ciò che la ricerca della Darragon ha portato alla luce.
Le torri, straordinarie per la loro architettura e il loro impatto sul paesaggio himalayano, sono alte in alcuni casi più di 60 metri e sono state costruite tra i 600 e i 1000 anni fa. Alcune di esse sono state inglobate in villaggi contadini; altre, invece si trovano in luoghi isolati anche a 3 mila metri di altitudine.
Alcune torri sono state attualmente convertite in ricoveri per yak e pony, ma la maggior parte di esse è rimasta vuota. Le torri punteggiano quattro regioni (Qiangtang, Gyalrong, Miniak e Kongpo), coprendo un’area complessiva simile al Texas.
Le domande che assillano i ricercatori sono almeno due: chi le ha costruite e qual era il loro scopo originario?
Peissel e Darragon hanno cercato di dare risposta a queste domande sfuggenti, ma il problema principale è che mancano fonti scritte. Infatti, le tribù che hanno vissuto nella regione per secoli parlano dialetti diversi e non hanno lingue scritte. “La gente di una valle non è in grado di comunicare con le persone della valle vicina!”, spiega la Darragon.
Tuttavia, nel corso dello studio, la Darragon ha fatto diverse scoperte sorprendenti. Alcune delle torri sono alte come i moderni edifici di 15 piani e sono in grado di resistere a violenti terremoti grazie alla loro particolare pianta a forma di stella, un dispositivo antisismico emulato anche dagli abitanti del posto per costruire le loro case.
Inoltre, l’esploratrice ha scoperto che molti dei villaggi in cui si trovano le torri portano gli stessi nomi dei 18 regno descritti in alcune leggende ancestrali del luogo. Comunque, il materiale storico e tradizionale è davvero esiguo per avanzare ipotesi sul loro scopo originario.
Darragon, con l’aiuto di altri ricercatori, ha istituito una fondazione in Cina con lo scopo di raccogliere fondi per lo studio delle torri. Inoltre, sta lavorando perché questi monumenti possano essere inseriti nel Patrimonio Mondiale dell’Unesco.
“Le torri sono l’unica prova dell’esistenza di culture raffinate in queste terre molto lontane, e sono destinate a diventare un’attrazione turistica”, dice la Darragon.
“Ma abbiamo bisogno di proteggerle in modo che la gente del posto ne possa beneficiare”.
D’altronde, le torri potrebbero essere ancora in piedi tra 1000 anni…

domenica 28 aprile 2019

L'asino in croce o il grafito ritrovato sul Palatino a Roma

ALEXAMENOS SEBETE THEON
'Alexamenos adora Dio' o 'Graffito di Alexamenos' è una delle prime testimonianze di invettive spontanee contro i cristiani nel mondo tardo-antico da parte dei pagani. Risalente probabilmente al III secolo e ritrovata a Roma sul Palatino, riporta un'iscrizione in greco, esattamente:
"ΑλΕΞΑΜΕΝΟς CЄΒΕΤΕ ΘΕΩN"
La grafia testimonia diverse anomalie e irregolarità: l'uso contemporaneo di lettere maiuscole e minuscole, la mancanza di accenti e il sigma lunato ad inizio parola (C) che normalmente non ha varianti anche a fine parola, mentre lo scrivente fa terminare il nominativo Alexamenos con la versione ς terminale, non richiesta da chi usa la grafia con il sigma lunato. Probabilmente l'autore aveva una preparazione grammaticale approssimativa, anche se era alfabetizzato e conosceva il greco, il che ne faceva una persona di cultura medio-alta.
Il testo contiene anche un errore grammaticale marchiano ( l'accusativo "theòn" scritto con l'omega Ω, anziché con l'omicron come nella forma corretta) e una irregolarità fonetica: il verbo sebete (σέβετε) dovrebbe essere la terza persona di σέβομαι ( = "io venero"), cioè σέβεται, di cui forse rappresenta una variante fonetica non attestata (anche se potrebbe dare indicazioni su quale fosse la pronuncia usuale, trascritta in modo naturale dall'ingenuo scriba. In questo caso fornirebbe anche una interessante indicazione glottologica).
La vignetta è composta da due disegni: il corpo di un uomo crocifisso con la testa di un animale (con ogni probabilità un asino o un mulo) e un uomo in adorazione, che la didascalia ci dice essere Alessameno.
Interessante dal punto di vista della scienza sacra osservare come questa rappresentazione simbolica sia tutt'altro che ingenua e contenga elementi degni di riflessione.
L'invettiva pagana contro i cristiani riguardava il fatto che il cristianesimo era accusato di varie nefandezze, di essere sovversivo (tecnicamente tale accusa non era neppure infondata visto che negava la legittimità del culto di Stato, spezzando così la pax religiosa su cui si fondava il sistema romano). Se si doveva accusare qualcuno di praticare un culto maligno, la scelta del simbolo animale così scelto non era affatto peregrina. Si può infatti dire che l'accusa di "onolatria" o adorazione dell'asino fosse un'elaborazione popolare o volgarizzata di una conoscenza tradizionale che vedeva universalmente nell'asino una figura simbolicamente connessa con forze caotiche o demoniache. Il dio dalla testa di asino era, nella teologia egizia, Seth, l'avversario di Osiride e Horus (anche se la questione dell' "animale di Seth" non è del tutto chiarita, essendo più che probabile che tale animale fosse originariamente identificato con l''oritteropo africano). Ad ogni modo è con tale stesso significato che nella simbologia evangelica Gesù entra in Gerusalemme cavalcando un asino, segno in questo caso di vittoria e di sottomissione sulle forze tenebrose e caotiche. Del resto nella letteratura ispirata ai Misteri (come nell'opera di Apuleio) l'asino era simbolo dello stato profano e dell'ignoranza.
Altra possibile spiegazione di questo uso polemico o caricaturale del simbolo potrebbe implicare un collegamento con la figura ideale dell' 'Asinus portans mysteria'.
Un elemento che solitamente sfugge a tutti i commentatori è la Y sopra e sinistra dell'immagine crocifissa, che è un simbolo collegato alle religioni misteriche antiche e in particolare al Pitagorismo - con cui, forse tramite la figura di Orfeo-Dioniso, il cristianesimo delle origini potrebbe aver avuto degli strani e mai troppo considerati collegamenti. La Y contiene in nuce svariati gruppi simbolici legati a insegnamenti sapienziali. Rappresenta il passaggio dall'unità alla dualità, ma anche la lotta di schemi contrapposti sul piano morale, la lotta fra virtù e vizio nel mito di Eracle, che poi è il significato occulto della lama VI dei Tarocchi, 'Gli amanti'). Con questo significato il simbolo della Y è stato associato agli insegnamenti esoterici. Esso è anche l' "«Uomo cosmico» con le «braccia alzate», simbolo di resurrezione." (come ricorda Evola nell'introduzione alla Tradizione Ermetica). Un'incisione dell' 'Atalanta fugiens' di Michael Maier rappresenta Alberto Magno mentre indica l'Androgino che tiene in mano questa Y. Simbolo pitagorico essa passò nel corpus di dottrine ermetiche che sopravvisse in area italica (fra l'altro il rione napoletano di Forcella testimonia questa sopravvivenza nell' area partenopea, che fu una delle centrali di conservazione della tradizione ermetico-mediterranea: "forcella" che è appunto la Y dei misteri greci). Forse la runa Algiza è un'evoluzione di questo grafema.
La presenza della Y nella blasfema rappresentazione anti-cristiana è forse una conferma spontanea e involontaria del polemista circa la conservazione di una vena misterica nel cristianesimo delle origini.
L'immagine è un'opera dell'artista spagnolo Jose Gabriel Alegría Sabogal, che reinterpreta l'Alexamenos del graffito come un soldato romano armato di lancia, nudo, spogliatosi di elmo e corazza, che forse ricorda il centurione Longino della leggenda.

sabato 27 aprile 2019

Gli insegnamenti profondi e ancora attuali di Pitagora

"La terra produce ogni cosa e chi vuole essere in pace con gli esseri viventi non ha bisogno di alcunché. I frutti della natura si possono cogliere o coltivare secondo le stagioni, in quanto la terra è la nutrice dei suoi figli. La gente però, come se non udisse le sue grida, affila le spade contro gli animali per trarne cibo e vestimento.
L’INSEGNAMENTO DI PITAGORA
I Bramani dell’India invece, non approvando tale condotta, istruirono i Ginni dell’Egitto a respingerla. Da costoro Pitagora, che fu il primo dei Greci a frequentare gli Egizi, prese la sua dottrina che lasciava alla terra gli esseri animali. Affermando che i prodotti della terra sono puri e adatti a nutrire il corpo e la mente, di questi Pitagora si cibava. Sostenendo inoltre che gli abiti umani solitamente sono impuri, in quanto provengono da esseri mortali, si abbigliava di lino e, per la stessa ragione, intrecciava il vimine per farsene calzature."

venerdì 26 aprile 2019

Un gesto nato dal Dio Arpocrate (evoluzione di Horus) ripreso da San Benedetto dal significato complesso che non indica solo il silenzio

Silenzio anche...
Sulla storia di questo gesto antichissimo, che affonda le sue origini nel mondo egizio (Horus bambino o Arpocrate) sono illuminanti le pagine dedicate al signum harpocraticum in A. Chastel, Il gesto nell’arte, Bari, Laterza 2008.
Nel quadro del mecenatismo di Cosimo de’ Medici rientra la costruzione del convento domenicano di San Marco a Firenze: Michelozzo fu l’architetto al quale fu affidata la realizzazione degli edifici, il Beato Angelico il pittore che eseguì, con i suoi collaboratori, la decorazione degli ambienti, dalla solenne pala per l’altare della chiesa alla rigorosa semplicità dei temi di meditazione per le celle dei monaci.
Redon è stato uno dei protagonisti del Simbolismo, una complessa corrente dell’ultimo Ottocento, antitetica al naturalismo (ad esempio, quello degli impressionisti) e al pensiero positivista, nella quale le arti visive, la poesia, la letteratura, il teatro, la musica propongono le espressioni di una realtà che va oltre la percezione visiva per affermare la priorità dei valori spirituali.

mercoledì 24 aprile 2019

La chiesa di Simon Mago

Basilica di Santa Francesca Romana al Palatino (Santa Maria Nova)
La Chiesa di Santa Francesca Romana si trova nel Foro Romano, tra il Tempio di Venere e Roma ed il Colosseo.
Inizialmente le venne dato il nome di Santa Maria Nova, poi, nel XV secolo vi fu sepolta Santa Francesca Romana e la chiesa assunse l’attuale denominazione.
Il luogo dove sorge la Chiesa, secondo la leggenda, è quello in cui morì Simon Mago quando tentò di sfidare con le arti magiche San Pietro e San Paolo. Particolare reliquia è custodita all’interno della chiesa: le impronte delle ginocchia di san Pietro intento a pregare, impresse nel marmo e protette da una grata.
L’interno è a una sola navata e il pavimento risale al restauro del 1216. Nella cripta, oltre alla tomba di Santa Francesca Romana, opera ottocentesca dell’architetto Andrea Busiri Vici, c’è anche il monumento funebre di Papa Gregorio XI, realizzato da Pietro Paolo Olivieri nel 1584 in ricordo del ritorno della sede pontificia da Avignone a Roma.
Altri elementi artistici arricchiscono questa piccola Chiesa nel cuore di Roma: il soffitto ligneo a cassettoni, impreziosito da una ricca decorazione dipinta; all’interno della sagrestia c’e’ “La Madonna Glykophilousa”, una preziosa icona del V secolo ritrovata nel 1950. Sull’altare maggiore c’è un dipinto del XII secolo raffigurante la Madonna con bambino.
La facciata esterna, in elegante travertino, è stata realizzata da Carlo Lombardi nel 1615. Nell’antico monastero annesso c’è l’Antiquarium Forense, uno spazio museale con reperti del Foro Romano.
Il 9 marzo di ogni anno un gruppetto di credenti porta vicino la Chiesa la propria auto per farla benedire, visto che Santa Francesca Romana è protettrice degli automobili

martedì 23 aprile 2019

Riti del mondo certico: Festa di Beltane

Celebrata il 1 maggio, Beltane era essenzialmente una festa agraria, che segnava l’inizio dell’estate e si collocava a metà tra l’equinozio di primavera e il solstizio estivo. Anche questa festività era considerata uno dei momenti dell’anno in cui si aprivano le possibilità di comunicazione tra il mondo visibile e quello invisibile e in cui i morti potevano comunicare con i viventi. Nel nome della festa, il prefisso bel si riferisce alla luce mentre il suffisso tene ha il significato di “fuoco”. La sera precedente, i fuochi nelle case venivano spenti e venivano riaccesi il giorno della festa, quando sulla collina più vicina appariva un falò acceso. In Irlanda, si pensava che il primo fuoco venisse acceso sulla collina di Uisneach, che era considerata “l’ombelico” dell’isola, dove era stata sepolta la dea della terra Ériu, colei che aveva dato il nome all’Irlanda. Il fuoco acceso sulla collina centrale era il segnale per l’accensione di tutti gli altri fuochi nel paese. Era di buon auspicio per il bestiame essere condotto accanto o passare in mezzo ai fuochi. Se in mezzo alla mandrie appariva una giovenca bianca era un segno di abbondanza, probabilmente un’incarnazione della dea Bóand, la “Vacca splendente” da cui prende il nome il fiume Boyne.
In quest’occasione venivano visitati i pozzi sacri, dove le persone lasciavano offerte, monete o strisce di tessuto appese agli alberi presso il pozzo, dopo aver fatto un circuito rituale in senso orario, pronunciando preghiere per ottenere buona salute e benessere e poi allontanandosi senza voltarsi indietro. Un tempo con l’acqua delle fonti sacre si aspergevano le piante e i campi per assicurare un raccolto abbondante. La festa implicava anche un riferimento alla fecondità delle donne e comprendeva, in Inghilterra, l’elezione di una Regina di Maggio, che veniva sposata ritualmente con un Re di Maggio, la cui unione era propiziatrice della fertilità. Allo stesso simbolismo appartiene il Palo di Maggio, un albero tagliato nei boschi e piantato nella piazza centrale del villaggio, decorato con fiori e nastri, intorno al quale si intrecciavano le danze. Nel Seicento i Puritani proibirono i festeggiamenti del Maggio, perché li accusavano di essere occasione, nelle campagne, di comportamenti sessuali sfrenati.
Beltane era anche un tempo in cui potevano agire gli esseri malevoli, che ne approfittavano per colpire il bestiame, farlo ammalare o morire. L’attacco di streghe, considerate capaci di trasformarsi in animali, specialmente in lepri, metteva in evidenza come i prodotti dell’agricoltura fossero particolarmente vulnerabili in questa stagione dell’anno...


Milano ed il suo porto fluviale


«Non si preoccupi, poi le trote le ributto dentro» sorrideva il signor Riccardo seduto sul suo sgabellino pieghevole. Qualche anno fa, all’alba, il pensionato milanese scendeva sempre a pescare nella darsena. Chissà se potrà mai tornarci, dopo che i lavori in corso l’avranno trasformata in una «nuova piazza, con meno auto – ha assicurato Maria Carmela Rozza, assessore ai Lavori Pubblici della giunta Pisapia – e più spazio per barche, alberi e pedoni». Un tempo il decimo porto più trafficato d’Italia, la darsena è un luogo del divertimento da decenni: il commercio ha portato bar e osterie, e poi mercatini, mostre di pittura, turisti in vicolo dei Lavandai e musica dal vivo sui barconi ormeggiati lungo il Naviglio Pavese, quegli stessi barconi che fino agli anni Settanta scaricavano sabbia. «Bisognerebbe scoperchiare i Navigli e tornare ai tempi di Stendhal» suggerisce da tempo Dario Fo, ricordando una Milano che non esiste quasi più. La Milano descritta da Montanelli «delle fosse, delle darsene, degli scricchiolanti ponti di legno». I Navigli vennero coperti in gran parte agli inizi del Novecento e in molti, poi, se ne sono pentiti. Perché Milano è una città d’acqua, anche se non è attraversata da un fiume. «È un paradosso – esordisce l’architetto Pietro Lembi, autore del libro Il fiume sommerso (Jaca Book, 2006) – perché pure essendo lontana dai grandi fiumi, la città è ricca d’acqua. In fondo il toponimo deriva da mid-land, “terra di mezzo”, in mezzo ai fiumi Adda e Ticino. E poi un fiume che attraversa Milano in realtà esiste. È sommerso, alimentato da una falda profonda che mescola le acque dei ghiacciai con quelle rimaste intrappolate milioni di anni fa, quando l’Adriatico arrivava fin qui»......

Silvestro II il Papa mago

Due squarci insperati di luce illuminano il profondo medioevo, attestando che il filo di Hiram non si era stato spezzato: un capitello e un papa. Il capitello è in un chiostro, estremo retaggio di un antico monastero benedettino sotto una enorme roccia solitaria, quasi in una grotta che sembra proteggerlo, Il monastero di San Juan de La Peña, non lontano da Jaca, capitale antica dell’Aragona quasi nascosta tra le pieghe dei Pirenei in un tempo in cui gli Arabi dominavano gran parte della Spagna. In questo dimenticato capitello è raffigurato sulla pietra, in altorilievo, “il mito di Hiram”, ucciso da tre fratelli compagni d’arte e sepolto sotto un’acacia. Unico esempio al mondo. Laggiù, sulla frontiera dei Mori, i padri benedettini, forse transfughi da Toledo, sapevano… Il papa è Silvestro II: colui che guidò l’umanità al guado dell’anno Mille.Il secolo X è noto come il “saeculum horribilis” del papato, poiché troppe volte il soglio di Pietro fu profanato da avventurieri, puttanieri, ladri e assassini ... In tanto dileggio il ruolo di traghettatore nel nuovo millennio dell’umanità toccò a un genio, purtroppo dimenticato. Sulla fine del secolo e del millennio il papato fu illuminato da un papa straordinario, forse non estraneo al filo di Hiram: Silvestro II, il papa dei “bivi pitagorici”
La sua ascesa sul soglio di Pietro fu il “sesto bivio pitagorico”: correva l’anno 999, mese di marzo. La scelta del nome Silvestro non fu casuale: Silvestro I era stato il papa del cristianesimo emerso dalle catacombe, consigliere e amico personale dell’imperatore Costantino; allo stesso modo Silvestro II si prefigurava amico e consigliere di Ottone III, ispiratore di un progetto che ambiva cambiare il mondo. Non ci fu mai idillio più proficuo e intenso tra un papa e un imperatore: la mitica “renovatio imperii” sembrava a portata di mano. Ma Deus non voluit. Toccò a lui, sommo pontefice dell’anno Mille, traghettare l’umanità all’alba del nuovo millennio, in un clima d’universale isteria collettiva che ravvisava la fine del mondo proprio in quella data. Purtroppo il progetto della “renovatio imperii” abortì per l’improvvisa e prematura morte del giovane imperatore il 24 gennaio dell’anno 1002, probabilmente per veleno. Quel giorno, nonostante la stagione invernale, la principessa bizantina Zoe, figlia dell’imperatore Costantino VIII, veleggiava verso l’Italia per un matrimonio che non ci sarebbe mai stato: un matrimonio che avrebbe unito il Sacro Romano Impero all’Impero Bizantino. Ottone III fu riportato in Germania da un drappello di cavalieri, in una lenta e solenne processione che attraversò il vasto impero, per essere sepolto ad Aquisgrana, accanto alla tomba di Carlo Magno. Per papa Silvestro, che all’epoca aveva 51 anni, fu un colpo mortale. Erano giorni drammatici: Ascanio da Costanza, comandante delle truppe imperiali, progettava di svuotare Roma dei tutti i suoi abitanti, per ripopolala con gente nuova e leale provenienti dalla Lombardia.
Non ci furono altri “bivi pitagorici”. Silvestro II si spense nella primavera dell’anno successivo, il 12 maggio. La morte arrivò con passi felpati, quasi un’insondabile stanchezza e ancora una volta si sospettò un avvelenamento. I sospetti si concentrarono su prelati ostili alla sua eccessiva accondiscendenza verso il patriarca di Costantinopoli, nel clima della “renovatio imperii”. Silvestro II fu sepolto tra molti onori, dopo una magnifica cerimonia nella basilica di San Giovanni in Laterano...nell’anno 1684, papa Innocenzo XI decise di consolidare le fondamenta della basilica di San Giovanni in Laterano. Fu aperta l’arca marmorea di Silvestro II e venne smentita definitivamente la cupa leggenda di un papa scellerato che si era fatto tagliare a pezzi nell’intuire l’arrivo ferruginoso del demonio. Lo scheletro di papa Silvestro II apparve integro, sontuosamente coperto da abiti pontifici, con le braccia incrociate, le gambe distese e la tiara sul capo. Il canonico Cesare Rasponi testimoniò che, a contatto con l’aria, quel corpo meravigliosamente conservato si trasformò in polvere: rimase soltanto il suo anello con la scritta emblematica “Sic transit gloria mundi”.
Ma certe leggende sono dure a morire. Ancora oggi a Roma si mormora che la tomba di Silvestro II s’inumidisca alla morte di un cardinale e vi fuoriesca dell’acqua alla morte di un papa….

Lapidi magiche in San Giovanni in Laterano

Risultati immagini per papa Gerberto mago

ROMA - La pietra non suda. E quindi il Papa ancora non muore, ma intanto la sua agonia richiama qui sparuti visitatori che non si fidano dei bollettini medici, ombre che s' affacciano, esoteristi e curiosi che impudicamente si inchinano a osservare meglio. Chi allunga la mano e la passa sul marmo policromo, chi stropiccia i piedi sul pavimento a losanghe nere e grigie e poi si guarda la suola delle scarpe. Nella basilica di San Giovanni in Laterano, addossata al secondo pilastro della navata di destra, c' è la tomba di Silvestro II, al secolo Gerberto di Aurillac, il Papa mago e alchimista dell' Anno Mille. «Pochi posti come questo simboleggiano meglio a Roma la continuità della funzione papale e il senso della caducità della persona del papa»: così si apre «Il successore» (Laterza, 1997), il libro che Giancarlo Zizola, uno dei più accreditati scrittori di cose vaticane, ha dedicato appunto alla successione di Papa Wojtyla. Ed ecco la ragione del singolare pellegrinaggio: «Secondo una leggenda, la tomba emette del sudore allorché viene il tempo della morte del Pontefice romano». Vatti a fidare delle leggende nell' era della trasparenza tecnologica e dei romanzi di Dan Brown. Insomma: muore o non muore? A Roma, da secoli, ogni agonica incertezza non solo s' involtola attorno alle più incredibili bizzarrie, ma finisce per renderle tutte abbastanza plausibili, per poi addirittura ributtarle in caciara, a ciclo continuo. Così, davanti alla tomba magica, ma certamente secca di Silvestro II, si resta sgomenti e in qualche modo anche speranzosi. Ma invano. C' è un ragazzo con barba, zainetto e macchina fotografica che si ferma. L' approccio è necessariamente delicato: «Scusi, siamo forse qui per la stessa ragione?». Sì, e sottovoce spiega come su Internet abbondano i documenti su Gerberto, cui si attribuisce l' introduzione, forse pure l' invenzione di quel codice binario che è alla base dei moderni sistemi elettronici: «Aveva rapporti con il mondo arabo e indiano. E' stato anche un precursore della robotica». E vabbè: tutto può essere, soprattutto oggi, nella Città Eterna. Ma intanto, di nuovo, a parte Silvestro II e le sue divinazioni idriche: muore o non muore? «A ogni morte di Papa» s' intitola un libro di Giulio Andreotti (Rizzoli, 1981). L' autore, uno che ha il piacere di definirsi «un popolano romano», ma che Roma ha conosciuto anche come uomo pubblico, non è tipo da girare per sepolcri che sudano. E tuttavia pochi altri riescono a rendere meglio di Andreotti l' atmosfera insieme triste e smaniosa che segna gli ultimi giorni del pontificato, l' innocente morbosità che accompagna lo scrutinio fisico e patologico, l' inevitabile insistenza sulla carne e sul corpo del Vicario, sulla sua condizione, ormai, di malato terminale. E poi sulla sua stessa morte, con le dovute e macabre incombenze. Persino i serial della tv - si pensi ai due Giovanni XXIII mandati in onda negli ultimi anni - si sforzano di restituire quel clima di mesta eccitazione e inconsapevole crudeltà ispettiva. E a lungo s' indulgeva, pure nella fiction, sul dolore di Roncalli; c' era perfino Valdoni che visitava; ed esami clinici sempre più drammatici, e addirittura un cardinale ostile che di nascosto osservava le radiografie di un Papa che nella realtà - lo testimonia Andreotti - nemmeno sapeva di avere un tumore. Toccò al cardinal Lercaro il triste incarico di dirglielo, ma non ce la fece. Anzi, dato che soffriva anche lui di stomaco, si sentì consigliare dall' eminentissimo degente alcune pastiglie di magnesia. E invece era Papa Giovanni che stava per morire. I romani lo sanno. Prima o poi arriva il momento in cui, di colpo, la persona del Papa appare destinata a diventare puro involucro, materia inanimata, cadaverica, mucchio di pelle e ossa. Ma la storia insegna: mai troppa fretta. E il pensiero corre all' agonia di Pio XII nel palazzo di Castelgandolfo, alla furia grottesca di annunciarne per primi la morte. Era l' ottobre del 1958. Alcuni cronisti si misero d' accordo con qualche prelato, forse lo pagarono. Si convenne un segno convenzionale: l' apertura della finestra come l' avviso che Papa Pacelli era spirato. Ma poi quella stessa finestra venne aperta casualmente da un domestico che faceva le pulizie. I giornalisti scattarono, edizione straordinaria. E insomma il Messaggero, il Tempo, il Giornale d' Italia e il Momento Sera, in pratica tutti i quotidiani di Roma, uscirono dando morto Pio XII, che era ancora vivo. Il Momento Sera gli mise in bocca anche un' ultima frase: «Benedico l' umanità tutta, prego pace, pace, pace, benedico Roma». Fu inutile, poi, far ritirare tutte le copie dagli strilloni. Quelle che arrivarono a Castelgandolfo vennero bruciate in piazza. Ma intanto lì dentro l' archiatra pontificio, dottor Riccardo Galeazzi Lisi, stava già documentando con una minuscola macchina fotografica gli ultimi momenti del Papa. C' è una terribile istantanea che lo ritrae con il termometro in bocca: oltraggio visivo ante litteram, ma anche indizio più umano di antiche leggende su pietre sudanti. san giovanni in laterano Sopra, la lapide che, a San Giovanni in Laterano, copre il sepolcro di Silvestro II, il pontefice morto nel 1303. Secondo la leggenda quando un Papa muore, la lastra di pietra inizia a sudare. A sinistra, la salma di Pio XII nella camera ardente di Castelgandolfo, nel 1958

lunedì 22 aprile 2019

Ziggurat prototipi delle acropoli greco-romane

Resti della Ziggurat dedicata al dio della luna (Nanna) nell’antica città di Ur, l’attuale Muqaiyir (Iraq) datata intorno al 2100 a.C. La ziggurat costituiva una torre a gradoni sulla sommità della quale sorgeva il tempio del dio. Intorno a queste costruzioni si svolgevano le principali cerimonie in onore delle diverse divinità. Tra queste, a Babilonia, la festa più importante era la celebrazione dell’Akitu (“Tempo del rivivere della terra”) che si svolgeva durante il mese di Nisan, in primavera, che era il primo mese dell’anno. Le cerimonie si protraevano per i primi undici giorni del mese e includevano la recitazione rituale del poema babilonese della creazione, l’Enuma Elish, che narrava come il dio Marduk avesse sconfitto il mostro Tiamat, con il corpo del quale avrebbe poi dato forma al mondo. Il nome della festa faceva riferimento all’aspetto di potenza fecondante del dio, fonte dell’abbondanza naturale….

MEGALITI, FATE E FERTILITÀ

Massimo Centini



«Nei menhir e nei dolmen definiti la Roche-aux-fées, pietre delle fate, sopravvive il ricordo della Dea Madre. La fata, con tutto il suo splendore d'incantesimo e di fiaba, non è altro che una tarda derivazione della Grande Dea. Lo rivela già la sua etimologia dal latino fatua, la vaticinatrice, e dal fate del latino popolare, la dea del destino» (F. Baumer, La grande Madre – Genova 1995, p. 70). L'enfatica affermazione di Franz Baumer ci conduce in direzione di una connessione molto diffusa nel folklore nordico: il legame tra megalitismo e fate. Tale connessione non dovrebbe avere origini molto antiche e può essere considerata frutto di una tradizione popolare tendente a legare aree e opere considerate anomale, diverse o pericolose.

Il piccolo popolo, con i suoi personaggi, è spesso protagonista di tale legame, ma è soprattutto la fata a prevalere, perché? Le risposte possono essere più di una, ma certamente la figura mitica femminile meglio si inquadra tra gli echi di culti litici in cui prevalgono le pratiche connesse ai rituali legati alla fertilità.
Alcuni di questi luoghi delle fate sono contrassegnati da una struttura particolarmente articolata, come la tomba megalitica costituita da due stanze circolari con una galleria di quarantacinque metri che si trova nei pressi di Arles. Vi sono poi esempi di grande suggestione come il menhir Henher-Hroech (Pietra delle fate) di Locmariaquer che misurava oltre venti metri (ma che è stato spezzato da un terremoto nel 1722 in quattro enormi pezzi – nota mia).



La Pietra delle Fate di Locmqriaquer (Grand menhir brisé)


Le Pietre delle fate erano anche parte dell'ampia ritualità popolare connessa all'amore: tra Vitré e Chateaubriand, «sino a non molto tempo fa, nelle buie notti di luna nuova, i fidanzati venivano alla Roche-aux-fées per avere un responso oracolare facendo la conta dei blocchi che la compongono. Il matrimonio sarebbe stato felice solo se i due avessero ottenuto lo stesso risultato. Era tollerata una piccola differenza. Se però il numero delle pietre contate risultava troppo diverso, era consigliabile astenersi dal matrimonio» (F. Baumer, opera citata, p. 70).

In questa pratica non sembrerebbero assenti echi di tradizioni connesse ai riti di fertilità presenti in molte culture e che hanno nella pietra un elemento catalizzatore di notevole valore simbolico. L'azione fecondatrice poteva estrinsecarsi non solo mediante pratiche divinatorie, ma attraverso veri e propri riti che coinvolgevano dilettamente il masso. Una tra le azioni più diffuse era la cosiddetta «scivolata» sulle pareti dei megaliti effettuata per favorire la fertilità. In altri casi troviamo le cosiddette «pietre con la pancia», massi la cui conformazione era tale da ricordare il ventre dilatato di una donna incinta: su queste pietre le giovani spose o le donne sterili si appoggiavano per ottenere magicamente una futura maternità.

«L'idea implicita in tutti questi riti è che certi sassi possono fecondare le donne sterili, sia grazie allo spirito dell'antenato che vi abita, sia in virtù della loro forma o della loro origine. La teoria che diede origine a queste pratiche o le giustificò, non sempre si è conservata nella coscienza di chi ancora continua a osservarle. Talvolta la teoria originaria è stata sostituita o modificata da una teoria diversa; qualche volta è completamente caduta in dimenticanza, in seguito a qualche rivoluzione religiosa» (M. Eliade, Trattato di storia delle religioni – Torino 1976, p. 228).





La Roche-aux-fées di Essé (Ille-et-Vilaine)


Altre esperienze del folklore europeo, praticate intorno e sui megaliti e inerenti la fertilità, riguardano l'accensione di piccoli fuochi nelle cavità naturali dei massi o nelle coppelle, in alcuni periodi dell'anno. In questi casi si possono scorgere delle convergenze con il calendario celtico. Molto diffuse erano anche le danze intorno ai menhir nei giorno dell'Ascensione, come quelle praticate a Fouventle-Haute in Haute-Saône, o quelle di Guernesey effettuate nel giorno di san Giovanni.

Ancora nella metà del XIX secolo, intorno al grande dolmen di Poitiers, i fedeli effettuavano tre giri di danza e quindi lo baciavano: il rito aveva un ruolo protettivo e serviva per allontanare le malattie. Questo tipo di protezione era offerto anche attraverso piccole parti di pietra tratte dal megalite e conservate in casa per tutto l'anno. La pratica di prelevare frammenti di pietra da massi considerati sacri e di conseguenza provvisti di valore apotropaico è molto diffusa nel folklore di numerosi paesi.

In certi casi, nel passato, anche le chiese locali non riuscivano a sottrarsi alla forte valenza sacrale collettivamente riconosciuta alle pietre: «Prima della Rivoluzione, il clero andava in processione al dolmen de La Madeleine, nella Charente, cristianizzato da una croce; nella stessa epoca veniva detta una messa in arca, al di sopra delle pietre druidiche che si scorgevano sotto il mare vicino a Guilvinec, nel Finistère» (P. Sèbillot, Riti precristiani nel folklore europeo – Milano 1990, pp. 209-210).


Massimo Centini, Il megalitismo - Luoghi sacri di potere
(Xenia Edizioni, pag. 112 e seguenti)

Thut-Mose possibile che sia stato lo stesso Mosè?



Thutmose (Thut-Mose) III, della diciottesima dinastia, dunque era il fratellastro di Mosè. E oggi la Massoneria considera Thutmose III il precursore dell'Alta Magia e gran maestro delle discipline esoteriche...

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Anche secondo Harvey Spencer Lewis (1883-1939), fondatore e primo Imperator dell'AMORC, l'origine tradizionale della Rosacroce viene individuata nell'antico Egitto. Lewis riteneva, infatti, che fosse esistito un unico Ordine Rosa-Croce attraverso le epoche, con varie denominazioni, e che l'AMORC ne fosse l'odierno erede. Sarebbe stato fondato dal faraone Thutmose III (ca. 1450 a.C.) il quale avrebbe raggruppato le «scuole dei misteri» esistenti in un'unica fratellanza. Successivamente, il faraone Amenofi IV (regnò ca. dal 1355 al 1335 a.C.) detto anche Akhenaton (nome che egli assunse quando fondò la religione monoteistica detta «Amarniana»), ne avrebbe proseguito l'operato.

Lewis scrive anche che, secondo la Tradizione orale Rosacroce, la grande Scuola dei Misteri di Thutmose III, chiamata «Grande Fratellanza Bianca» (il colore è simbolo di purezza e di luce, non si riferisce all'etnia dei partecipanti), diede vita ad un Ordine mistico. Quest'Ordine si estese via via nel mondo antico per mezzo dei filosofi greci che studiarono in Egitto, come Platone e Pitagora, adottando, ad un certo punto, il simbolo della Rosa e della Croce (la quale non è quindi una Croce Cristiana). Secoli dopo si sviluppò nei circoli degli alchimisti del Medioevo e si manifestò tramite l'Ordine dei Templari, prima di rivelare pubblicamente la propria esistenza all'inizio del Seicento[5].


https://it.wikipedia.org/wiki/AMORC

LA VERA "RICETTA" PER FARE LE MUMMIE È A TORINO. IN UN CORPO CHE RISCRIVE LA STORIA D’EGITTO




Svelata la ‘ricetta' originale con cui venivano create le mummie: un mix di olio vegetale, resina di conifera, balsamo e gomma (zucchero). La scoperta riscrive persino la storia dell'Antico Egitto: grazie alle analisi condotte su una mummia preistorica custodita sin dal 1901 nel Museo Egizio di Torino, infatti, è stato determinato che la pratica della mummificazione ebbe inizio circa 1.500 anni prima di quanto si ritenesse (nel 4.000 avanti Cristo, invece che nel 2.600). Inoltre, poiché la suddetta mummia – chiamata ‘corpo di Torino' (Turin Body) – proveniva dall'Egitto Meridionale, la procedura veniva eseguita in un'area geografica sensibilmente più ampia di quella conosciuta dagli studiosi. Le eccezionali scoperte sono state fatte da un team di scienziati internazionale coordinato da archeologi dell'Università di York, Gran Bretagna, che ha collaborato con i colleghi degli atenei di Torino, Trento, Oxford, Warwick e dell'Università Macquarie di Sydney.






Le ragioni per cui il ‘corpo di Torino' è così eccezionale risiede nel fatto che si tratta di una delle mummie più antiche non sottoposte a procedure di conservazione. In pratica, è nello stato in cui è stata lasciata dai suoi ‘creatori'. Sino ad oggi si credeva che la sua mummificazione fosse legata a un processo naturale, dovuto al clima secco e caldo in cui il cadavere fu conservato, tuttavia, attraverso complesse analisi forensi, gli archeologi guidati dal professor Stephen Buckley hanno stabilito che quel corpo fu effettivamente sottoposto a una procedura di mummificazione. Gli ingredienti rilevati sono un olio vegetale (probabilmente di sesamo); un balsamo verosimilmente ottenuto dai giunchi; una gomma zuccherina estratta forse dall'acacia e una resina di conifera come quella del pino. La ricetta serviva a creare un potente antibatterico in grado di preservare il corpo, che dopo la rimozione degli organi veniva immerso nel sale e avvolto nel lino per migliorarne la resistenza.

Buckley e colleghi hanno inoltre scoperto che il corpo di Torino apparteneva a un ragazzo. “Combinando l'analisi chimica con l'esame visivo del corpo, le indagini genetiche, la datazione al radiocarbonio e l'analisi microscopica dei frammenti di lino, abbiamo confermato che questo processo rituale di mummificazione è avvenuto intorno al 3.600 aC su un maschio, di età compresa tra 20 e 30 anni quando morì”, ha sottolineato la coautrice dello studio Jana Jones. L'arte della mummificazione si diffuse esponenzialmente al periodo della costruzione della Grande Piramide, ma era evidentemente già presente nell'antica e affascinante cultura egizia da oltre un millennio. I dettagli della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Journal of Archaeological Science.

[Credit: Dr Stephen Buckley, University of York]

La vera ricetta per fare le mummie è a Torino


domenica 21 aprile 2019

Da tempio di tutti gli Dei a chiesa cristiana

Il 21 aprile del 125 l'imperatore Adriano inaugura un tempio a Venere, Roma e tutti gli dèi, esistente in epoca augustea ma distrutto da incendi, detto già all'epoca Pantheon. Sarà l'unico tempio di Roma a rimanere in uso continuo, essendo stato trasformato in chiesa dai cattolici (e in tomba secondo il loro uso inveterato). A parte gli arredi e le statue conserva l'antica decorazione e struttura, meno certe parti di bronzo, razziate da un papa per farne cannoni. La struttura rotonda non rispecchia quella del tempio più antico ma ci vorrebbe un libro per parlarne. Attuale proprietario il Ministero dei Beni Culturali

sabato 20 aprile 2019

In origine un tempio pagano

Risultati immagini per Negarine di San Pietro In Cariano chiesetta di San Carlo
Ci troviamo a Negarine di San Pietro In Cariano nel parco della Villa Sagramoso Sacchetti, al bivio per Castelrotto troviamo una chiesetta dedicata a San Carlo in Stile Romanico. In origine era un tempietto di culto pagano tardo Romano. Restaurata nel 1970.