domenica 23 dicembre 2012

Discussioni teologiche di Evola

Brano molto conosciuto ma sempre utile da ricordare.
GESÙ NON È IL TIPO DI UN DIO. (Da Imperialismo Pagano) Circa il Cristo, prescinderemo dal problema puramente storico. Considereremo il Cristo soltanto come un tipo, come il modello ideale che il cristianesimo ha saputo proporre per l’umanità. E porremo questo problema: è, un tale tipo, divino? È tale che non si possa pensarne uno più alto? Da questo punto di vista, l'essere il Cristo effettivamente esistito o meno, è cosa di assai secondaria importanza. Si deve rilevare però la preesistenza del mito del Cristo al cristianesimo: nella sua forma gnostica, onde il Cristo si identifica all'"Uomo interiore e celeste", esso fu già una dottrina dei Misteri mediterranei, òrfici e caldaici. In proposito vanno ricordate recenti teorie, come quelle del Couchoud, audaci ma pur fondate almeno quanto le ortodosse, che ricostruiscono il progressivo enuclearsi e trasformarsi di questo mito a partire dagli ideali messianici e indicano le precise circostanze storiche, psicologiche e polemiche che hanno portato a corporizzarlo, fino a concepirlo in un personaggio pensato come reale e come apparso ad un certo momento. Ad ogni modo noi, mantenendo il criterio di ricercare ciò che nel cristianesimo vi è di specifico, dobbiamo assumere il tipo Cristo in funzione soltanto del Cristo storico-evangelico, in quanto che circa le ulteriori speculazioni cristologiche, specie patristiche, ove è indubbio l'influsso della civilizzazione ellenistica e del gnosticismo, ripetiamo che i cristiani non hanno nulla di originale: essi hanno semplicemente carpito qualche briciola dell'insegnamento sapienziale balbettandola in pessima lingua e cercando di rivestirvi, per i bisogni della loro causa, fatti storici d'importanza e d'autenticità d'altronde assai relativa. Riportandoci allora nell'ordine della coerenza interna della concezione evangelica, già le basi sono infide. I pagani cominciavano col contestare lo stesso presupposto per l'intervento del Cristo quale salvatore, cioè la possibilità del peccato originale. E che! – esclamava Celso - se un comandante sa farsi obbedire dai suoi soldati e un capobanda dai suoi accoliti, è imaginabile che Dio onnipotente non sia stato capace di ciò rispetto al solo uomo che egli abbia direttamente formato? Ma sia anche concesso questo: Come Dio, nella sua giustizia e nella sua bontà, ha potuto aspettare tanti secoli prima di intervenire per ricondurre a sé i peccatori? E perché in quel dato momento, e non in un altro? Ne basta: Che rapporto ragionevole può esservi fra le sofferenze di Gesù e i delitti dell'umanità? Come un male - il sacrificio del Figlio - aggiunto ad un male, può cancellare quest'ultimo? Come Dio, onnisciente, poteva ignorare che inviando il Figlio suo fra gli uomini, lo inviava fra malvagi che dovevano macchiarsi di un nuovo e più terribile delitto uccidendolo? E se non lo ignorava, perché lo ha fatto? Dio è onnipotente: gli sarebbe bastato di perdonare e di annullare direttamente con un suo verdetto i peccati di coloro che l'avevano offeso, dato anche che ne provasse un qualche risentimento, cosa che è indegna di un Dio: il sacrificio del Figlio come espiazione per l'umanità presupporrebbe una responsabilità di Dio stesso rispetto a qualcun altro al disopra di lui, ovvero il riscatto come una legge a cui egli stesso sia tenuto a piegarsi - il che, pertanto, lo riduce ad una caricatura di Dio. Ma Celso vedeva bene la precisa ragione per tutte queste incongruenze: si è che il "sacrificio per l'umanità" è una semplice invenzione escogitata a fine di travestire luminosamente la fine ignominiosa, null'affatto degna di un Dio, di Gesù; a fine di far credere, trasformando la necessità in virtù, che questa fine non fu il risultato di forze, di contro a cui Gesù si mostrò impotente, ma invece un disegno divino da lui liberamente assunto per amore degli uomini. I cristiani sapevano bene che questa fine non poteva non ripugnare ai pagani, non poteva non proibire loro di riconoscere in Gesù un uomo-Dio, tanto gloriosi erano i miti in cui essi erano usi a ritrarre il modello ideale dell'umanità. L'espediente dell'"espiazione", congiunto al sovvertimento e al capovolgimento di tutti i valori tradizionali e affermativi, servì loro per tentare di trarsi d'impaccio. Ma il gioco non riuscì con i pagani, come non riesce con noi. Gesù non è per nulla il tipo di uomo, di cui non si può pensarne uno più alto e nobile. Gesù non è della razza degli uomini-iddii. Un uomo-Dio, per noi come per i Romani, non può essere un giustiziato, un crocifisso: non può essere colui che a Getsemani indugia in sentimentalismi e implora sospirando che gli sia evitato, se possibile, l'amaro calice; non può essere colui che, predicando la fede, alla fede viene meno nel momento supremo, disperando del Padre; non può essere chi, incapace a persuadere, sa soltanto suggestionare e moralizzare con visioni apocalittiche a base di stridore di denti e di pianti, e épater le bourgeois con qualche fenomeno sopranormale appreso dalla magia degli Egizi; non può essere chi non rispetta gli uomini con la pretesa di esser lui, o l'irrazionale fede in lui, quella liberazione che ogni vero uomo deve invece conquistarsi da sé e a nessuno permettere che gliela dia; non può essere chi sente il bisogno di proclamarsi ad ogni istante Messia e figlio unico del Supremo, ignorando che la prima massima non di Dèi, ma soltanto di aristòcrati, è di essere senza ostentazione. E per aver netto il senso della differenza, non occorre riferirsi ai tipi mitici dei Semidii pagani - basta riferirsi a qualcuno dei loro uomini. Già quanto più luce che non nel Galileo vi è nella figura di Socrate e dello Spoudaios plotiniano, che calmi ed impassibili si fanno incontro alla morte e alla sciagura, nel chiaro sapere che esse sono nulla rispetto alla fiamma che arde in loro, rispetto alle loro anime superbamente domate! E Epitteto, che al padrone che gli torceva il braccio,sorridendo avvertiva: "Guarda che lo romperai" - e, avendolo rotto: "Tè l'ho detto: l'hai rotto!". "Quanto più 'umano', quanto più vicino a noi, è invece il Cristo!" si dirà. Vicino a voi, non a noi. Ripetiamolo: questa è la mentalità cristiana: l’umano diviene un valore - non se ne vergognano, ma lo adulano, se ne gloriano. Epperò l'"umanità" del Cristo, che è ciò stesso che ce lo fa respingere, in loro diviene titolo di superiorità e motivo di accettazione. Nelle loro menti intrise di passione, i tipi classici appaiono freddi, immobili, senza vita, senza "infinito". Ignorano che questa freddezza significa dominio, fuoco magnificamente contenuto; ignorano che questa immobilità è quella di un moto infinito contratto nel potere di darsi un limite assoluto; ignorano che questa apparente mancanza di vita è l'esaltazione stessa della vita in una forma trascendente e incorruttibile. Noi sospettiamo di tutte le pseudo-virtù del Cristo e dei suoi seguaci, poiché in esse troppo ci dice di semplice travestimento di necessità. Anche noi conosciamo la rinuncia; anche noi conosciamo il sacrificio, la dedizione, il perdono e, come già dicemmo, l'amore. Ma la rinuncia non è permessa a chi non ha: è permessa al Buddha che giovane, bello, regale, tutto arridendogli, dice no al mondo - è permessa allo yogì che, nell'aspirazione a suprema liberazione, si scioglie dai poteri di cakravartì (Signore universale) a cui, con il suo sforzo, è giunto - ma i cristiani troppo poco posseggono per permettersi un simile lusso. E il Cristo stesso, che pur non disdegnava talvolta le messe in iscena, invece di fuggire prima e poi farsi catturare, nella chiara visione degli eventi futuri non avrebbe dovuto disdegnare di presentarsi lui stesso, calmo, dinnanzi ai suoi accusatori, immobilizzarli, far balenare loro la visione dei poteri con cui avrebbe potuto annientarli, e solo dopo mettersi a loro disposizione: allora la sua fine sarebbe stata purificata da quel lato di ignominia, che irrepugnabilmente le conviene; e la procedenza dal volere riscattativo del Padre (per quanto incomprensibile questo sia), sarebbe stata più credibile, nel "Figlio dell'Uomo". Del pari, la cessazione dell'affermazione non è permessa a chi non è capace di affermazione, ne l'umiltà a chi non conosce le altezze, ne l'amore a chi non conosce la condizione della solitudine e dell'inaccessibile essere individuale, ne il perdono a chi non conosca prima la forza che sa imporre rispetto e giustizia. Non vi siano equivoci, su questo punto: manca la prova, nel Cristo e nel cristianesimo, perché tutti i "valori" in proposito, anziché di là dall'uomo, siano prima, al di qua dell'uomo vero e virile. E in quanto un tale uomo è ancora un avvenire lontano per la gran parte dei mortali, la predicazione delle cosiddette "virtù cristiane" non può avere che il senso di un incitamento alla degenerescenza, che va duramente contrastato. Lungi dall'avere il significato ora indicato, esse poggiano tutte sul dualismo, l'incompatibilità, la reciproca esclusione di ordine naturale e ordine sovrannaturale, di immanenza e trascendenza - sia nella persona del Cristo, sia nella dottrina in generale. Lo "spirito" è trascendenza, ed è incompatibile con i valori di questo mondo e del suo demoniaco reggitore: qui è il mondo, là lo spirito, e gli eroi secondo ordine terreno divengono borghesi in confronto a coloro che, abbandonandolo, anelano alla "salvazione". Anche qui, la dottrina è una superstizione fomentata da ignavia. Il dualismo è un errore metafisico ed è un errore morale. La concezione più alta non è quella che dello spirito fa l'"altro" rispetto alla materia e al mondo, ma quella che lo pone nella materia e nel mondo come Signore e invisibile condizione dell'una e dell'altro. Allora come il mondo è il corpo dello spirito, così lo spirito non è veramente che nello splendore di un corpo trasfigurato, di un corpo che si faccia atto, testimonianza della sua essenza vivente. Epperò la via ad esso non è ascesi, distacco, fuga dalla realtà, fede sognante nel Padre e nel "Regno dei Cieli", astratta separazione di naturale e di sovrannaturale, di potenza e spiritualità, ma è invece l'immanente risoluzione del mondo nel valore, spirito che va a fare della realtà, piegata alla sua legge, l'espressione stessa della perfezione della sua attualità. La realtà del mondo va riconosciuta e, a dir vero, come quella del luogo istesso ove da un uomo può trarsi un Dio, dalla "terra" un "Sole". Tale visione del mondo avevano i Misteri alla Mithra; questo senso della vita fu portato dalla tradizione pagana e mediterranea e da essa, di contro all'oscura tragedia del Golgota, scaturirono gli Imperi come gloriose realtà stringenti insieme immanenza e trascendenza, luce divina e luce di vittoria. E così Celso, portando i Giudei dinnanzi a coloro che, identificata Roma alla "Prostituta di Babilonia", minavano le basi della sua grandezza con una propaganda secreta ed illecita di diserzione, di astensione, di sovvertivismo, mostrava l'assurdo di riconoscere il loro Messia in Gesù: il Messia del primo profetismo era il mito glorioso del "Signore degli eserciti", atteso affinchè, alla testa di un popolo eletto, portasse l'Impero mistico della giustizia e dello spirito fra le genti di questo mondo. Ma questo ideale di forza e di luce del popolo ebraico era decaduto col decadere di questo popolo stesso; dileguando le speranze politiche, esso indietreggiò in astratte forme finché la bruta contingenza delle cose reagì su di esso e lo plasmò perentoriamente trasformandolo nel tipo opposto dell'"espiatore" e del "salvatore" secondo i valori di umiltà, di amore e di sacrificio, fino a poterlo ravvisare nella figura di un demagogo seminiziato e rivoluzionario, finito sulla croce.

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