I Catari e la civiltà mediterranea, Simone Weil, Marietti 1996.

Nonostante una formazione umanistica, di quelle che oggigiorno si definiscono “laiche”, ho sempre ritenuto la religiosità un aspetto fondamentale della natura umana. Ignoro se per condizionamento culturale o perché influenzato intellettualmente dai miti dell’immaginario collettivo, ma sono convinto che sia impossibile non dirsi religiosi, sebbene nelle diverse epoche dell’esistenza umana questa religiosità possa, e forse debba, esprimersi in modi differenti.
Non sono neppure mai riuscito a scindere tra paganesimo e cristianesimo, ritenuti dal primo De Benoist due modi inconciliabili di concepire il mondo. Sulla scia di Rudolf Steiner (1) e di Simone Weil, mi sono presto convinto che il cristianesimo sia, per alcuni aspetti, una continuazione del paganesimo, e che da esso tragga alcune suggestioni: soprattutto da alcuni riti misterici, nonché dalle tradizioni popolari covate sotto lo sfarzo del paganesimo ufficiale. Chiaro, tuttavia, che del cristianesimo non m’interessi l’ufficialità, quella che Risé (2), nella sua postfazione al Parsifal, definisce come l’espressione di “un’Europa burina e baciapile, miscredente e genuflessa per finta dinanzi a papi increduli e disordinati, un’Europa flagello di buona parte del mondo e d’ogni sentimento cristiano”. Del cristianesimo mi hanno sempre interessato gli aspetti più eretici, d’ascendenza paganeggiante e gnostica. Leggendo questo libretto di scritti di Simone Weil sulla civiltà d’Oc, che avevo in libreria da anni, ho sentito rinascere in me l’interesse per questi aspetti. 
Simone Weil, come al solito, riesce scuotermi sia per la coerenza che mantiene in ogni suo scritto (3), sia per la sua parzialità. Questa donna scrive con la soda caustica: impossibile non scottarsi, ma il bruciore sveglia l’attenzione. Così com’è riuscita a strumentalizzare la critica all’Impero Romano per accendere l’attenzione dei suoi contemporanei sulla brutalità dei totalitarismi emergenti, coadiuvati dall’uso arbitrario della “Forza”, qui Simone non sembra neppure troppo interessata a descrivere la civiltà d’Oc, che in una lettera a Déodat Roché ammette di conoscere poco e di voler conoscere meglio. Preferisce invece descrivere una società idealizzata per opporla, come un’immagine di perfezione, a quella in cui viviamo. Uso il plurale, rapportato al presente, in quanto questi scritti sono di un’attualità bruciante: denunciano un perpetuarsi d’errori e di mancanze, il procedere implosivo di una civiltà ormai deprivata d’ogni anelito spirituale.
Le riflessioni sull’idea di progresso di Simone sono più che mai attuali, segno che non siamo mai usciti dalla caverna in cui siamo sprofondati dopo che lo Stato e la Chiesa hanno messo fine alle intuizioni di quello che lei chiama “Rinascimento romanico”. Siamo noi quelli coinvolti, allora come ora. E lei può scrivere: “ L’idea di progresso è l’idea di una generazione graduale, nel corso del tempo, del migliore mediante il meno buono. La scienza mostra che un accrescimento di energia può venire solo da una fonte esterna di energia; che una trasformazione di energia inferiore in energia superiore si produce solo come controparte di una trasformazione almeno equivalente di un’energia superiore in energia inferiore. Il movimento discendente è la condizione permanente del movimento ascendente. Una legge analoga regola le cose spirituali. Possiamo essere resi migliori solo dall’influenza su di noi di ciò che è migliore di noi”.
E in cosa la civiltà del “Rinascimento romanico” sarebbe migliore della nostra, di quella del primo ‘900 e di questo primissimo 2000? Di nuovo Simone deve passare attraverso se stessa e le proprie passioni, estremizzare, tramite il platonismo, un’altra idealizzazione. Questo Rinascimento rappresenterebbe la rinascita dello spirito greco sotto la forma cristiana “che è la sua verità”. Compie, insomma, un salto mortale che solo una pensatrice estrema può permettersi. E aggiunge: “ I migliori tra i Greci sono stati posseduti dall’idea di mediazione tra Dio e l’uomo, di mediazione nel movimento discendente per il quale Dio va in cerca dell’uomo. Questa idea trovava espressione nella loro nozione di armonia, di proporzione, che è al centro di tutto il loro pensiero, di tutta la loro arte, di tutta la loro scienza, di tutta la loro concezione della vita. (…) Roma distrusse ogni traccia di vita spirituale in Grecia”.
Viene da chiedersi di quali Greci stia parlando. In questa Grecia idealizzata sembra non esserci stata la Guerra del Peloponneso, il governo dei Tiranni, e neppure l’Ellenismo. Se già l’amato Platone ha scritto di Socrate chiedendosi perché gli uomini migliori sono destinati a fallire al cospetto dei governi corrotti, diventa spontaneo concludere che i Greci, socialmente, fossero immersi nelle ombre della caverna quanto noi. Eppure, nonostante l’esplicita faziosità di un pensiero che non conosce comunque padroni, gli scritti della Weil attraggono come una vertigine. È chiaro che a lei interessa l’aspetto spirituale della civiltà, e che a suo avviso quest’aspetto, se c’è, contribuisce a nobilitare l’animo umano. Si tratta di un invito a cercarlo, invito che riguarda anche noi che quest’aspetto l’abbiamo smarrito in nome della nuova religione economicista. 
L’idea di una continuità spirituale tra lo spirito greco e il cristianesimo nella sua essenza rimane, tuttora, una delle intuizioni più originali della pensatrice francese, quanto mai attuale in quest’inizio di millennio.

Claudio Ughetto



1) Mi riferisco, qui, non allo Steiner più visionario, ma allo studioso di religioni che anticipa alcune successive intuizioni della moderna antropologia. Un testo su tutti. “Il cristianesimo come fatto mistico”, ed. Antroposofica.
2) Claudio Risé, “Parsifal”, ed. Red 2002.
3) Simone Weil, “Lettere a un religioso”, ed. Adelphi 1996.