domenica 29 settembre 2013

Andreotti su Ambrosoli e Pasolini, il lupo perde il pelo ma non il vizio

Questa intervista "rivela" i suoi loschi giochi politici, la sua natura cinica e senza morale. 
I mali odierni del nostro paese sono frutto anche di quella politica scellerata..........


San Michele Arcangelo: l'evoluzione del dio Anubi egizio

Ecco un immagine di San Michele con la bilancia come tante rappresentazioni che vedono il santo guerriero come il pesatore delle anime. Una vocazione psicopompa, di accompagnatore delle anime che affonda negli antichi culti egizi come continuazione del Dio Anubi e di Ermes greco-romano.

 San Michele pesa le anime (dipinto di Luca Signorelli (1499-1502), Duomo di Orvieto, Cappella di San Brizio. 

Il dio Anubi intento a pesare il cuore per dividere le anime 

Metz. Stupendo portale gotico con tanto di giudizio universale. Nelle otto lunette in basso ci sono i morti che risorgono dalle tombe, nella fascia centrale un angelo con la bilancia al centro, separa quelli che andranno in Paradiso (la porta sulla sinistra) dai dannati destinati all'Inferno (la bocca del mostro sulla destra) sopra...

Giordano Bruno aveva ragione di affermare che la religione cristiana ha le sue radici nella teologia egizia.
Questo fu uno dei motivi fondamentali che portarono il Nolano alla condanna a morte attraverso il fuoco!

mercoledì 25 settembre 2013

Lievitazioni antiche, moderne e dei nostri giorni

ALTRI MISTICI… CONTRO LA GRAVITA'


Sappiamo dagli Acta Sanctorum che San Tommaso di Villanova (1488 – 1555), arcivescovo di Valenza, davanti a moltissimi testimoni, rimase per ore in uno stato alterato di coscienza che gli consentì di restare sospeso a pochi metri dal suolo durante la celebrazione dell'Ascensione. Il suo contemporaneo San Pietro d'Alcantara non fu da meno, dato che era solito elevarsi, durante la preghiera, fino all'altezza del rivestimento del coro della cappella. E non pochi testimoni assistettero alle sue levitazioni, mentre rimaneva in estasi sospeso sulla strada. 

Santa Teresa d'Avila (1515 – 1582) fu addirittura protagonista di una doppia levitazione, volando insieme a San Giovanni della Croce, come è stato riportato sia negli Acta Sanctorum, sia nel volume di Olivier Leroy La lèvitation (Parigi, 1928). Nel convento dell'Incarnazione si stava svolgendo un colloquio tra la Superiora e il pio visitatore. Santa Teresa lo stava ascoltando mentre le parlava del mistero della Trinità. Allora avvenne che Giovanni fosse rapito dalle sue stesse parole: si sollevò con tutta la sedia, e subito Teresa, che era inginocchiata, lo segui. Nel "Libro de Su Vida", così la santa descrive il suo rapimento: «... La mia anima era rapita e, di solito, il mio capo seguiva quel moto senza che lo potessi trattenere, e talvolta tutto il mio corpo veniva attratto tanto da essere sollevato dal suolo. Ma ciò mi occorse solo raramente. Una volta avvenne mentre mi trovavo in coro con altre religiose e stavo inginocchiata per comunicarmi. Estrema fu la mia pena, prevedendo che un fatto così straordinario avrebbe destato necessariamente qualche ammirazione; per questo, poiché la cosa mi accadde anche recentemente da quando sono Priora, ho comandato alle monache di non parlarne. A volte, quando cominciavo ad accorgermi che il Signore stava per operare questo prodigio, mi stendevo a terra e le mie compagne mi si avvicinavano per trattenermi, ma tuttavia la divina operazione si manifestava...»






Le levitazioni di San Francesco d'Assisi sono attribuite al periodo in cui si ritirò sulla Verna. Frate Leone a volte lo sorprendeva sollevato da terra fuori dalla grotta: san Francesco era capace di sfiorare i grandi faggi che crescevano a fianco della montagna.
Anche Ignazio di Loyola (1491-1556) ebbe le stesse manifestazioni. Alloggiava in una casa privata, dalla signora Agnese Pasqual. Il figlio della padrona di casa, Giovanni, la notte andava di soppiatto a guardarlo: levitava con le ginocchia piegate e le braccia in croce, a quattro o cinque palmi da terra. E la stessa cosa accadeva al beato Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842), con grande smarrimento e preoccupazione delle suore della Piccola Casa: « Io vidi il Servo di Dio più volte, mentre stava in orazione nella propria camera, o davanti il Crocifisso, o davanti un'immagine della Beata Vergine, rapito in estasi, fuor dei sensi, sollevato da terra, colla faccia accesa, aria ridente, occhi scintillanti e rivolti al cielo. La prima volta che io il vidi fu nel primo anno che io fui destinata all'ufficio di Portinaia locché fu nell'anno mille ottocento trentasei in prossimità della Festa dell'Ascensione... »(O. Leroy, La lévitation, 1928 - pag. 167). E ricordiamo anche San Francesco di Paola, dei cui voli fu testimone il re di Spagna Ferdinando II e San Vincenzo Maria Strambi, vescovo di Macerata, incluso da Joachim Bouflet nella sua Encyclopédie des phénomènes extraordinaires dans la vie mystique.

E' recente il caso di un sacerdote, don Carlo Mondin, originario di Rivalta sul Mincio (Mantova), protagonista di fatti avvenuti in forma pubblica nel 1976 che hanno suscitato curiosità popolare e interesse da parte della stampa. Riporta il settimanale Gente del 4 ottobre 1976: «Domenica, quando alle diciassette don Carlo Mondin saliva all'altare per celebrare la messa, la chiesa era stracolma. (...) Don Carlo Mondin, sempre curvo su se stesso, parlava con voce rauca ed affaticata. Arrivata l'elevazione, gli occhi dei presenti erano tutti su di lui: mentre alzava l'ostia consacrata, il sacerdote ha cominciato a elevarsi su su, piano piano, e i suoi piedi restavano sospesi per aria. Cosi ancora al momento di alzare il calice: e, quando ha allargato le braccia, è rimasto per alcuni attimi pressoché immobile sospeso fra cielo e terra, e si è udito un lamento e un grido soffocato. (...) Si è quindi abbandonato privo di sensi; lo hanno accolto fra le braccia due uomini che lo assistevano».
Sempre di Silvia!

Uno sciamano che si è fatto frate

Potremmo indagare nello Yoga Sūtra di Patañjali, in cui il filosofo indiano (V sec. d.C.) annovera la levitazione tra i "poteri" derivanti dall'esercizio dello Yoga. Oppure nel Nuovo Testamento: "E il mare si agitava perché soffiava un forte vento. Comunque, quando avevano remato per circa cinque o sei chilometri, videro Gesù camminare sul mare e avvicinarsi alla barca; ed ebbero timore". O nella Vita di Apollonio di Tiana, scritta da Flavio Filostrato tra il II e il III sec. d.C., in cui vengono descritti vari episodi di levitazione. Ma potremmo anche esplorare i suggestivi territori dell'universo agiografico, iniziando proprio con colui il quale, più di ogni altro, è rimasto impresso nella memoria popolare come il santo dei voli: Giuseppe Desa, meglio noto come San Giuseppe da Copertino.

Il futuro patrono degli aviatori nacque nel 1603 nelle provincia di Lecce ed ebbe difficoltà a farsi accogliere in convento proprio per una serie di rapimenti estatici che venivano scambiati per inettitudine. Rifiutato dai frati cappuccini, dopo tante insistenze fu ammesso tra i conventuali e fu ordinato sacerdote nel 1628. E subito dopo iniziarono gli strani fenomeni. San Giuseppe da Copertino è infatti ricordato, da chi si interessa alle atipiche manifestazioni di carattere fisico legate alla "santità", soprattutto per la sua capacità di superare la barriera imposta dalla gravità e levitare in certi momenti particolari della sua vita, momenti in cui il rapimento estatico gli consentiva di elevarsi di alcuni metri dal suolo.



Ludovico Mazzanti, San Giuseppe da Copertino si alza in volo 
(XVIII sec.)



Le cronache riferiscono che il 4 ottobre 1630, verso le otto del mattino, nella chiesa del monastero delle Clarisse, Giuseppe da Copertino, colto da estasi mistica, si sollevò da terra e, passando sopra le teste dei fedeli, andò a posarsi sul bordo del pulpito, a un'altezza di circa tre metri dal pavimento. In altre parole: volava

Non in casi isolati, non in assenza di testimoni, non nel chiuso della sua cella, ma almeno un centinaio di volte e davanti a personaggi del tutto degni di fede. Come avvenne il 7 giugno 1646, quando ricevette la visita del Grande Ammiraglio di Castiglia, ambasciatore della corte spagnola presso il Papa. Di passaggio per Assisi, egli volle, insieme alla moglie, rendere omaggio al santo di cui tutti dicevano cose mirabolanti, ed ebbe la possibilità di testimoniare come l'umile Giuseppe Desa, in contemplazione davanti a una statua della vergine, si sollevasse dal suolo di alcuni metri e, dopo aver lanciato il grido che accompagnava i suoi voli estatici, tornasse nella sua umile cella. Oppure come era già avvenuto a Napoli il 27 novembre 1638 davanti ai giudici della Santa Inquisizione, e come accadde pochi giorni prima che morisse, in presenza del chirurgo Francesco Pierpaoli, che gli stava praticando un cauterio. Un eclatante fenomeno di levitazione si verificò anche nel 1657 nelle Marche, quando il futuro santo arrivò in vista della Santa Casa di Loreto, che desiderava da sempre visitare. In quell'occasione, durante una sosta del viaggio da Fossombrone a Osimo, mentre saliva la scalinata esterna di una casa colonica, Giuseppe ebbe la visone di una lunga teoria di angeli che salivano e scendevano dal cielo al di sopra della Santa Casa e, superando le barriere fisiche dell'attrazione newtoniana, in preda a un'intensa emozione, levitò fin sulla cima di un mandorlo. 

Elogiativo e interessante il giudizio di papa Benedetto XIV: …da questa intima unione con Dio, il suo cuore fu così travolto dal fuoco della Divina carità e così profondamente arso da incredibile amore di interiore dolcezza, che spesso prorompeva in estasi e levitazioni; per intenso desiderio del suo Dio, mentre ancora era trattenuto sulla terra, fu considerato cittadino del Cielo… .

Pochi anni più tardi, nel 1663, il corpo terreno di Giuseppe da Copertino volò per sempre verso un definitivo altrove: "nella semi-oscurità, il suo volto rimase per diverso tempo vivacemente illuminato come da un fascio di raggi solari, che si andarono spegnendo lentamente…" Lo spegnersi di questa sorta d'energia somiglierebbe assai alla stessa spiegazione che fra' Giuseppe forniva dei suoi voli, senza potersene dare una vera ragione:"...l'anima vede certi raggi della grande Maestà di Gesù Cristo quali cagionano, poiché per sì gran lume l'uomo si muove così di ratto all'indietro. Ma poi che quei raggi si ritirano e così cagionano, quasi così facendo l'invito all'anima che di nuovo ella con il suo corpo voli e sia rapita verso il suo amato Signore…"
Di Silvia

domenica 22 settembre 2013

Amici in seminario: Rasputin Stalin e Gurdjieff



Rasputin fu il responsabile della camerata dove dormiva Stalin a Tiflis. Uno divento prete ortodosso entrando alla corte dello Zar mentre l'altro intraprese la carriera di despota sanguinario in nome del comunismo. Gli eventi sono intimamente legati e nulla è dato al caso



Le stranezze della storia non finiscono qua G.I. Gurdjieff e Joseph Stalin incontrati da giovani studenti che frequentano lo stesso seminario di Tiflis nel Caucaso . Forse compagni di letto ! Fatti sorprendenti, che storie!

Comunismo e anarchia

Stalin durante lla guerra civile spagnola diede l'ordine di sparare prima agli anarchici e poi ai falangisti!


"Dobbiamo essere comunisti, perché siamo anarchici, perché l'anarchia e il comunismo sono i due termini necessari della rivoluzione". (Carlo Cafiero)
"Dobbiamo essere comunisti, perché siamo anarchici, perché l'anarchia e il comunismo sono i due termini necessari della rivoluzione". (Carlo Cafiero)

giovedì 19 settembre 2013

Il mitico regno del Prete Gianni

Il fantastico regno di Prete Gianni

Una lettera del XII Secolo inviata al papa e ai due imperatori sconvolse il mondo medievale: chi era veramente Prete Gianni, il misterioso re-sacerdote che si ergeva a difensore della Cristianità?


Immagine tratta dal sito http://upload.wikimedia.org/

Prete Gianni per grazia di Dio re potentissimo su tutti i re cristiani. Salutiamo il Vescovo di Roma sovrano dei Cristiani, Federico imperatore di Roma e del mondo e il gentile signore e re di Costantinopoli Emanuele. Vi facciamo sapere di noi, del nostro stato e del governo della nostra terra. Vale a dire delle nostre genti e delle nostre specie di bestie. Noi vi facciamo sapere che adoriamo e crediamo il Padre, il Figlio e il Santo Spirito, che sono tre persone in una deità e un vero Dio soltanto. E vi accertiamo e informiamo per mezzo delle nostre lettere sigillate col nostro sigillo circa lo stato e la condotta della nostra terra e delle nostre genti. E se volete qualcosa che possiamo fare informatecene perché lo faremo assai volentieri. E se voi volete venire per di qua nella nostra terra, per il bene che di voi abbiamo udito dire noi vi faremo signore dopo di noi, e vi doneremo grandi terre, signorie ed abitazioni. Sappiate che noi abbiamo la più alta corona che sia in tutto il mondo. Così come oro, argento e pietre preziose.
E buone fattorie, villaggi, città, castelli e borghi. sappiate anche che noi abbiamo sotto il nostro comando quarantadue re, potentissimi e buoni cristiani. Sappiate che noi sostentiamo con le nostre elemosine tutti i poveri che sono nella nostra terra, siano essi nostri concittadini o stranieri, per l'amore e l'onore di Gesù Cristo. Sappiate che noi abbiamo promesso e giurato nella nostra buona fede di conquistare il sepolcro di Nostro Signore e tutta la terra promessa. E se voi volete noi l'avremo, se Dio vuole, purché abbiate in voi grande e buon ardimento, così come ci è stato riferito che avete buon coraggio, vero e leale... Sappiate che vicino a quella regione vi è una fontana tale che chi può berne dell'acqua tre volte a digiuno non avrà malattie per 30 anni, e che quando ne avrà bevuto gli sembrerà d'aver mangiato tutte le migliori vivande e spezie del mondo; ed è tutta piena della grazia del Santo Spirito. E chi può bagnarsi nella fontana, se ha l'età di cent'anni o di mille, torna all'età di trentadue anni. E sappiate che noi nascemmo e fummo santificati nel ventre di nostra madre, e così abbiamo trascorso 562 anni e ci siamo bagnati nella fontana sei volte. sappiate che nessun re cristiano ha tante ricchezze quante ne abbiamo noi, in quanto nessun uomo che voglia guadagnare può nella nostra terra essere povero... Se voi volete da noi qualcosa che sia in nostro potere, fatecelo sapere, ché noi lo faremo molto volentieri. E vi preghiamo che teniate a mente il ricordo della santa crociata, e che ciò sia presto, ed abbiate buon cuore, grande ardimento in voi, e vi preghiamo che ci inviate risposta tramite il latore di queste lettere di presentazione. Pregando Nostro Signore che vi conceda di perseverare nella grazia del Santo Spirito. Amen. Steso nel nostro santo palazzo, l'anno cinquecentosette della nostra natività. Qui finiscono le singolarità degli uomini, delle bestie e degli uccelli che sono nella terra del Prete Gianni.
(Sintesi della traduzione dal francese antico di Dario Chioli)
Questo è il testo della lettera che nel 1165 giunse a Federico Barbarossa, papa Alessandro III e Emanuele Comneno imperatore di Costantinopoli. Una lettera seria, firmata Presbiter Johannes, scritta in latino utilizzando parole colte e facendo riferimento alla situazione politica del tempo, anche se unita ad un'incredibile elenco di esagerazioni tratte dai bestiari medievali. Pomposo, con il chiaro intento di stupire il volgo semplice del tempo… Difficile pensare a un falso, chi ai tempi avrebbe potuto osare tanto? La realtà politica del momento infatti era assai complicata. Il 1100 al contrario di quel che si può pensare fu un'epoca piuttosto prospera da un punto di vista economico. Le Crociate avevano aperto nuove rotte commerciali e i regni cristiani in Terrasanta fornivano materie prime e spezie a tutto il Vechio Continente. Da un punto di vista locale, nel XII Secolo si ebbe un'espansione del Diritto e della Giurisprudenza che favorì nuove forme di contratti: in un certo senso si superò il Feudalesimo per vedere la nascita di quella che sarebbe diventata la piccola e grande Borghesia commerciale. Questo a livello particolare si tradusse con una via via susseguente indipendenza di città e territori, pensiamo ai comuni in Italia settentrionale e anche alla Lega Anseatica in Germania… Questo a scapito del potere temporale del Sacro Romano Impero, di fatto un'entità fantoccio con un territorio effettivo proprio assai più limitato di quello nominale che comprendeva tutta l'Europa. Invece, i regni normanni in Inghilterra, in Scandinavia, in Normandia e nel Meridione d'Italia rendevano di per sé l'Impero solo un'ombra. Ma non solo: anche il regno di Francia, il regno Aragonese in Spagna e il potere sempre più crescente degli ordini cavallereschi, Templari e Ospitalieri in testa, minavano il prestigio di Federico. L'idea di perdere i comuni italiani non poteva essere accettata da un uomo orgoglioso come il Barbarossa e da qui l'idea di una campagna di riconquista del settentrione italiano, con susseguente invasione e difesa conseguente da parte delle città padane con la celebre Lega Lombarda appoggiata dal papa Alessandro III (lo stesso a cui fu dedicata la neonata città di Alessandria in Piemonte). In Medio Oriente la situazione non era migliore: la perdita di Edessa nel 1144 da parte dei Cristiani a vantaggio dei Saraceni aveva chiuso una delle rotte sulla Via della Seta, quella settentrionale che passava attraverso la Siria. Così, oscuri presagi di disfatta pendevano sul capo dei Crociati che si erano spartiti la Terrasanta… Ancora vent'anni e Gerusalemme sarebbe tornata musulmana, quindi i timori erano fondati. Tuttavia se fosse intervenuto qualcuno alle spalle dei musulmani, qualcuno che fosse accorso con forze fresche e un esercito simile a quello descritto, allora la Cristianità avrebbe trionfato… Per tale motivo la notizia della lettera inviata da questo misterioso Prete Gianni portò un'ondata generale di entusiasmo

Eppure, storicamente poi come sappiamo nessun re di un reame ricchissimo che vantava uomini con un piede solo e fortezze a migliaia e uccelli capaci di trasportare elefanti sul campo di battaglia venne in soccorso dei regni cristiani in Palestina. Persa Gerusalemme ad opera del Saladino, passò un altro secolo prima che l'Occidente perdette l'ultimo caposaldo in Terrasanta: San Giovanni d'Acri, nel 1291. In mezzo, l'invasione terribile dei Mongoli che terrorizzò gli stessi Saraceni… Al punto che viene da pensare che il caro Prete Gianni non fosse divenuto in seguito l'immagine distorta di un invasore assai ben più celebre, Gengis Khan. Ma chi costruì a tavolino questa inesistente figura? E in fondo in fondo era davvero inesistente? A non credere troppo alla faccenda c'era sicuramente papa Alessandro. Innanzitutto se era vero che esisteva un re cristiano e pure sacerdote al di là del Caucaso, era anche un eterico: un nestoriano, per l'esattezza. Quindi inviò una lettera da affidarsi a mercanti destinata a Prete Gianni in cui brevemente il papa sollecitava il re misterioso a fornirgli più particolari sull'ubicazione del regno, ottenuti i quali avrebbe inviato come ambasciatore l'arcivescovo di Venezia Filippo con il ruolo anche di indottrinarlo ai fondamenti del cattolicesimo. Nel 1172, anche l'imperatore d'Oriente rispose alla missiva ma i suoi ambasciatori morirono in una tempesta di sabbia nei territori dell'odierno Irak. Il ricordo di Prete Gianni rimase sospeso per innumerevoli anni, come una sorta di deus ex machina che sarebbe presto intervenuto a favore dei cristiani: intorno al 1185 un monaco in Siria raccontò di aver visitato il regno, che situava dopo la Persia ma prima dell'India.

Giovanni del Pian dei Carpini, ambasciatore del papa presso la corte mongola che aveva conquistato la Cina, raccontò come il figlio di Gengis Khan fosse stato sconfitto da un re cristiano che egli considerava etiopico. Ma l'Etiopia era in Africa… A questa tesi in tempi successivi, alla fine del '400, sembrò credere re Giovanni di Portogallo, che inviò un'ambasceria presso il regno etiopico scoprendo che effettivamente vi era un sovrano cristiano, il Negus. In effetti l'Etiopia è l'unico stato storicamente cristiano in tutta l'Africa, anche se la religione professata è quella copta. Era il re etiopico il celebre Prete Gianni? Marco Polo nel '300 parlò a lungo di questa figura, ma si sa come le ricostruzioni del viaggiatore veneziano possano peccare di inesattezze. Secondo lui, Prete Gianni era sovrano di un regno che si estendeva in Siberia e Tibet e i cui sudditi si chiamavano tartari. Fu sconfitto da Gengis Khan e di lui non si seppe più nulla. In Occidente si diceva appunto come già accennato che lo stesso imperatore mongolo fosse cristiano, in nome delle sue conquiste. Chi affermò di aver visto coi propri occhi quel regno fu l'inglese John de Mandeville, un esploratore (ma sarebbe più corretto definirlo mistificatore) che intorno al 1350 andava per l'Europa raccontando le mirabolanti imprese del suo soggiorno… Mandeville è certamente un uomo di fantasia e la sua opera sarebbe anche carina da leggersi se non si affrontasse questo mistero da un punto di vista storico.

E secondo noi le possibilità di soluzione sono soltanto due. La prima è quella accettata dagli storici come più probabile: il regno del Prete Gianni sarebbe in realtà il regno di Uighur, un vasto territorio che originariamente era situato nel Sinkiang, a ovest del deserto di Gobi, in Cina; e che nel periodo di massima espansione andava dal lago d'Aral alla Manciuria. Gli Uighur erano una stirpe mongolo-tartara di religione buddhista che secondo alcuni studiosi ad un certo punto si convertì al cristianesimo nestoriano, esattamente come papa Alessandro III sospettava professasse il Prete Gianni. I nestoriani sono in realtà la chiesa assira autonoma sviluppatasi in un'area che andava dall'Irak alla Persia e dunque avrebbe potuto benissimo entrare in contatto con la cultura Uighur: per cui il Prete Gianni era senza dubbio il sovrano Uighur dell'epoca corrispondente, ossia Yeliutashi, che governò dal 1126 al 1144. Foneticamente Yeliutashi è abbastanza simile a Johannes, e dunque il problema pare essersi risolto da solo… Ma ciò non toglie rilevanza alle motivazioni interne europee che avrebbero portato all'invio di tale lettera alle tre figure più potenti del XII Secolo. Motivazioni che solo un ordine, che del mistero fa la sua bandiera, avrebbe potuto realizzare… Ci riferiamo ai Templari, con cui sicuramente gli Uighur ebbero contatti commerciali in Terrasanta. Sul popolo tartaro-cristiano i monaci guerrieri potrebbero aver innestato ad arte una storia arcana ben più complessa, allo scopo di inviare un "messaggio" alla cristianità. La nostra tesi pone l'accento sulle meraviglie presenti nel lungo elenco vantato da Prete Gianni in prima persona e in particolare alla fonte della giovinezza che ha fatto sognare tanti esploratori che invano l'hanno cercata per i quattro angoli del globo, dall'Australia al Borneo allo Yemen fino alla Florida…

La fonte della giovinezza descritta nella missiva giannea appare come un preciso riferimento a quello che in epoca medievale si ascriveva alla Pietra Filosofale. In realtà, l'immortalità sarebbe soltanto simbolica: la "fonte", la "pietra" sono archetipi di un messaggio di iniziazione il cui scopo, come nella massoneria moderna, è l'illuminazione dell'alchimista. Un uomo che da materia grezza e senza luce appunto si illumina di sapienza, di coscienza di sé e dell'universo e automaticamente accresce la sua spiritualità fino a diventare un uomo-dio. Un divino umano superiore a cui tutti possiamo arrivare, così come tutti i viaggiatori che raggiungono il regno di Prete Gianni possono bere a quella fonte di giovinezza… Ma la strada è lunga e difficile, a nostro avviso questo regno è una metafora del reame sotterraneo di Agharti, ossia l'origine, la fonte prima della carne e della sapienza! Vista in questa ottica, Prete Gianni è come il Re del Mondo, un re sacerdote che dispone di un potere fisico-temporale e un potere spirituale assai più grande di quello stesso del papa. Lo sprezzo con cui Alessandro III rispose alla lettera non lascia adito a dubbi: il Vescovo di Roma vedeva la questione su un piano prettamente materiale, utilitaristico e anche pratico-ereticale (i nestoriali da convertire), dimostrando di non cogliere il significato iniziatico del testo. Come spesso avviene per i testi di iniziazione massonici, come ad esempio "Il Flauto magico" di Mozart, il messaggio è diviso su due livelli: un primo per il popolo ignorante, con una storiella che lo stupisca e lo faccia divertire; un secondo, occulto, per l'uomo colto in grado di comprendere il significato appunto esoterico, nascosto, celato. Un significato potenzialmente pericoloso, perfino eversivo. E in quel particolare contesto storico qualcuno, forse i Templari, osò dire all'Europa "Cari signori, la Terrasanta è perduta se non ritroviamo la via della vera spiritualità, dell'immortalità vera, quella animica". Il senso dell'Alchimia è lo stesso: ritrovare l'uomo e rimetterlo al centro dell'universo, non per superbia, bensì perché quello è il suo ruolo, perché l'illuminazione è il suo dovere.
Negli articoli sulla Stregoneria abbiamo sottolineato come la strega medievale che pratica magie e benedizioni metta in pericolo il monopolio alla spiritualità della Chiesa cristiana: ebbene, chi ha scritto la missiva di Prete Gianni era consapevole di quella stessa grande forza interiore degli uomini che consente a loro, a tutti loro, di benedire acqua e sale senza mediatori nominati da istituzioni che si spacciano per sante ma che fondamentalmente sono un'opera dell'uomo… Questo significava il Prete Gianni: ma come sappiamo, nessuno diede troppo credito alla faccenda. I pochi ambasciatori inviati morirono di stenti nel deserto: e su quel regno, vero o metaforico, di meraviglie calò per sempre il silenzio.

http://unmondoaccanto.blogfree.net/?t=2441299

domenica 15 settembre 2013

Cefis ovvero: Cancro Enfisema Fumo Intossicazione, la salute non si può barattare..........

CANCRO ENFISEMA FUMO INTOSSICAZIONE SILICOSI

di Daniele Barbieri (da http://danielebarbieri.wordpress.com)
fangoneroVi spiego subito lo strano titolo (5 parole senza virgole oltretutto)  . Dagli anni ’60 Eugenio Cefis fu uno dei potenti d’Italia. Dunque osannato da molti, come ricorderà chi ha – come me – il privilegio (e/o la sfortuna) di una certa età. Non fu venerato da tutti certo: a esempio Pasolini nel romanzo «Petrolio» vede Cefis come uno dei simboli italiani del rapporto malato tra finanza e politica. Però la maggior parte dei giornalisti o dei presunti «opinion leader» non si sarebbe mai rivolto a Cefis senza reverenziale rispetto; al massimo si ricordava il suo soprannome di «granatiere» dovuto all’altezza che all’epoca del militare, si dice, lo destinò – come allora usava – ai Granatieri di Sardegna. Impensabile dunque che trapelasse il motivato soprannome, o meglio l’acronimo, con il quale Cefis era noto fra gli operai, cioè: cancro enfisema fumo intossicazione silicosi; cinque regali che «il granatiere», ha elargito a dipendenti e popolazioni delle zone intorno agli impianti. A proposito di soprannomi, gli operai di Marghera in un famoso corteo-funerale sostituendo una sola lettera ribattezzarono Mortedison il loro datore di lavoro (ma anche prenditore di salute e di vita).
Questo acronimo di Cefis è invece alle primissime righe di «Fango nero», così da far capire subito dove si colloca l’autore, il mantovano Sergio Mambrini. Il quale sa bene di cosa parla perché in Montedison-Mortedison ha lavorato. Se ne andò poi per affrontare diverse esperienze – fra le altre il circolo Legambiente di Mantova, la Fiab (Federazione italiana amici bicicletta) e il ristorante biologico che oggi dirige – alla ricerca di natura e salute, entrambe negate dalla chimica dell'affarismo. «Solo chi ha un luogo da cui evadere assapora appieno la libertà riconquistata» ricorda la quarta di copertina, avvisandoci che «anche noi abbiamo una prigione da lasciare».
«Fango nero» è una sorta di biografia romanzata, assai ben scritta, di Mambrini: vissuta con «l’orizzonte di una forte utopia», quella (o per meglio dire quelle) del 1968 e della sua onda lunga. Vicende anche drammatiche ma raccontate spesso con il sorriso: «ridere ci aiuta a capire sino in fondo i paradossi umani» rammenta il protagonista, «il riso è espressione di democrazia. Non pone ostacoli d’età o di ceto sociale e mantiene vigili le coscienze. Per questo le dittature lo temono». Storie vere dunque anche se – così la nota iniziale dell’autore – qualche ambientazione, taluni episodi, i dialoghi sono romanzati e «le fatali distorsioni della memoria» possono aver indotto in qualche piccolo errore. Ma se pure ci fossero imprecisioni contano zero, a mio avviso: in primo luogo perché qui contano «emozioni, modi di essere, passioni, paure, affetti» dei protagonisti, perlopiù «cocciuti sognatori»; in secondo luogo perché è la trama complessiva che importa.
Nelle ultime pagine del libro si ricorda (anche per un tragico intreccio di storie personali) la tragedia di Stava in Val Fiemme. Il nome vi dice poco? Vuol dire che si è avverata la triste previsione di Luigi Pintor il quale scriveva, su «il manifesto» del 21 luglio 1985: «Dopodomani la Val di Fiemme sarà dimenticata, dopo il rito funebre». Una diga cede: 300 morti e nessun colpevole accertabile perché le leggi consentivano – e ancor più oggi consentono con i recenti provvedimenti di tutti gli ultimi governi – di risparmiare sui costi della sicurezza.
Come l’ambiente e la sicurezza del territorio sono «beni comuni» (questo non è in discussione, comunque sia finito il processo di Stava) così la salute dei lavoratori è tutelata dalla Costituzione, «è un bene indisponibile, un bene individuale ma anche un interesse collettivo. Nessuno può rinunciarvi, nemmeno volontariamente» come ricorda Mambrini, utilizzando le parole di Paolo Ricci. Eppure, con il consenso dei sindacati, nelle buste-paga ci sono le voci «indennità di nocività», «indennità di rischio». Ieri alla Montedison e dintorni , oggi all’Ilva la salute operaia è in vendita come il territorio, compresi acqua e cibo. Per questo chi sceglie la cura di sé e dell’ambiente, con il suo esempio e con il racconto ci segnala l’alternativa, «un tempo umano dell’esistere, con gli altri e per gli altri». E dunque Mambrini ci consegna una storia importante.
Come fosse un post scriptum… «Qui finisce il libro» si legge in ultima pagina «ma non finisce qui» e (bella idea dell’editore) si raccontano i particolari tecnici: caratteri, carta, lastre ecc. Per chiudere così: «Abbiamo lavorato con passione e cura per realizzare questo libro. Possa avere vita lunga e alla fine del suo ciclo tornare alla natura».
Il libro: Sergio Mambrini, Fango nero, Iacobelli editore, 2012, 288 pagine.

Ieri a Maratea oggi il gruppo Riva,

MARLANE: LA FABBRICA DEI VELENI

Marlane
C’è tutto il sud dentro questa storia di confine fra Basilicata e Calabria. Ci sono gli anni ’50, quelli del dominio democristiano, dei miliardi della Cassa del Mezzogiorno dirottati agli imprenditori amici per costruire cattedrali nel deserto. Perché 6.000.000.000 lire si prese, col patrocinio del ministro Colombo (cocainomane oggi senatore a vita) , il conte di Biella Stefano Rivetti per aprire gli stabilimenti tessili della Marlane a Maratea e Praia a Mare. Sei miliardi ai tempi in cui un suo operaio guadagnava 38.000 lire al mese: in pratica lo Stato gli pagò a fondo perduto l’equivalente di 157.894,73 salari.
Erano fondi destinati al meridione, ufficialmente usati per l’acquisto di macchinari all’avanguardia che a Maratea e a Praia non arrivarono mai …. ma negli stabilimenti del Rivetti a Biella e  in Toscana si. Al sud finirono solo vecchi impianti dimessi.
C’è tutto il sud dentro questa storia di confine. C’è il sud descritto da Montanelli con malcelato razzismo nell’apologia dell’eroico industriale disceso dal settentrione a civilizzare, come in un’avventura neocoloniale, queste genti neghittose.
C’è il sud del clero e dei notabili di paese, in servile ossequio alla corte del nobile di turno come per i baroni ai tempi dei Borbone. Rivetti riassume in sé i tratti della vecchia feudalità e del nuovo capitalismo assistito. Davanti a lui si prostrano gli amministratori locali, sfregandosi le mani per l’inaspettata opportunità di nuovi bacini clientelari (perché lavorare alla Marlane è un “privilegio” che necessita di raccomandazione). Si dice che gli operai del Rivetti a 18 anni vengano licenziati, che non si rispettino i contratti di lavoro(1), che il conte abbia assoldato due padri gesuiti a cui le maestranze devono rivolgersi in caso di problemi, al posto dei sindacati .  Si dice che il conte abbia una gestione “allegra”, complicata da uno strano intreccio di società fasulle, che nonostante il prosperare dell’attività produttiva porta l’azienda al dissesto finanziario.
Ed è così, che nella più classica tradizione di “privatizzazione dei guadagni e socializzazione delle perdite”,  la Marlane nel ’70 passa all’ENI.
La gestione pubblica
Il padrone pubblico non si dimostra molto meglio di quello privato. E’ durante il passaggio delle consegne che vengono abbattuti i divisori fra i reparti, generalizzando le nocività della tintoria all’intera  fabbrica.
I primi morti arrivano nel ’73: “c’era una macchina che si chiamava “carbonizzo” e usava nelle vasche, per bruciare il pelucchio nei tessuti scuri, l’acido solforico. Nel 1973 sono deceduti proprio gli operai che erano addetti a quella macchina. Uno si chiamava Sarubi e l’altro Mandarano … I medici hanno scoperto che l’acido aveva mangiato loro tutto l’apparato digerente… Nonostante tutto con questa macchina hanno fatto lavorare lo stesso altri operai”(2).
Nel reparto tintoria si coloravano i filati  dentro bollitori a pressione, con acqua e colore a 140°C, mentre le pezze venivano tinte dentro vasche di acqua e colore bollente. Il vapore rendeva l’aria soffocante, riempiva i polmoni di acqua e coloranti amminici. Per respirare in estate gli operai dovevano periodicamente uscire dalla fabbrica  In tintoria la visibilità arrivava a due metri, e per le alte temperature si lavorava a torso nudo, così si assorbiva veleno anche dalla pelle.  Dopo la tinta, si passava alla macchina lisciatrice per il trattamento di fissaggio con sali di cromo esavalente. Il magazzino colori era pieno di polveri di tintura, il reparto tessitura  pieno delle fibre di amianto di cui erano fatti i freni dei telai. Ovunque polveri di stoffa intrise di chimica.
Mio marito lavorava in tessitura … puliva i telai, puliva un po’ dappertutto … quando si ritirava a casa era sempre pieno di polveri, sempre. Poi aveva sempre il naso intasato,sempre nero, e dovevamo buttare i fazzoletti perché si macchiavano di colore….sputava, sputava in continuazione per potersi pulire la bocca e la gola, perché erano sempre piene di polveri. Quando mio marito tornava a casa, prima di salire sopra si toglieva la tuta e gli indumenti da lavoro. Li lasciava in fondo alle scale, io prima li bollivo poi li mettevo in lavatrice. Quando lavavo la tuta da lavoro scaricava un sacco di colore ed era puzzolente…. Non le potevo mettere direttamente in lavatrice perché sennò rovinavo anche la lavatrice”(2).
Con la gestione pubblica dalla fabbrica scompaiono i padri gesuiti, sostituiti dai sindacati confederali previamente trattati nella vasca del giallo. Negli anni in cui altrove si dimostra la massima forza operaia,  a Praia nonostante le terribili condizioni di lavoro  vi è la totale assenza di conflitto.
Fuori dai cancelli la fabbrica ingloba anche il palazzo comunale: per il PCI/PSI viene eletto sindaco nel ’74 Carlo Lomonaco, responsabile dei reparti tintoria e depurazione (praticamente i più nocivi). La Marlane è fabbrica di voti, oltre che di tessuti.
Ancora un conte
Con gli anni ’80 si apre l’era delle privatizzazioni all’italiana, e nell’87 lo stabilimento di Praia viene svenduto a Marzotto, che della vecchia gestione mantiene invariati alcuni dirigenti, i livelli di nocività e l’attitudine a farsi rifinanziare periodicamente con soldi pubblici.
Vengono conservate antiche tradizioni quali la l’assenza dei controlli sanitari sugli operai, l’assenza di controlli della AUSL nello stabilimento, l’assenza di dispositivi di protezione individuale e collettiva, la presenza dei dirigenti al capezzale  degli operai moribondi per fargli firmare le dimissioni volontarie.
Il nuovo conte a differenza di Rivetti a Praia non ci mette piede, ma non per questo mancano in loco dei suoi sfegatati supporters. A Lomonaco si alterna al Comune Antonio Praticò (in quota DC), sindacalista CISL della Marlane della quale cura “informalmente” il collocamento.
E’ in questo clima di unanimità servile, che vede far quadrato intorno alla Marzotto e ai suoi dirigenti gli amministratori locali, i politici di maggioranza e opposizione e i sindacati confederali (con personaggi che ricoprono  contemporaneamente vari di questi ruoli) che una sera di fine anni ’90 gli operai Luigi Pacchiano e Alberto Cunto si presentano ad una riunione di ambientalisti. “Questo gruppetto di lavoratori, soli, aggrediti dai sindacati ufficiali dai politici tutti,  sia di destra che di sinistra, dal sindaco di Praia Antonio Praticò e dall’amministrazione comunale intera, invisi a parte della cittadinanza praiese, colpevolizzati di far chiudere la fabbrica con le loro denunce e far perdere il posto di lavoro a centinaia di padri di famiglia, chiedevano a noi un aiuto. E noi ci mettemmo a disposizione”(4). E’ la breccia nel muro di gomma, che si allarga con fatica man mano che al loro fianco si aggiungono medici, giuristi, operatori dell’informazione, e, poi, le vedove, le famiglie, i malati. Perché c’è tutto il sud in questa storia di confine: il sud di chi ha rifiutato l’omertà, di chi ha lottato nonostante l’isolamento, le minacce in stile mafioso, le provocazioni poliziesche, di chi ha fondato il sindacato di base, ed ha tenuto duro, fino a portare padroni e dirigenti a processo. C’è il sud delle vedove rimaste sole con i figli a carico, del loro dolore, della miseria e della fatica di tirare avanti, senza che istituzioni o azienda si siano degnate di offrire un aiuto. Donne che cominciano a reagire.
I servi sciocchi di Marzotto continuano ad attaccare, in nome dell’occupazione, quelli che chiedono giustizia, fino a che nel 2004 la Marlane chiude per motivi di redditività d’impresa (dimostrando che dell’occupazione al sud se ne stracatafotte). Marzotto ha delocalizzato ad est la fabbrica e probabilmente i veleni, non prima di aver intascato l’ultima iniezione di denaro pubblico. La Marlane  lascia dietro di se 107 fra morti e malati (5),  capannoni diroccati e tonnellate di scorie tossiche sepolte dentro e fuori i terreni dell’azienda, contaminati da nichel, vanadio, cromo, mercurio, zinco, arsenico, piombo e Pcb (6). Ancora una volta una storia del sud, di rifiuti industriali in discariche abusive, una bomba a tempo per chi, a differenza dei capitali, non può (e non vuole) andarsene via.
Questa storia continua con il processo ancora in corso a 13 fra padroni e dirigenti. Per seguirla è inutile cercarla nei TG: collegatevi al sito dello Slai Cobas , del Si-Cobas o a quello dello scirocco , e non lasciateli soli.
Il libro: Francesco Cirillo, Luigi Pacchiano, Giulia Zanfino, Marlane: la fabbrica dei veleni, Coessenza, 2011, 189 p.
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(1) La denuncia è di Gino Picciotto e Antonio Gigliotti dalle pagine dell’Unità del 1961.
(2) Intervista a Luigi Pacchiano, operaio Marlane dal 1969 al 1995, fondatore dello Slai Cobas e  del Si-Cobas, sopravvissuto alla fabbrica dei veleni.
(3) Intervista ad Angela Limongi, vedova di Possidente Biagio, operaio Marlane, morto di tumore ai polmoni a 54 anni.
(4) Francesco Cirillo, militante ambientalista, giornalista e blogger.
(5) Stima per difetto.
(6) Secondo un testimone sono scorie della gestione Marzotto seppellite sotto la direzione dell’onnipresente Lomonaco, riconfermato sindaco anche nel 2004. E’ imputato al processo Marlane.

sabato 14 settembre 2013

L’enigmatico sito di Poggio Rota, una Stonehenge Italiana


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Fig.1 - I megaliti di Poggio Rota

Questo incredibile sito archeologico è stato segnalato allo scrivente dal ricercatore Daniele Carrucoli.
Poggio Rota è il nome, ereditato dal luogo in cui è situato, di un complesso di megaliti ricavati dall’intaglio di un precedente blocco tufaceo.
Il sito è ubicato nella bassa Toscana, presso il paese di Pitigliano in un’ ansa del fiume Fiora, un corso d’acqua che nasce dal vicino Monte Amiata.
Scoperto nel 2004 dal ricercatore Giovanni Feo, il complesso megalitico è stato oggetto di numerosi studi promossi privatamente dall’Associazione Culturale locale “Tages”.
Gli studi  hanno dimostrato, oltre all’artificialità del sito testimoniata dalla relazione del geologo Alfonso Giusti, la sua valenza archeoastronomica come testimoniato dalle indagini effettuate da Adriano Gaspani, Antoine Mari Ottavi, François Radureau e Enrico Calzolari.
Gli studi condotti sul sito, ai quali ha partecipato anche l’archeologa e docente Nuccia Negroni Catacchio (Università di Milano) ipotizzano che i megaliti di Poggio Rota furono realizzati verso la metà del terzo millennio a.C. dalla facies culturale di Rinaldone (4000-2000 a.C).
Riguardo questa cultura sinteticamente occorre dire che il nome deriva dalla scoperta di tombe a grotticella artificiale scavate nella roccia, dette a “forno” avvenuta nel 1903, nel sito denominato “Rinaldone”, nei pressi di Montefiascone (VT). Nel 1938 Minto , notando la somiglianza delle architetture tombali e dei corredi con le tombe che gli erano state segnalate nella Toscana meridionale, in particolare nelle necropoli di Botro del Pelagone (Manciano), Corano (Pitigliano), Poggio Formica (Pitigliano), individuò per primo in esse uno specifico aspetto culturale dell’Italia Centrale, disitinguibile da quello della restante penisola. Fu poi Pia Laviosa Zambotti nel 1939 a parlare per la prima volta di cultura di Rinaldone, distinta da quella tipica dell’Italia Settentrionale, che chiamò di “Remedello”.

ANTICO OSSERVATORIO ASTRONOMICO
Secondo gli esperti il complesso di Poggio Rota, venne realizzato per l’osservazione degli astri e del Sole.
I dieci megaliti, furono realizzato con il taglio, dall’alto verso il basso, di un poggio di roccia vulcanica; separati da stretti passaggi a corridoio, i raggi solari potevano quindi passare e indicare l’intero moto del Sole dal solstizio estivo a quello di inverno.
Durante il solstizio estivo il Sole al tramonto si “poggia” sul monolite centrale del complesso per poi andare a “posarsi” su un avvallamento offerto dalla skyline.

 Fig.2 - I megaliti di Poggio Rota durante il Solstizio estivo


Durante l’equinozio autunnale invece, grazie a delle “stondature” alla base di alcuni dei monoliti, è stato possibile osservare “l’annuncio” del tramonto del Sole circa un’ ora prima grazie a dei fasci di luce che si sono venuti a creare sul terreno.


 
Fig.3 - I megaliti durante l'equinozio autunnale

Al solstizio invernale in una vasca presente nel sito è stato possibile osservarvi, seduti su una sorta di trono incavato in una roccia tufacea, il Sole riflesso nell’ acqua, resa scura dal fogliame che si era depositato sul fondo.


 
Fig.4 - I megaliti di Poggio Rota durante il Solstizio invernale

Agli inizi di febbraio invece, su un monolite denominato il “puntatore” poiché dotato di un profondo taglio sulla sua superficie superiore che “punta” ad un altro avvallamento della skyline, durante il tramonto il Sole vi “cade” precisamente dentro.
Il sig. Carrucoli scrive: All’inizio per noi risultava inspiegabile un simile orientamento, poiché dissociato dalle 4 giornate chiave dal punto di vista astronomico. Poi ci ricordammo che il 2 febbraio è il giorno della “candelora”.
La celebrazione della Canadelora, deve questo nome all’usanza di benedire le candele, il 2 febbario è stata introdotta dalla Chiesa Cattolica per celebrare la presentazione al tempio di Gesù. Questa festa è nota anche come “purificazione di Maria” dovuta all’usanza Ebraica secondo la quale una donna dopo il parto è considerata impura per un periodo di 40 giorni (dal 25 dicembre al 2 febbraio sono 40 giorni). Nell’antichità una festa del tutto simile era praticata il 14 febbraio (40 giorni dopo l’epifania) e il primo a parlarcene è Egeria ne “Itinerarium Egeriae”: “Si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una luce grandissima”, sta parlando dei Lupercali, festa celebrata dai romani.
Ma le incridibili coincidenze non finiscono qui, il primo febbraio veniva celebrata una festa di enorme importanza per la tradizione celtica l’Imbolc (oOimelc). In questa festività veniva celebrato il culmine dell’inverno che da tradizione cadeva appunto il primo giorno di Febbraio che è il punto mediano tra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera.


Fig.5 - I megaliti di Poggio Rota durante il 2 febbraio, giorno della “Candelora”

Arriviamo infine all’equinozio primaverile. In questa occasione abbiamo individuato 2 fasci di luce, il primo del tutto simile a quello autunnale.


Fig.6 - I megaliti di Poggio Rota durante equinozio primaverile

Al momento non si ha una datazione certa di Poggio Rota, tuttavia in base agli studi fin’ora svolti, si ritiene che il sito sia stato costruito nel 2.300 a.C.
Se così fosse, questo sito testimonierebbe che nel passato esisteva una civiltà in Italia, forse la già citata culura di Rinaldone, con rilevanti conoscenze astronomiche
Il sito, già segnalato alla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, necessita in primo luogo la messa in sicurezza dei megaliti (molto deteriorati) e uno scavo stratigrafico, necessario per avere ulteriori dati.                                                                       
Niccolò BiscontiDaniele Carrucoli - 23 ottobre 2012

Per riferimenti consultare direttamente il sito Tages