Una "Città proibita". La fine del paganesimo antico (di Lucio Villari)
Senza molta riflessione mi accadeva di dire agli allievi che me lo chiedessero che, se avessi dovuto scegliere per me una religione, avrei scelto il paganesimo antico. Spiegavo che un solo Dio, re, padre e padrone mi sarebbe stato insopportabile, che sarei stato caso mai più propenso ad accettare un divino che si esprime in molte figure, anche contraddittorie, che non sopporto i dualismi anima-corpo, materia-spirito, Dio-mondo eccetera, che sostanziano tanti monoteismi. Approccio superficiale, semplicistico e semplificativo. Avevo come riferimento lo Schiller dell’ode Agli dei della Grecia, sulla cui interpretazione filosofica consiglio di rileggere le pagine di Francesco Gagliardi in Occidente (Bibliotheca, Gaeta, 2002), ma anche il Leopardi della scomparsa delle favole antiche come fine di corpose illusioni, capaci di stimolare i sensi e dar piacere. Oggi ho ritrovato un ritaglio che ho conservato, un articolo che al tempo, forse, non lessi con la dovuta attenzione. Avrebbe potuto propormi una tematica storica (oltre che filosofica) molto stimolante su cui ho conoscenze slegate e che, se troverò tempo e modo, prima o poi dovrò approfondire: quella della fine (procurata) del paganesimo antico. Questo articolo di Lucio Villari, del 1987, nella sua brevità propone da un lato la questione dell’“essere pagani” da intellettuali e da letterati, dall’altro la durezza delle persecuzioni attraverso cui la nuova fede cristiana sconfisse l’antica, il ruolo in questa storia tragica di santi, anche geniali come sant’Agostino, il nesso – dentro il Cristianesimo – tra codeste intolleranze dei Padri della Chiesa universale e quelle con cui oggi ci misuriamo.
Una moneta dell'imperatore Giuliano, detto l'Apostata |
Circondato da alte e invalicabili mura, fatte di ombre e di silenzio, il paganesimo è ancora la Città Proibita della nostra storia.
Proibita non per quel che il paganesimo, cioè il mondo classico, ha inventato e prodotto per oltre un millennio, ma perché quel sentimento o senso pagano dell' esistenza che era insieme religiosità e filosofia, è stato reso impraticabile e straniero.
Il cristianesimo, armato non solo del suo messaggio, ma anche della violenza politica e amministrativa degli imperatori post-costantiniani, ha distrutto quel sentimento, provocando il più grande scisma dell' anima che la storia dell' Occidente ricordi.
Si tratta forse di un argomento inattuale, di questioni che vanno lasciate agli specialisti del mondo antico? Si tratta di problemi non dissimili da quelli posti nelle discussioni su uno scavo archeologico o su un brano di Quintiliano? Non so. E' certo, comunque, che sull'essenza del paganesimo c' è ancora, almeno in Italia, distacco e freddezza: come se le antiquitates paganae fossero solo un serbatoio museale e letterario e non anche un nodo inquietante di dubbi, di domande. Penso, ad esempio, alla curiosità e all' interesse che avrebbe dovuto suscitare un libro di saggi, apparso esattamente venti anni or sono in traduzione italiana: un volume, curato da Arnaldo Momigliano (dal titolo Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV), che raccoglieva i testi di un seminario del Warburg Institute di Londra. Di quei testi, nel clima altrimenti interessante del Sessantotto, solo pochi notarono l'alto livello scientifico e i risultati raggiunti su un problema che uno degli autori, Herbert Bloch, così presentava al lettore: “Non c'è stato nella storia dell'umanità un momento di rottura più profondo di quello che segna la fine del mondo antico e il conflitto finale tra paganesimo e cristianesimo”. Non era una sfida alla nostra sicumera di spettatori di grandi fratture e di grandi eventi contemporanei parlare in questi termini? E soprattutto: quel conflitto finale ci riguarda ancora oppure no?
Per gli storici privi di preconcetti, tutta la vicenda è un intrico che ha tuttavia un capo e una coda. Se mi è permesso un riferimento personale, ricordo che qualche anno fa scrissi su queste pagine un articolo esplicitamente intitolato: Perché non possiamo non dirci pagani. Mi riferivo, tra l' altro, a quel lascito estremo della cultura pagana che fu lo stoicismo, travolto anch'esso dalla furia cristiana, ma mai veramente morto. Si sa infatti che lo stoicismo percorre come un filo rosso il pensiero moderno, dall'umanesimo a Spinoza, all' illuminismo, a Kant, alla Rivoluzione francese; e che esso ha ancora la forza teorica e terapeutica di una filosofia esistenziale, fondata sul piacere di vivere e sulla calma, razionale attesa della morte. In altre parole, lo stoicismo era una forma compiuta di conoscenza che il cristianesimo ha violentemente smembrato appropriandosi di alcuni dei suoi frammenti e sostituendone la lieve religiosità con inquietudini profonde, con una psilé parataxis (come avrebbe detto Marco Aurelio), una mera ostinazione fideistica e irrazionale. E tuttavia, come potremmo pensare perdute per sempre la gioia di vivere spirituale e corporale teorizzata da Panezio, la riflessione di Marco Aurelio sull' autocoscienza, la rivendicazione della responsabilità e dell' autonomia dell' agire (io sono libero) di Epitteto? Non erano questioni astrattamente etiche, perché lo stoicismo comprendeva anche una teoria politica delle relazioni tra individuo, società e Città. Vi era infatti in quella scuola di pensiero una elevata concezione dell' autorità culturale, oltre che morale, dello Stato, cioè di una istituzione scaturita, secondo gli stoici, non dalla solitudine e dalla paura dell' uomo, ma, al contrario, dal suo istinto sociale. Per lungo tempo, comunque, il conflitto tra cristianesimo e paganesimo non si svolse su questi massimi problemi. Come scrive A.H. Jones, sempre nel volume di Momigliano, non bisogna dimenticare che agli inizi il cristianesimo era una religione volgare. Non soltanto i suoi seguaci erano persone di basso ceto e di poca o nessuna cultura, ma anche i suoi libri sacri erano rozzi e pieni di scorrettezze, scritti in un greco e in un latino che urtavano la sensibilità di ogni uomo colto, educato sui testi di Menandro o di Demostene, di Terenzio o di Cicerone. E' difficile oggi rendersi conto della gravità di questo ostacolo. Tuttavia, se il dissenso tra i seguaci della nuova fede e quelli degli dèi falsi e bugiardi fosse stato solo spirituale e culturale, le cose non avrebbero preso la piega tragica che poi in realtà ebbero. Tutto cambiò infatti quando, dopo l'Editto di Milano di Costantino, la religione e le comunità dei cristiani furono sempre più spalleggiate da imperatori convertiti; un appoggio concreto che culminò, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, negli editti e nei codici antipagani di Teodosio.
Con questo fanatico imperatore si giunse, come scrive Arnold Toynbee, alla aberrazione che condusse al disastro; con lui la repressione del paganesimo diventò aperta persecuzione. Quest'ultimo giudizio è di Lidia Storoni Mazzolani, ed è contenuto in una penetrante ricerca su Sant' Agostino e i pagani (Sellerio, pagg. 136, lire 15.000). E' una occasione rara, questa che ci è offerta dall' autrice, per riflettere sulle condizioni politiche che permisero al cristianesimo di divenire religione di Stato e Chiesa trionfante e persecutrice, e sulla mutazione culturale provocata dagli scritti polemici, dalla furia iconoclastica di personalità cristiane come Agostino, o come il suo più severo compagno Ambrogio di Milano. Santi e Padri della Chiesa, sui quali va proiettata peraltro una illuminazione storica particolarmente intensa, atta a rivelare la loro responsabilità nell'avere armato il cristianesimo dell'ideologia della repressione contro qualunque diversità (anche interna alla Chiesa), e soprattutto adversus quel complesso e felicemente squilibrato sistema di idee, di valori artistici e culturali, di tradizioni e di comportamenti spesso innocenti, ai quali diamo il nome di paganesimo. Come dimostra la Storoni Mazzolani nella sua serrata analisi, Agostino fu implacabile nell' azione demolitrice. Il programma del vescovo di Ippona fu organizzato a tutti i livelli della vita sociale, politica e culturale dell'Impero. La sua tesi era che il paganesimo dovesse essere annientato: sia eliminandolo dalle coscienze, sia mediante distruzioni fisiche e materiali. Non solo, ma sul finire del IV secolo, dopo il tentativo di reazione pagana (la breve e struggente meteora dell' imperatore Giuliano l'Apostata), Agostino e Ambrogio fecero di tutto perché il braccio secolare e amministrativo del potere politico comminasse castighi tremendi ai pagani. Via via, scrive la Storoni Mazzolani, i divieti si fecero capillari, penetrarono nei campi dove i riti pagani erano legati alle opere stagionali, nell'interno delle case, nei focolari. Reazione pagana. Ma si trattò soltanto di un tentativo culturale dell'aristocrazia senatoriale e degli intellettuali romani di procedere al restauro dei monumenti che rappresentavano l'antica grandezza di Roma e la sicurezza dell'Impero, all'edizione di testi antichi, all' incremento della produzione artistica. Nel 380, con l'Editto di Tessalonica, l'imperatore Teodosio cominciò a levare la spada contro i pagani: da quel momento in poi niente sarà risparmiato, neppure gli alberi e i boschi sacri dei culti silvani legati alla mitologia e alla poesia della classicità, abbattuti inesorabilmente come riti di una religione insana e demente. Agostino, che fu l'autorità suprema della cristianità tra IV e V secolo, con sermoni lettere opere varie (dall'Adversus Paganos al De Civitate Dei) fu il condottiero dello scisma dell' anima e gettò le fondamenta della nuova èra, soprattutto dopo il sacco di Roma per mano dei barbari nel 410. La Città-simbolo, la patria di tutti era caduta; bisognava edificarne un' altra, nella storia e nelle coscienze. E sarebbe stata imprevedibilmente diversa.
“la Repubblica”, 29 dicembre 1987
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